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venerdì 8 agosto 2025

VIVERE o MORIRE ?

 


 La libertà 

non è mai astratta.



 

-       di Mauro Magatti:

 È giusto che ciascuno possa scegliere se e quando avere figli, così come è importante che si possa esprimere la propria volontà rispetto alla fine della vita.

Tuttavia, la libertà individuale, da sola, non è sufficiente.

Non si nasce né si muore in astratto, ma dentro un sistema di relazioni, servizi, strutture materiali e simboliche.

Nascere e morire, venire al mondo e lasciarlo.

Per secoli, le soglie fondamentali della vita sono state considerate eventi naturali, inscritti dentro ritmi biologici e regolati da culture stabili di matrice religiosa.

In pochi decenni è cambiato tutto.

Il combinarsi dell’innovazione tecnologica (si pensi, per fare l’esempio più banale, alla pillola) e dei mutamenti culturali fanno si che oggi la nascita e la morte non siano più vissute come eventi dati, ma come «fatti sociali».

Si «decide» se, quando e come mettere al mondo, spesso dopo lunghi percorsi di valutazione, attesa e progettazione.

E così per il morire: si può essere tenuti in vita artificialmente, oppure affrontare la questione del fine vita tra scelte mediche, dibattiti etici, richieste di accompagnamento e di autodeterminazione.

In questo scenario, l’elemento naturale, che pure resta, si ridefinisce in rapporto a una rete di dispositivi tecnici, norme giuridiche, pratiche sociali e aspettative soggettive Il che comporta un aumento della complessità, che si traduce poi in un sovraccarico di responsabilità individuali, sociali e istituzionali.

Decremento demografico

Le grandi questioni demografiche che agitano il nostro tempo sono la concretissima ricaduta di questi cambiamenti profondi.

E della capacità (o meno) di dare risposte adeguate.

Nei Paesi sviluppati (in primis in Italia), la natalità è in costante calo.

Non che le persone non desiderino avere figli.

Ma farlo non bastano più l’istinto, l’amore o il caso.

Servono tutta una serie di condizioni che vanno socialmente curate e rese disponibili: un lavoro stabile, una casa accessibile, servizi per l’infanzia, supporti relazionali e comunitari.

E anche quando tutto questi elementi sembrano esserci, la scelta di diventare genitori è comunque esposta a incertezze e paure che rispecchiano l’instabilità del tempo presente.

L’invecchiamento

La stessa cosa vale per l’invecchiamento. E anche qui l’Italia è in testa alle classifiche.

L’allungamento della vita è uno dei grandi successi della modernità.

Ma ciò fa emergere nuove sfide. L’accanimento terapeutico, la medicalizzazione estrema, la solitudine degli anziani, il venir meno delle reti familiari e comunitarie hanno trasformato l’ultima fase della vita in un processo lungo, spesso disumanizzante.

Di conseguenza nascono nuove domande: come accompagnare la vita fino alla fine in modo dignitoso, consapevole, umano?

Quando e come può essere presa la decisone di porre fine alla propria vita?

In questo quadro si inserisce la crescente attenzione alle cure palliative, ai percorsi di fine vita, alle richieste di autodeterminazione espresse da chi si trova in situazioni di sofferenza irreversibile.

Anche qui, come per la nascita, la dimensione istituzionale, per quanto importante, non basta: occorre un contesto sociale e culturale che permetta di affrontare la morte non come una rimozione o una tecnica, ma come parte costituiva dell’esperienza umana, da vivere nel modo più degno.

In entrambi i casi — nascere e morire — il tema della libertà individuale è centrale.

È giusto che ciascuno possa scegliere se e quando avere figli, così come è importante che si possa esprimere la propria volontà rispetto alla fine della vita.

Tuttavia, la libertà individuale, da sola, non è sufficiente.

Non si nasce né si muore in astratto, ma dentro un sistema di relazioni, servizi, strutture materiali e simboliche.

Se una donna non può contare su un sistema di asili, su un’abitazione dignitosa o su una rete di sostegno, la sua libertà di diventare madre sarà una libertà solo formale.

Se una persona gravemente malata non ha accesso a cure palliative adeguate, a un accompagnamento psicologico o a un supporto familiare, la sua libertà di affrontare la morte è di fatto gravemente compromessa.

Le leggi sono necessarie, ma non sufficienti.

Servono investimenti adeguati nelle infrastrutture sociali: nei servizi pubblici, nella formazione degli operatori, in una cultura condivisa della cura, della responsabilità e della dignità della vita, in tutte le sue fasi.

Occorre, cioè, la cura delle condizioni sociali che rendono sensato e possibile ciò che una volta veniva inscritto nell’ordine naturale.

Cò significa che il modo in cui una società si rapporta alla nascita e alla morte oggi dice moltissimo della sua qualità etica e politica.

Oltre che delle sue possibilità economiche.

Definire la cornice dei diritti individuali è il primo passo.

