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venerdì 30 maggio 2025

NOI E LA SOFFERENZA


 Visitare una persona malata significa farle spazio. 

Significa porsi in una posizione che sa coniugare impotenza e non-inutilità.

 Impotenza di fronte al suo soffrire, non-inutilità nel restare accanto donando tempo e presenza, ascolto e parola.




- di Luciano Manicardi

 

Chiedendo di offrire segni di speranza agli ammalati e alle persone con disabilità, papa Francesco auspica che «le loro sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che ricevono» (Spes non confundit 11). Il testo echeggia le parole di Agostino: «Io non so come accada che, quando un membro soffre, il suo dolore divenga più leggero se le altre membra soffrono con lui. E l’alleviamento del dolore non deriva da una distribuzione comune dei medesimi mali, ma dalla consolazione che si trova nella carità degli altri» (Epist. 99,2). 

Ora, la malattia è esperienza di stranierità: il malato è come un emigrato in un Paese straniero di cui non conosce lingua, usi e costumi. Per questo opponiamo resistenze a farci vicini a un malato: ci rende a nostra volta stranieri. La debolezza del malato fa emergere la paura di essere «contagiati» dalla sua sofferenza. Sicché la visita a un malato può divenire il penoso teatro in cui vanno in scena imbarazzo e ipocrisia, reticenza e falsità, doppiezza e condiscendenza, banalità e congiura del silenzio: non a caso nell’Antico Testamento, che pure esorta a visitare il malato («Non esitare nel visitare gli ammalati», Sir 7,35), manca la testimonianza in favore della buona riuscita del rapporto dei visitatori con il malato. Il libro di Giobbe è la storia di amici che diventano nemici mentre visitano un malato

Gli amici di Giobbe sbagliano, non solo perché fanno del capezzale del malato il luogo di una catechesi, ma soprattutto perché vanno presumendo di «sapere» ciò di cui il malato ha bisogno meglio del malato stesso e ritenendo di poterlo consolare adeguatamente. Presentandosi come salvatori essi innescano un circolo vizioso in cui colpevolizzano il malato, ne fanno una vittima divenendo i suoi persecutori, e diventano a loro volta i bersagli delle sue accuse. Visitatori e malato entrano in un complesso rapporto in cui rivestono entrambi, di volta in volta, le vesti del persecutore e della vittima, e questo a partire dalla pretesa dei visitatori di essere dei salvatori. Si verifica il triangolo drammatico teorizzato dallo psicologo Stephen Karpman. La visita diviene un inferno. Non bastano le buone intenzioni: chi visita un malato deve entrare nell’ottica di non aver potere sul malato, attenersi al quadro relazionale che egli presenta, convertire la propria posizione di potere in una posizione di servizio. Più che l’intento di fare del bene è importante la consapevolezza del perché si vuol visitare un malato. 

Gesù, poi, si identifica con il malato, non con il visitatore: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,36). Il malato è «sacramento di Cristo», sicché il visitatore deve entrare in quella povertà grazie a cui può avvenire l’incontro durante il quale il malato stesso, nella sua debolezza, condurrà il visitatore alla somiglianza con il Cristo che «da ricco si fece povero» (2Cor 8,9). E il malato chiede essenzialmente di essere ascoltato e accettato, anche se ciò che fa o dice non dovesse incontrare l’approvazione del visitatore. Dice Giobbe: «Per il malato c’è la lealtà degli amici, anche se rinnega l’Onnipotente» (Gb 6,14). Zittire le parole sconvenienti del malato o censurare i suoi moti di rivolta, significa negargli la possibilità di mettere parola (per quanto alterata) su ciò che sta avvenendo nella sua vita. Invece, ascoltare è lasciar essere presente l’altro con ciò che sente ed esprime. Visitare il malato significa fargli spazio, non occupare o negare il suo spazio. Significa porsi in una posizione che sa congiungere impotenza e non-inutilità. Impotenza di fronte al soffrire del malato, non-inutilità nel restare accanto donando tempo e presenza, ascolto e parola, senza giudicare. 

La crisi in cui ci pone il malato diviene radicale di fronte alla persona con disabilità, soprattutto mentale. Quell’umano che abitavamo pacificamente diventa una domanda drammatica: che cos’è l’umano? Che cos’è vivere? Chi sono io? Chi e come potrei diventare? E prima di suscitare domande, l’incontro con la persona con disabilità suscita inquietudine e paura, turbamento e volontà di fuga. L’identità personale di chi è segnato da disabilità è praticamente sequestrata da quella disabilità che è come la sua seconda pelle, quella che si impone all’osservatore. È lo stigma, e noi, di fatto, crediamo che la persona con uno stigma sia meno umana o «non sia proprio umana» (Erving Goffman). Siamo di fronte al problema radicale che la disabilità pone: che cos’è un essere umano? Ed è così che, paradossalmente, la disabilità si rivela un’esperienza specifica capace di «illuminare la complessità dell’umano» (Julia Kristeva). Più precisamente: «Quando diciamo che l’esperienza ci aiuta a capire l’handicap, omettiamo la parte più importante, e cioè che l’handicap ci aiuta a capire noi stessi» (Giuseppe Pontiggia).

