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sabato 30 novembre 2019

LA TRAGEDIA DELLE DONNE VITTIME DI VIOLENZA

-   di Giuseppe Savagnone

È di alcuni giorni fa la pubblicazione di una statistica dell’Eures, secondo cui in questi primi dieci mesi dall’inizio dell’anno, sono state uccise in Italia 94 donne. Una ogni tre giorni.
Nel 2018 i femminicidi erano stati 142 – il 38% degli omicidi commessi in Italia –, di cui 78 per mano di partner o ex partner. Dal 2000 ad oggi le donne uccise in Italia sono state 3.230. E il trend di questi ultimi anni è quello di una continua crescita, in controtendenza rispetto a quello degli omicidi nel loro insieme, che nel nostro Paese sono in forte calo anno dopo anno.
Qualcuno si stupisce dell’enfasi posta sul termine “femminicidio”, per descrivere il fenomeno e si chiede se si possa parlare di una categoria a se stante di reati. La risposta è nella definizione di questo termine nel libro di Diana Russell nel libro Femicide, del 1992: «Una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna proprio perché donna (…) in un contesto sociale che permette e avalla la violenza degli uomini contro le donne».
Una violenza a senso unico
Ovviamente questo non significa che non ci siano casi di donne che uccidono uomini. Ce ne sono anche che li aggrediscono o li maltrattano. Ma, sempre secondo i dati Eures, nel 2018 il 92% delle violenze sessuali, il 76% delle denunce per stalking e l’81% di quelle per maltrattamenti in famiglia sono state fatte da donne.
Per non parlare delle tante mogli o figlie che non hanno il coraggio di denunziare i loro mariti o padri. Il fenomeno peraltro non accenna ad attenuarsi. Un rapporto della Polizia di Stato rileva che per esempio nel mese di marzo 2019, in media, ogni 15 minuti è stata registrata una vittima di violenza di genere di sesso femminile. In questo quadro, è difficile parlare di una reciprocità …
Le leggi necessarie
Si sta cercando di far fronte a questa piaga sul piano legislativo. Nello scorso agosto è entrata in vigore la legge n. 69, cosiddetta “Codice rosso”, che ha innovato e modificato la disciplina penale, sia sostanziale che processuale, della violenza domestica e di genere, rendendo più celere l’avvio del procedimento penale e più aspra la sanzione per i reati dii maltrattamento in famiglia, stalking, violenza sessuale, prevedendo anche una maggiore tempestività per eventuali provvedimenti di protezione delle vittime.
Al divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, il giudice può aggiungere l’utilizzo di mezzi elettronici come l’ormai più che collaudato braccialetto elettronico.
Tutto ciò è giustissimo e su questa via possono essere sicuramente ottenuti risultati significativi; però non risolve il problema dei femminicidi alla sua radice, che è culturale.
La crisi della virilità
A prima vista, è vero, essi sembrerebbero risalire a ragioni che da sempre caratterizzano la dialettica del rapporto uomo-donna. Secondo Eures «il principale movente dei femminicidi familiari risulta quello della gelosia e del possesso (impropriamente definito passionale), riscontrato nel 32,8% dei casi; seguono, con ampi scarti, le liti e i dissapori (16%) e il disagio della vittima (15,1%)».
Ma a questo, che sicuramente rimane lo sfondo, oggi bisogna aggiungere un fatto nuovo che, almeno in Occidente, sta modificando radicalmente i termini di questa dialettica. Mi riferisco al declino di quell’insieme di fattori psicologici, caratteriali e culturali che tradizionalmente venivano definiti “virilità”.
Sono ovviamente consapevole delle distorsioni maschiliste che questo termine ha rivestito per secoli e che, soprattutto nel Meridione, hanno dato luogo a una serie di drammatici equivoci riguardanti l’onore di un uomo. Ma il suo tramonto, nell’uso corrente, non è legato soltanto al felice superamento di quelle distorsioni e di quegli equivoci. C’è qualcosa di più profondo, che assume un significato epocale alla luce dell’affermazione del movimento femminista nei Paesi occidentali.
Lo smarrimento del maschio
Perché questa affermazione, che ha cambiato radicalmente la concezione della donna, i suoi atteggiamenti e il suo ruolo nella società, ha profondamente inciso – né poteva essere diversamente – sul modo in cui gli uomini vedono se stessi e si rapportano all’altro genere.