Ma occorre poi costruire le condizioni concrete che permettano a ciascuno di attraversare i passaggi fondamentali dell’esistenza in modo umano, accompagnato, riconosciuto.

Oggi più che mai, occorre recuperare una visione integrale della vita, che tenga insieme libertà e responsabilità, individuo e società, diritto e cura.

Solo così potremo affrontare con dignità e senso le grandi soglie dell’umano: venire al mondo e lasciarlo.

 Corriere della Sera

 

martedì 8 aprile 2025

IL DIRITTO ALLA SPERANZA

 


Il cardinale presidente della CEI invia un messaggio al convegno “La speranza cura: quale diritto nella malattia inguaribile?” tenutosi   presso il Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia, a Roma

 


Vatican News

“Riflettere se ci sia, in questi tempi di cambiamento d’epoca e di guerre palesi e latenti, un diritto alla speranza”. Questo lo spunto alla riflessione offerto dal cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della CEI, ai partecipanti al convegno La speranza cura. Quale diritto nella malattia inguaribile?. L’appuntamento si svolge oggi, 4 aprile, nel Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia, in occasione dei quindici anni dall’entrata in vigore della legge n. 38 del 2010 sulle cure palliative e la terapia del dolore e nell'ambito del Giubileo degli Ammalati e del Mondo Sanitario. 

L'ombra dell'eutanasia

In un messaggio letto durante i lavori e indirizzato ai relatori - medici, psicologi, avvocati, docenti di Diritto costituzionale – il cardinale parla di una doppia dimensione del diritto alla speranza: “La prima – scrive - nasce dalle relazioni umane, dalla vicinanza, dalla solidarietà, quella per cui nessuno deve mai essere lasciato da solo”. Zuppi cita le parole di un discorso del 2018 di Papa Francesco – quello ai partecipanti al IV Seminario sull’Etica nella gestione della salute: “Stiamo vivendo quasi a livello mondiale una forte tendenza alla legalizzazione dell’eutanasia. Sappiamo che, quando si fa un accompagnamento umano sereno e partecipativo, il paziente cronico grave o il malato in fase terminale percepisce questa sollecitudine. Persino in quelle dure circostanze, se la persona si sente amata, rispettata, accettata, l'ombra negativa dell'eutanasia scompare o diviene quasi inesistente, poiché il valore del suo essere si misura in base alla sua capacità di dare e ricevere amore, e non in base alla sua produttività”.

Ecco, scrive il presidente della Conferenza Episcopale italiana, “questa è vera speranza e a questa tutti hanno diritto. E una terapia umana integrale. Si nutre di relazione e di cura. È lo sguardo della persona malata sulla propria malattia, cui si unisce la prospettiva sia del curante sia della comunità tutta”.

"Non siamo soli nella speranza"

L’altra dimensione del diritto alla speranza, “nasce dalla Croce e dalla Risurrezione di Cristo”, assicura il cardinale Zuppi. “La speranza è un rapporto di cooperazione tra noi, tra ciascuno di noi, e il Signore della Vita. Non siamo soli in questa speranza: questa è virtù teologale perché impregna il nostro agire e il nostro pensare, impregna positivamente la nostra esistenza. Ci allontana dai nostri egoismi impegnandoci nella costruzione di società fraterne. Questa speranza è un diritto che non è sancito da una qualche umana convenzione, o carta valoriale, ma da un impegno già compiuto da parte di Dio”. Da qui un invito conclusivo: “Lasciamoci inserire in questo cammino giubilare di speranza”.

 Vatican News

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sabato 10 agosto 2024

UNA LUCE NEL BUIO

 La Pontificia accademia per la vita apre una crepa sull'eutanasia - La  Verità 


C’è un grande

 bisogno 

di chiarezza 

e dialogo

 sul fine vita

 

- -di Giuseppe Anzani

 

Dialoghi di vita e di morte, a che punto è la notte? Chissà se abbiamo finito di decifrare la sentenza della Corte costituzionale n. 135 del mese scorso, e capire ciò che ha ribadito sulla inviolabile tutela della vita e quanto ha slargato i pertugi dell’assistenza al suicidio. Ma attenzione: il giudizio della Consulta non è il Codice del fine vita. Esso si innesta in modo “incidentale” in un processo penale dove l’aiuto al suicidio è l’imputazione. Quel delitto rimane delitto, e solo in casi speciali non viene punito. Il Parlamento è invitato a far legge (senza troppa voglia, col solito rischio di supplenze giudiziarie). Ma un conto è il “nuovo” art. 580, un altro conto è la questione di fondo sulla morte volontaria, che alcuni propongono come diritto individuale. Qui irrompono gli orizzonti etici e giuridici.