 Messaggero di Sant'Antonio

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martedì 2 luglio 2024

LA COMPASSIONE PERDUTA

 


A PROPOSITO

 DI  

SATNAM SINGH


-di ENZO BIANCHI

 

Bastano forse due settimane per dimenticare un atto di barbarie e di patologica indifferenza verso il prossimo?

 Possibile che non si ricordi più con orrore e condanna che un uomo, un lavoratore agricolo mutilato da una macchina mentre lavorava, è stato abbandonato sulla soglia di casa: lui, sua moglie e il suo braccio amputato gettato in una cassetta della verdura?

Questa è una narrazione opposta a quella che fece Gesù per indicare che cos’è l’amore per il prossimo: non l’indifferenza di chi abbandona il sofferente al suo destino, ma la sollecitudine di chi, provando compassione, se ne prende cura per salvargli la vita.

 È incredibile ciò che è successo nelle campagne di Latina, ma è il segno della morte della compassione e del regnare dell’indifferenza. Si fa silenzio e non si denuncia l’imbarbarimento della vita sociale nel mondo occidentale.

 Chiunque abbia capacità di osservazione si rende conto che facciamo passi verso la barbarie, che la nostra vita è sempre meno segnata da fiducia, mitezza, rispetto degli altri, riconoscimento della loro infinita dignità. Eppure, i filosofi dedicano attenzione alla compassione considerata non solo come virtù personale, ma come emozione sociale di base, come fondamento della vita della polis.

 Martha Nussbaum arriva a considerare la compassione come una mediazione verso la giustizia perché il suo interesse è nell’orizzonte dell’altruismo, è un’emozione dolorosa causata dalla consapevolezza della sofferenza altrui. André Comte-Sponville afferma che ogni sofferenza merita la compassione, è un appello a condividere il dolore in cui uno si trova, senza che si pongano condizioni. Per lui la compassione è una virtù universale che scaturisce dalla vulnerabilità umana. Compassione, patire-con, è più che simpatia, è più che empatia, perché è un avvicinamento consapevole all’altro fino a condividere la sua “passione”. Infatti, non è la molteplicità di volti umani che crea la socialità, ma quella relazione che inizia nel dolore, nel mio dolore in cui faccio appello all’altro e nel suo dolore che mi turba, nel dolore dell’altro che non mi è indifferente.

 Lo sappiamo tutti: soffrire non ha senso, ma la sofferenza per ridurre la sofferenza dell’altro è la sola giustificazione della sofferenza.

 Alla compassione bisogna essere aperti e occorre esercitarvisi.

 La sofferenza dell’altro grida, chiama, e la compassione che a essa risponde fa del mio corpo una cassa di risonanza della sua sofferenza.

 Così la visione di colui che soffre si fa ascolto e spinge alla cura. Noi umani non abbiamo altre vie per combattere il male se non quella di sentire compassione ed esercitarla attivamente: combattere contro il male è più decisivo che vincerlo.

 Così si combatte l’indifferenza, la barbarie: avvicinandoci a chi soffre e rendendolo prossimo per giungere a un vero contatto fisico, mano nella mano. E allora non solo i cuori batteranno insieme ma le viscere soffriranno insieme e ogni cura tentata porterà sollievo.

 Alzogliocchiversoilcielo

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mercoledì 7 febbraio 2024

LA SOFFERENZA DIVENTA BELLEZZA E POESIA


La sofferenza  
che sa diventare

 bellezza e poesia. 


Messaggio toccante e potente, 

 quello del Maestro Allevi



“L’emozione è il linguaggio attraverso cui si comunica con sincerità, mettendosi a nudo, senza timore di mostrarsi fragili e indifesi, perché la fragilità è la nostra forza, in un mondo trascinato dalla ragione verso la competizione estrema......"..

“Posso sbagliare, commettere errori, anche per ingenuità, leggerezza. Allora, prendo tutto me stesso e mi abbandono all'universale fluire delle cose, perché in fondo sono solo un minuscolo granello dell'universo.”

"La visione proposta oggi dal cristianesimo è assolutamente dirompente. L’attuale cultura dominante è infatti centrata sul nichilismo, per cui il nostro valore e la nostra identità dipendono esclusivamente da un giudizio e un riscontro esterno. Tutto il mondo dei social e dei talent show è fondamentalmente nichilista: contano il numero dei like e dei follower. Ecco allora sopraggiungere un’ansia diffusa, soprattutto tra i giovani: un disagio nuovo che i nostri genitori non conoscevano. Il risultato del nichilismo è un perenne senso di inadeguatezza, di esclusione dal mondo, di proiezione verso l’esterno nell’urgenza di dimostrare sempre di più. Il cristianesimo propone una visione opposta e ci dice: io posseggo un’identità, un valore, una scintilla interiore, indipendentemente da qualunque riscontro esterno, indipendentemente dal mio aspetto, dai risultati che ho ottenuto, dai giudizi e dalla stima che ricevo. I filosofi direbbero uno statuto ontologico, un senso delle cose. Tutte le più grandi personalità dell’arte, della ricerca scientifica, del pensiero, non si sono mai curate del riscontro esterno; hanno inseguito le proprie visioni anche a costo di andare incontro all’incomprensione"»…….