 La vita è per ogni essere umano il dono d’una identità ricevuta. Così unica, così grande per ogni piccolo uomo, nell’immenso universo. Fragile e preziosa, ogni vita accresce la bellezza della storia dell’Essere. Essa prende senso e restituisce senso alle altre vite in essenziale legame relazionale. Ci apparteniamo, ognuno tutti; siamo famiglia umana, siamo villaggio umano. Ci allietano i nati, ci addolorano i morti. Ci è istinto “la santa voglia di vivere”, ci è destino l’appuntamento con la morte. L’arte medica s’ingegna di rimandarla, con gli umani miracoli delle sue cure e delle sue invenzioni, ma alla fine si arrende. Ora ognuno avverte che c’è nella parola “fine” un problema di senso; la vita si perde o si compie? Si annienta o varca una soglia? E persino chi nega, o rinnega, domande così, avverte che la vita ha una sua infinita dignità in tutto il suo corso, e che un fondamentale principio etico chiede la sua protezione. Né suicidio né eutanasia sono eticamente accettabili.

 Eppure ci sono leggi nel mondo (in pochi Paesi, per il vero) che ammettono l’eutanasia e il suicidio assistito. Vi sono teoremi, anche da noi, che celebrano la morte volontaria come diritto di libertà (liberi fino all’ultimo di decidere quando e come morire), con un attivismo che cerca, e procura, le occasioni dei casi limite per far breccia nel muro delle norme di tutela della vita. Il punto di forza di questa deriva è la seduzione dell’individualismo libertario. E su qualcosa riesce a spuntarla, quando la libertà si confina in se stessa, nella sfera privata, senza apparente danno sociale. Proprio qui può accadere la divaricazione fra l’etica (ciò che è buono) e la legge che si contenta del “minimo etico” sul piano sociale (ciò che è ammesso). Proprio qui si innescano allora i dibattiti senza fine fra chi sostiene che ciò che la legge ammette è giusto e buono di suo e chi in nome dei principi etici non negoziabili rifiuta che le leggi dettino norme ammissive di condotte immorali.

 Non senza equivoci incrociati, per i differenti linguaggi. Per esempio la legge 219 del 2017 sulle Dat (le Disposizioni anticipate di trattamento). Un suo caposaldo è il consenso informato; e il corollario del possibile rifiuto d’una terapia salvavita, o di un trattamento di sostegno vitale, lasciandosi morire. La scelta del paziente (da caso a caso, se si tratti di accanimento o di terapia proporzionata) può essere eticamente giusta o sbagliata, ma dal lato giuridico è escluso che gli si infligga a forza la terapia rifiutata. Chi vede in ciò una forma di eutanasia sbaglia alfabeto.

 E proprio a una sintesi di alfabeto provvede ora il “Piccolo lessico del fine-vita” pubblicato dalla Pontificia Accademia per la Vita. L’impressione di fondo, lo spirito che lo muove, è il bisogno di chiarezza: capirsi, e per questo ascoltarsi, e parlarsi, e non andarsene via dal dialogo, che è tavolo d’attesa di mediazioni possibili, e non un ring. C’è chi ha voluto accentuare, nei commenti, le “aperture” nuove; alcuni salutandone il coraggio, altri biasimandone l’azzardo.

 Ma gli uni e gli altri con scarsa alfabetizzazione, se hanno trascurato i capisaldi operativi del documento, in tema di cura, di accompagnamento, di presenza solidale, di relazione; e con quella sollecitudine che muove dal Vangelo, e sta sullo sfondo come un pedale d’organo. È questo il succo: i trionfi della morte sono il fallimento dell’amore. L’amore cura la vita, sempre. Ma l’amore comanda anche di restare lì, di interloquire anche nella sfera terrestre, di cercare che il punto di mediazione raggiungibile nelle “leggi imperfette” sia il più rispettoso possibile dei valori etici. Anche nella notte, qualche luce.

www.avvenire.it

 PICCOLO LESSICO SUL FINE VITA

 

 

venerdì 17 giugno 2022

EUTANASIA, UNA MORTE AGOGNATA?


 Un dolente addio alla vita

«Non nego che mi dispiace congedarmi dalla vita, sarei falso e bugiardo se dicessi il contrario perché la vita è fantastica e ne abbiamo una sola. Ma purtroppo è andata così. Ho fatto tutto il possibile per riuscire a vivere il meglio possibile e cercare di recuperare il massimo dalla mia disabilità, ma ormai sono allo stremo sia mentale sia fisico».

Sono le parole con cui si è congedato Federico Carboni, 44enne di Senigallia, fino a ora conosciuto come “Mario”. È il primo italiano ad aver chiesto e ottenuto l’accesso al cosiddetto “suicidio” medicalmente assistito, reso legale dalla sentenza della Corte costituzionale 242/2019 sul caso Cappato – Antoniani.

Già da tempo, sulle orme di questa sentenza, è stato presentato nel nostro Parlamento il disegno di legge “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita” , già approvato dalla Camera il 10 marzo 2022 e ora all’esame del Senato. In esso si stabilisce:

«1. Può fare richiesta di morte volontaria medicalmente assistita la persona che, al momento della richiesta, abbia raggiunto la maggiore età, sia capace di intendere e di volere (…). 2. Tale persona deve altresì trovarsi nelle seguenti concomitanti condizioni: a) essere affetta da una patologia attestata dal medico curante o dal medico specialista che la ha in cura come irreversibile e con prognosi infausta, oppure essere portatrice di una condizione clinica irreversibile, che cagionino sofferenze fisiche e psicologiche che la persona stessa trova assolutamente intollerabili; b) essere tenuta in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente».