«Quando ero ragazzo, durante una confessione feci amicizia con un giovane parroco che era poco più grande di me: don Mauro. Lui insegnava Teologia, mentre io studiavo Filosofia all’università. Io mi avvicinavo all’ateismo, non credevo in niente, e nelle nostre discussioni sempre più frequenti, cercavo di metterlo in difficoltà con le parole, mentre lui, con pazienza e dolcezza, dimostrava una fede incrollabile. Per molto tempo andammo avanti con questo tipo di dinamica conflittuale, dove io sfogavo il mio male di vivere, il mio tormento. Lui era un parroco di periferia; pur essendo coltissimo, era vicino alla gente, ai ragazzi, e aveva trasformato la sua vita in una missione. Un giorno, all’improvviso, il mio unico amico don Mauro morì in un incidente stradale. È stata la mia prima esperienza di una perdita. Dopo il dolore vuoto, insopportabile, che ho attraversato, è accaduto in me qualcosa che non avrei mai immaginato: ho raccolto il suo testimone. 

Anche io avrei fatto della mia vita una missione, anche io avrei avuto fede in una scintilla divina che alloggia in fondo al cuore di ogni persona, anche io non avrei ceduto alla tentazione di una visione nichilista della vita. Ora posso affermare di credere, ed è proprio la filosofia a darmi la forza intellettuale di abbandonare ogni certezza e aprirmi al mistero. Nonostante le difficoltà e la sofferenza che tutti siamo portati ad affrontare, l’infinito e la meraviglia si nascondono tra le pieghe dell’esistenza»  (gennaio 2021).

“Ho perso molto. Ho perso il mio lavoro, i miei capelli, le mie certezze, ma non la speranza…. Quando non c'è più certezza del futuro, bisogna vivere più intensamente il presente. È come se avessi strappato alla mia fine una manciata di anni e voglio viverli più intensamente possibile…...I numeri non contano, perché ognuno di noi, ognuno di voi, ogni individuo è unico, irripetibile e, a suo modo, infinito…. Non potendo più contare sul mio corpo suonerò con tutta l'anima”(7.2.2024).

  

domenica 5 marzo 2017

LA MORTE DI DJ FABO: distinguere per capire meglio

Sul suicidio di Dj Fabo si è scritto molto “a caldo” (l’ho fatto anch’io in un editoriale su «Avvenire» del 28 febbraio), ma forse proprio questa sovrabbondanza di reazioni immediate rende utile una pausa di riflessione più pacata. Essa ci consente, infatti, di distinguere, nella questione,  livelli diversi che spesso, nella sovrabbondante produzione giornalistica di questi giorni,  sono stati sovrapposti e confusi.

Il primo è quello squisitamente umano. Il dramma di un uomo di 39 anni cieco e paralizzato, che percepisce la propria condizione, per usare le sue parole,  come «un inferno di dolore», non si può ridurre a un “caso” etico o giuridico. Di fronte ad esso ogni giudizio – anzi ogni discorso –  suona fuori luogo. Il solo atteggiamento adeguato è il silenzio. Nessuno ha il diritto di condannare questo fratello che ha molto sofferto. Chi è credente, può pregare per lui. Chi non lo è, rinunzierà comunque a ingabbiare il suo gesto in una categoria precostituita.

Forse proprio per questo – passo al secondo livello, che concerne l’aspetto culturale della vicenda – mi ha disturbato  vedere trasformare un’angosciosa esperienza personale in una bandiera ideologica. La tragica fine di Dj Fabo è stata annunciata, accompagnata e seguita da proclami che hanno cercato, con successo, di usarla per colpire emotivamente l’opinione pubblica. Si dirà che lo si è fatto per promuovere una giusta causa. Sospendendo per ora la valutazione sul giusto e sull’ingiusto, mi sembra che ridurre la morte di un uomo malato a uno spettacolo – sullo stesso piano dei tanti che il pubblico avidamente consuma, per poi dimenticarli –  possa servire a far vincere una battaglia politico-giuridica, ma è comunque una sconfitta dal punto di vista  culturale, perché banalizza ciò che si pretende di voler salvaguardare, la dignità e il mistero dell’essere umano. In quest’ottica, mi pongo tra coloro che, pur contrari all’aborto, si rifiutano di combatterlo ricorrendo a filmati o fotografie raccapriccianti.

Ma c’è un terzo livello che ci porta più vicini al cuore della questione, ed è quello, per così dire, filosofico. Si è sentito ripetere in continuazione, in questi giorni, che va riconosciuto a tutti il diritto di decidere della propria vita senza doverne rendere conto a nessuno, meno che mai alla comunità civile. In questo modo, però, la profonda, sofferta comprensione per il drammatico gesto di Dj Fabo viene incanalata in un preciso alveo di pensiero, che da più di trecento anni domina la civiltà occidentale e che definisce l’essere umano  nella logica di un “individualismo possessivo”.....