Cultura della morte?

Nel caso di Federico Carboni – e secondo la sentenza della Corte ora rispecchiata nel testo del Disegno di legge – siamo effettivamente davanti a un caso-limite. Da dodici anni, a causa di un incidente stradale, era completamente immobilizzato dal collo in giù. Completamente. Ha resistito a lungo allo scoraggiamento e ai tremendi disagi della sua condizione estrema. Poi non ce l’ha fatta più.

Si può sostenere che, in una visione ideale ed eroica dell’esistenza, non ci sono prove che non si possono accettare. Ma le leggi dello Stato non sono destinate a regolamentare il comportamento degli eroi e dei santi. Da parte di un essere umano condannato a una vita insopportabile e senza speranze di guarigione – in totale dipendenza da interventi esterni che ne consentono artificialmente il prolungamento -, chiedere che venga sospeso questo trattamento involontariamente crudele non sarebbe un rifiuto della vita, ma la presa d’atto che essa ormai è finita.

E così l’ha inteso Federico Carboni: «La vita è fantastica e ne abbiamo una sola. Ma purtroppo è andata così. Ho fatto tutto il possibile per riuscire a vivere il meglio possibile». Non si può parlare di “cultura della morte”. Siamo vicini a una logica che la stessa Chiesa cattolica ha sempre riconosciuto eticamente legittima, quella del rifiuto dell’accanimento terapeutico.

 Il problema dell’accanimento terapeutico

Scrive Giovanni Paolo II nelle Evangelium vitae: «Da essa [dall’eutanasia] va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto “accanimento terapeutico”, ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia.

In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza “rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi” (Congregazione per la Dottrina della Fede).

Si dà certamente l’obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte» (n. 65).

C’è una fondamentale differenza, tuttavia, tra questa linea di pensiero e ciò che è avvenuto nel caso di Federico Carboni, sulla scorta delle indicazioni della Consulta e del testo del Disegno di legge, ed è il fatto che qui non si è soltanto sospeso il trattamento medico straordinario richiesto per mantenere in vita una persona in quelle condizioni, ma lo si è aiutato a ingerire un farmaco letale, attraverso una apposito macchina.

Il caso meno pubblicizzato di Luca Ridolfi

Proprio su questo punto si è scatenata la pubblicità data al suo gesto. Molto minore eco ha avuto la vicenda di Luca Ridolfi, quasi contemporanea nel tempo (la sua morte risale a pochi giorni fa, il 12 giugno) e molto simile sotto molti aspetti a quella di Federico Carboni. Quarantasei anni, anche lui bloccato a letto da ben 18 anni per una tetraparesi che l’aveva completamente paralizzato, anche Luca Ridolfi a un certo punto non ce l’ha fatta più.

Però, invece di ricorrere al suicidio assistito (anche se ci aveva provato, ma era stato bloccato da difficoltà burocratiche), Ridolfi si è appellato alla legge 219 del 2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, la quale prevede il diritto del malato di revocare il consenso rispetto al trattamento in atto.

Se il trattamento è di supporto vitale, la sua sospensione determina la morte della persona. Non si tratta di assumere alcun farmaco, ma di lasciare che la mancata autonomia del corpo, non più artificialmente supportato, produca il suo effetti naturali. Per evitare le sofferenze che conseguono a questa scelta, è prevista – ed è stata effettuata nel cosa di Luca Ridolfi – la sedazione profonda del paziente.

In realtà anche qui ci sono degli elementi che distinguono questa soluzione – pienamente conforme alla nostra attuale legislazione (a prescindere dalla futura approvazione del disegno di legge all’esame del Senato) – dalla pura e semplice rinunzia all’accanimento terapeutico, prevista come legittima dalla Chiesa, ed è il fatto che anche nutrizione ed idratazione sono considerati dalla legge 219 trattamenti terapeutici e non normali supporti della vita degli organismi, com’è secondo la morale cristiana.

Una differenza importante, che risulta ridimensionata, secondo alcuni, dal fatto che a volte, per nutrire e idratare un corpo, è necessario il ricorso a tecniche del tutto artificiali. In ogni caso, siamo davanti a una variante che è molto più vicina all’ipotesi del rifiuto dell’accanimento terapeutico, perché non implica un atto diretto a provocare la propria morte, come è stato, nella vicenda di Federico Carboni, l’ingestione di una pillola letale.

La proposta alternativa di Marco Cappato

Marco Cappato, che è stato, anche nella vicenda di Federico Carboni, in prima linea, a nome dell’associazione «Luca Coscioni», ha approfittato dell’occasione per sottolineare le sue riserve sul disegno di legge. In alternativa ad esso, aveva presentato, con enorme successo – un milione e duecentomila firme! – , una proposta referendaria, bocciata poi dalla Corte costituzionale, per abolire la punibilità non solo di chi (come in questo caso) assiste il suicidio di un malato inguaribile e sofferente, ma anche l’omicidio del consenziente, quali che fossero le sue ragioni per desiderare la morte. È su quella prospettiva che evidentemente, confortata dall’ampio consenso ricevuto, l’associazione “Luca Coscioni” continua a puntare.

È evidente, però, la profonda diversità tra le due vicende sopra esaminate e la proposta di Cappato. In essa davvero si pretende di affidare all’arbitrio soggettivo – a prescindere da situazioni patologiche estreme che rendono oggettivamente comprensibile la scelta – la decisione di farsi uccidere per un qualsiasi motivo.

Una esaltazione della libertà illimitata dell’individuo, sganciata da ogni responsabilità e da ogni esigenza socialmente riscontrabile. Si capisce perché la Corte costituzionale abbia bloccato questo referendum, preoccupata dell’effetto che una simile legittimazione dell’omicidio del consenziente, avrebbe potuto avere sulle personalità più deboli. Ma è anche impressionante che un milione e duecentomila italiani abbiano firmato una proposta che veicola questa idea distorta di libertà.

Su questa linea si colloca, probabilmente, la ben diversa pubblicizzazione della vicenda di Luca Ridolfi e di quella di Federico Carboni. La prima, non essendo un suicidio, si prestava di meno a pubblicizzare l’ideologia della libertà assoluta dell’individuo.

Eppure, forse, è proprio a partire da essa che il dibattito etico, anche all’interno della Chiesa, potrebbe svilupparsi. È dal tempo del caso Welby che, pur continuando sulla carta a condannare l’accanimento terapeutico, la gerarchia ecclesiastica appare più pronta a condannare che ad interpretare problematicamente le situazioni estreme del fine vita.

Non si tratta di cedere alle mode imperanti, ma di non lasciarsi imprigionare da una propaganda ideologica che sottolinea solo gli aspetti della cronaca in contrasto con la morale cristiana, cercando di passare sotto silenzio le possibili convergenze tra la Chiesa e la sensibilità degli uomini e delle donne di oggi. Di fronte a situazioni nuove, trincerarsi sui “no” fa correre il rischio di gettare l’acqua insieme al bambino.

 *Pastorale Cultura Diocesi Palermo

 www.tuttavia.eu

venerdì 21 gennaio 2022

NON DAREMO LA MORTE !


 Manifesto dei medici cattolici contro l’eutanasia

L’Amci pubblica un documento che spiega la necessità di contrastare le derive legislative eutanasiche e che chiede di applicare la legge del 2010 sulle cure palliative. Il testo arriva mentre il Parlamento italiano prosegue l’esame del Ddl Bazzoli sul fine vita. Il presidente Boscia: cultura mortifera alimentata dai problemi del sistema sanitario

-Marco Guerra – Città del Vaticano

L’Associazione dei Medici cattolici italiani (Amci) torna a ribadire la sua contrarietà rispetto ogni eventuale deriva mortifera della legislazione e del sistema sanitario, con un manifesto che spiega le ragioni dal titolo: “Il medico è per la vita, no al disumano ragionevole per pietà”. I camici bianchi cattolici diffondono questo testo nell’attuale cornice politica, che vede ben due iniziative in favore dell’eutanasia e del suicidio assistito: una è il referendum che mira a depenalizzare l’art. 579 del Codice penale che punisce l’omicidio del consenziente (quesito la cui legittimità sarà valutata nelle prossime settimane dalla Consulta); l'altra è rappresentata dal disegno di legge Bazzoli sul fine vita in discussione al Parlamento.

Non scambiare il disumano per pietà

Il manifesto dei medici cattolici ribadisce l’assoluta incompatibilità tra l’agire medico e l’uccidere, la necessità di garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore su tutto il territorio nazionale e denuncia il pericolo di abbandono terapeutico per tutti i soggetti fragili ai quali vorrebbero offrire la “dolce morte” piuttosto che cure mediche e prossimità umana. Si esorta quindi a “non scambiare il disumano per pietà”. Il testo a firma del presidente dell’Amci, Filippo Maria Boscia, mette in evidenza che “alcuni iniziano a distinguere tra 'vita' e 'non vita', tra 'degna' e 'non degna', tra il 'morire con dignità' e il 'morire senza dignità', etichettando così, con soggettivi giudizi, molte condizioni di vita fragile".

“Riconosciamo che la richiesta di suicidio assistito o di eutanasia nasce sovente dal rifiuto di continuare a vivere in condizioni di precarietà e grave sofferenza - si legge ancora - ma dovremmo essere molto attenti a non accettare con facilità il disumano per pietà, il disumano ragionevole per compassione”. L’Amci riconosce poi che una morte degna è da assicurarsi a tutti: questo è un principio essenziale del curare e questa azione non può trovare scorciatoie rispetto a pratiche di sostegno e di accompagnamento dell’ammalato nelle fasi ultime della sua vita. Chiara anche la difesa dei principi deontologici e dell’obiezione di coscienza, il suicidio assistito e l’eutanasia - ribadiscono - "non sono opzioni terapeutiche possibili o praticabili nell’alleanza medico-paziente e nella relazione di cura e di fiducia". 

Attuare subito legge su cure palliative 

Per tutti questi motivi l’Amci chiede che lo Stato non giunga a negare forme di assistenza e tutela a malati cronici, anziani, disabili e malati di mente, avvalorando forme di eutanasia sociale o selezione dei fragili e dei deboli, ed esorta le amministrazioni pubbliche ad attuare le grandi potenzialità della legge 38/2010 per garantire l’accesso alle cure palliative e alla “terapia del dolore” accompagnando questo alla “necessità di mantenere i malati terminali in un percorso esistenziale, sostanziato al massimo da rapporti umani ed affettivi”. Questo forzo, secondo l’Amci, rappresenta “un’opportunità di dialogo e perfezionamento assistenziale verso l’eubiosia (contrario di eutanasia), cioè buona vita, vera sfida per un rinnovato umanesimo della cura”. 

Boscia (Amci): temiamo la cultura eutanasica

“In questo ultimo periodo la rilevanza del ‘bene vita’ va sfilacciandosi sotto il peso dell’esaltazione delle libertà individuali, in un momento particolare della pandemia in cui negli ospedali si registra il rifiuto delle cure”. Così il presidente dell’Amci, Filippo Maria Boscia ai nostri microfoni approfondisce i punti più importanti del Manifesto. “Come medici impegnati per la cura - prosegue - dobbiamo mettere in luce la differenza tra il lasciar morire e il far morire”. Secondo il presidente dei medici cattolici, stiamo vivendo in cultura eutanasica alimentata da alcuni problemi del sistema sanitario come gli ospedali pieni, il rinvio dell’assistenza e degli interventi e l’abbandono delle famiglie e dei pazienti. “Quando si percepisce di non essere accettati nella malattia – spiega ancora – vien voglia di dire facciamola finita ma è proprio qui che dobbiamo centrare la questione”.

Prossimità e cura per combattere la cultura della morte

Il dottor Boscia evidenza il bisogno di malati e disabili di vivere relazioni di prossimità: “È questo che manca e che spinge la gente a chiedere la morte. Non abbiamo alternative come medici, possiamo solo esercitare per la vita, la depenalizzazione dell’eutanasia non ci può entusiasmare, se ci chiedono di aiutare a morire compromettono le basi del bene comune e principi di solidarietà e giustizia verso i più fragili, è una questione di civiltà".

Ragioni economiche dietro l’eutanasia

Il presidente dell’Amci si sofferma, infine, sull’importanza della terapia del dolore: “Le malattie non curabile non esistono, ci sono malattie inguaribili croniche ma queste vanno maggiormente curate perché abbiamo difronte un malato più fragile degli altri". Per Boscia la deriva mortifera ha anche ragioni legate alle scelte di allocazione delle risorse, “perché curare i più fragili costa”. Boscia esclude quindi qualsiasi tipo di “avvicinamento” dei medici cattolici a un testo di legge eutanasico: “Faremo un cammino di ascolto ma che deve essere partecipato da tutti i battezzati nella Chiesa”. “Il grido per l’eutanasia è un grido di allarme di chi soffre – conclude – ma quando noi medici ci avviciniamo a questo dolore si crea un dialogo educativo, che dovrebbero conoscere anche i giovani, perché parliamo del passaggio più umano della nostra vita”.

Vatican News

 

 

sabato 4 settembre 2021

EUTANASIA. LIBERTA' DI VIVERE E DI MORIRE


-di  Giuseppe Savagnone *


Le attuali iniziative per legalizzare l’eutanasia…

Assorbiti dalle controversie sull’obbligatorietà o meno dei vaccini, la maggior parte degli italiani probabilmente non si è neppure resa conto dell’imminenza di una svolta legislativa che legalizzerà l’eutanasia. Una svolta che – per quanto paradossale possa apparire, in questo momento, in cui il problema fondamentale sembrerebbe quello di restare vivi – garantirà il diritto di morire.

A dirlo sono alcuni fatti di questi ultimi giorni, a cui non tutti, forse, hanno prestato attenzione. Da un lato, il clamoroso successo della raccolta di firme, promossa dall’associazione “Luca Coscioni”, per chiedere un referendum che abroghi l’art. 579 del nostro Codice penale, nella parte in cui prevede la condanna per chi uccide, col suo consenso, un maggiorenne sano di mente e il cui consenso non sia stato estorto con violenza o con inganno. La raccolta di firme, partita il 21 giugno, ha già superato, in brevissimo tempo, trionfalmente, la soglia minima di 500.000 adesioni e si avvia verso le 800.000.

Dall’altro lato, lo scorso 6 luglio è stato approvato dalle commissioni riunite Giustizia e Affari sociali della Camera il testo base della proposta di legge sull’eutanasia, che si adegua alla sentenza della Corte Costituzionale del 25 settembre del 2019, in cui si scagionava l’esponente dei Radicali Marco Cappato, accusato di istigazione e aiuto al suicidio dichiarando parzialmente incostituzionale l’art. 580 del Codice penale che regolava questa materia

… E la loro diversità

Le due iniziative sono chiaramente diverse, sia per le modalità – la prima mira all’indizione di un referendum popolare, la seconda segue la via parlamentare –, sia per l’obiettivo immediato: la prima riguarda l’omicidio di una persona consenziente, la seconda esime da ogni responsabilità il medico che abbia dato assistenza e chiunque abbia aiutato a praticare l’eutanasia a una persona affetta da una malattia «a prognosi infausta e irreversibile».

L’obiettivo della richiesta di referendum è, come si è detto, la modifica del testo dell’art. 579 del Codice penale che, dopo l’eventuale abrogazione di alcune sue parti, diventerebbe: «Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: contro una persona minore degli anni diciotto; Contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; Contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno».

Non sarebbe più reato, insomma, uccidere una persona col suo accordo, a meno che non ci siano motivi per sospettare che la sua volontà sia viziata dalla minore età, da infermità mentale, da droghe o da violenze.

L’obiettivo della proposta di legge è, invece, di sottrarre alle disposizioni che sanzionano l’istigazione o aiuto al suicidio (art 580 Codice penale) e l’omissione di soccorso (art. 593 Codice penale) il personale sanitario e amministrativo che dà il suo apporto alla procedura di morte volontaria medicalmente assistita, così come chiunque abbia agevolato il malato ad attivare la procedura, purché essa sia avvenuta nel rispetto delle disposizioni di legge, e cioè:

«Se la richiesta di morte volontaria medicalmente assistita è stata formulata da una persona maggiore d’età, capace di intendere e di volere, e la sua volontà è stata libera, consapevole e inequivocabilmente accertata;

Se la persona richiedente è stata affetta da una patologia irreversibile o prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile e sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; se la persona richiedente sia stata affetta da una patologia che le provocava sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili».

Salta agli occhi la differenza: la richiesta di referendum, oltre a riguardare un atto di “eutanasia attiva”, dunque un vero e proprio omicidio (pur giustificato, secondo i promotori), e non solo l’assistenza a un suicidio, prevede, come la proposta di legge, le condizioni riguardanti l’integrità della volontà del consenziente (il primo punto), ma non le altre previste dal testo all’esame del Parlamento, e cioè patologia irreversibile e presenza di trattamenti di sostegno vitale (il secondo punto); sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili (terzo punto).

Si spiega, così, perché Marco Cappato, anima dell’Associazione «Luca Coscioni», si sia detto insoddisfatto dell’iniziativa parlamentare, lamentando sia il mancato riconoscimento dell’ “eutanasia attiva”, che consisterebbe nella somministrazione del farmaco necessario a morire da parte del medico, sia l’esclusione dei malati di tumore, spesso non sottoposti a trattamenti di sostegno vitale.

La sentenza della Corte Costituzionale

Può essere significativo, per dare una valutazione di queste due diverse impostazioni, andare a vedere le motivazioni con cui la Corte costituzionale aveva, due anni fa, dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 580 del Codice penale. Nella sua pronuncia, la Corte non aveva accolto l’impostazione radicale sostenuta dal giudice che aveva sollevato la questione (e che mirava a dichiararne in blocco l’incostituzionalità dell’articolo): secondo la sua valutazione, di per sé l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, così come quella della istigazione, non è incompatibile con la Costituzione, ma è «funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio»; in questa ottica, continua la sentenza della Corte costituzionale, la incriminazione prevista dall’art. 580 «assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere».

La Corte, continua il testo della sentenza, riteneva tuttavia di aver individuato «una circoscritta area di non conformità costituzionale» dell’art.580, «corrispondente segnatamente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

Come si vede, sono precisamente le condizioni che la proposta di legge attualmente all’esame del Parlamento prevede perché l’eutanasia sia ammissibile.

La maggior parte di queste condizioni sono assenti nella richiesta di referendum che quasi 800.000 italiani hanno sottoscritto. Mirando alla pura e semplice abrogazione della norma penale sull’omicidio del consenziente, essa non tiene alcun conto delle condizioni concrete di scoraggiamento e di abbandono in cui la “libera” scelta del soggetto spesso si realizza e assume l’idea di autonomia nella sua forma più astratta. Una volta abrogata quella norma, chiunque cagiona la morte di un essere umano, col suo consenso, non sarà più punibile – salvo i casi del minore, dell’infermo di mente, e gli altri simili.

Al di là dei casi concreti, una logica

Potrà capitare, così, che uomini e donne che questa società mette spietatamente ai margini – siano essi malati oppure semplicemente soli, avviliti o portati a pensare di essere dei “falliti” (nella formula referendaria non c’è riferimento a stati patologici insopportabili) – vedano così legittimata la loro voglia di “farla finita” con l’aiuto di qualcuno che li uccida. Se il referendum andrà in porto e avrà il sostegno dell’opinione pubblica, come è presumibile alla luce del travolgente successo della raccolta di firme, avremo sancito l’idea che ci sono dei “rottami”, la cui vita non vale la pena di essere vissuta. È la logica spietata del neocapitalismo, con al sua corsa al successo, che prevede vinti e vincitori e che, invece di aiutare i primi a risollevarsi, apre loro le porte perché “tolgano il disturbo”.

In realtà questa logica è presente nell’eutanasia come tale, anche nella forma molto più controllata della proposta di legge. Ma, dove ci sono «patologia irreversibile o prognosi infausta o una condizione clinica irreversibile e si sia tenuti in vita «da trattamenti di sostegno vitale» artificiali, con «sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili», ci si può chiedere se non siamo ai confini con il problema dell’accanimento terapeutico, che anche la Chiesa cattolica rifiuta decisamente.

Certo, aiutare una persona malata ad uccidersi non è mai la stessa cosa che lasciarla morire senza infliggerle inutili sofferenze. Una condizione estrema rende però almeno comprensibile, anche se non giustificabile, che chi non ha i princìpi e la forza interiore per affrontare una condizione disperata, possa voler morire e chieda allo Stato di legittimare la sua scelta. Ma questo è molto diverso che sancire il diritto di uccidere indiscriminatamente chiunque lo voglia, in nome di una libertà astratta che nella realtà rischia di essere soggetta, come dice la Corte costituzionale, a «interferenze di ogni genere».

Al di là dei casi concreti, che possono essere drammatici e che nessuno ha il diritto di giudicare, le leggi sono espressione di una società e del suo modo di vedere le persone e la vita. Forse almeno qualcuno di coloro che hanno firmato la richiesta di referendum dovrebbe chiedersi qual è il senso che la sua scelta, consapevolmente o inconsapevolmente, attribuisce ad entrambe.

 *Pastorale Scolastica Diocesi Palermo

 www.tuttavia.eu

 

 

 

domenica 5 marzo 2017

LA MORTE DI DJ FABO: distinguere per capire meglio

Sul suicidio di Dj Fabo si è scritto molto “a caldo” (l’ho fatto anch’io in un editoriale su «Avvenire» del 28 febbraio), ma forse proprio questa sovrabbondanza di reazioni immediate rende utile una pausa di riflessione più pacata. Essa ci consente, infatti, di distinguere, nella questione,  livelli diversi che spesso, nella sovrabbondante produzione giornalistica di questi giorni,  sono stati sovrapposti e confusi.

Il primo è quello squisitamente umano. Il dramma di un uomo di 39 anni cieco e paralizzato, che percepisce la propria condizione, per usare le sue parole,  come «un inferno di dolore», non si può ridurre a un “caso” etico o giuridico. Di fronte ad esso ogni giudizio – anzi ogni discorso –  suona fuori luogo. Il solo atteggiamento adeguato è il silenzio. Nessuno ha il diritto di condannare questo fratello che ha molto sofferto. Chi è credente, può pregare per lui. Chi non lo è, rinunzierà comunque a ingabbiare il suo gesto in una categoria precostituita.

Forse proprio per questo – passo al secondo livello, che concerne l’aspetto culturale della vicenda – mi ha disturbato  vedere trasformare un’angosciosa esperienza personale in una bandiera ideologica. La tragica fine di Dj Fabo è stata annunciata, accompagnata e seguita da proclami che hanno cercato, con successo, di usarla per colpire emotivamente l’opinione pubblica. Si dirà che lo si è fatto per promuovere una giusta causa. Sospendendo per ora la valutazione sul giusto e sull’ingiusto, mi sembra che ridurre la morte di un uomo malato a uno spettacolo – sullo stesso piano dei tanti che il pubblico avidamente consuma, per poi dimenticarli –  possa servire a far vincere una battaglia politico-giuridica, ma è comunque una sconfitta dal punto di vista  culturale, perché banalizza ciò che si pretende di voler salvaguardare, la dignità e il mistero dell’essere umano. In quest’ottica, mi pongo tra coloro che, pur contrari all’aborto, si rifiutano di combatterlo ricorrendo a filmati o fotografie raccapriccianti.

Ma c’è un terzo livello che ci porta più vicini al cuore della questione, ed è quello, per così dire, filosofico. Si è sentito ripetere in continuazione, in questi giorni, che va riconosciuto a tutti il diritto di decidere della propria vita senza doverne rendere conto a nessuno, meno che mai alla comunità civile. In questo modo, però, la profonda, sofferta comprensione per il drammatico gesto di Dj Fabo viene incanalata in un preciso alveo di pensiero, che da più di trecento anni domina la civiltà occidentale e che definisce l’essere umano  nella logica di un “individualismo possessivo”.....