Abituato da sempre a un predominio di genere, che prescindeva dalle qualità personali dei singoli e si fondava aprioristicamente sul possesso di alcune caratteristiche anatomiche, il maschio si è trovato, nel giro di pochi decenni, totalmente spiazzato dall’ascesa vertiginosa di donne sempre più capaci di rimettere in discussione il suo primato sia nel campo degli studi e del lavoro, che in quello della vita sessuale ed affettiva.
Il feminicidio come segno di debolezza
Forse andrebbe cercata qui la spiegazione del diffondersi della tragedia dei femminicidi. Alla base, nella maggior parte dei casi, c’è un disperato tentativo dell’uomo di riaffermare il proprio potere su una compagna che ormai ha una propria vita professionale, a volte più riuscita della sua, e che anche nei rapporti di coppia rivendica il proprio diritto a non essere solo un oggetto, ma una persona, libera come tale di fare le sue scelte.
Se questa lettura è corretta, i crimini in questione non sono, come potrebbe credersi a prima vista, la prova del perpetuarsi dell’antico dominio del maschio, ma il segno di specie di disperazione, la rabbiosa reazione alla scoperta di una impotenza, un sordo risentimento a cui i più fragili non trovano altro sfogo che quello di uccidere.
Non è un caso che a volte questo folle gesto venga percepito dallo stesso assassino come una forma di autodistruzione, portandolo al suicidio o a denunciarsi spontaneamente.
Più in generale, oggi si registra una diffusa difficoltà degli uomini di accettare e di vivere la propria virilità in un mutato contesto relazionale, che ne ha cambiato i connotati tradizionali, ma che potrebbe portare alla sua riscoperta in termini nuovi.
Una potenzialità non compresa
Perché l’emancipazione delle donne non dovrebbe, di per sé, minacciare l’identità maschile, anzi potrebbe costituire un suo approfondimento, liberandola dagli stereotipi quasi macchiettistici che si accompagnavano all’immagine del “maschio”.
La denunzia, da parte del movimento femminista, delle storture  di una civiltà fallo-logo-centrica fondata sulla logica del dominio e su una interpretazione riduttiva  della razionalità, potrebbe costituire una lezione importante a cui non solo le donne, ma soprattutto gli uomini dovrebbero essere attenti, per ripensare la loro identità virile in una prospettiva la liberi dalle storture del passato.
Non si tratterebbe per loro di una rinunzia, di una resa, ma di una conquista. Perché sono stati loro, innanzi tutto, le vittime della società che essi stessi hanno costruito sul mito del potere, del denaro e del successo, sacrificando spesso al lavoro e al guadagno le relazioni umane. Quanti professionisti incapaci di anticipare il ritorno a casa per godersi la semplice gioia della vita familiare!
Per non parlare della violenza sistematica nei confronti della terra – si è parlato di una specie di stupro – da parte di una tecnica ispirata alla logica maschile della penetrazione e volta allo sfruttamento illimitato della natura, con i risultati disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti.
Una possibile involuzione del femminismo
La protesta del femminismo contro tutto ciò non è stata solo una rivendicazione unilaterale da parte di un genere contro l’altro, bensì un prezioso servizio ad entrambi.
Se mai sono le sue involuzioni che, tradendone l’esigenza di fondo, hanno a volte fatto sì che, invece di aiutare gli uomini a vivere in modo più autentico la loro virilità e le donne la loro femminilità, in un contesto di reciprocità e di pari dignità, questa lotta si sia risolta talora in un indebolimento di entrambe, dando luogo a donne sempre più “maschilizzate” e a uomini sempre più effeminati. Da qui il fenomeno sempre più diffuso di una “donna in carriera”, che insegue il successo sopra ogni altro valore, e di un uomo sempre più fragile, irresoluto, smarrito e – come logica conseguenza – violento.
Evitare una sconfitta per tutti
Si badi bene: come la vittoria delle donne non avrebbe dovuto essere una sconfitta degli uomini, ma la crescita di una relazione che avrebbe potuto arricchire entrambi, così il declino dell’uomo non è una vittoria per le donne, che sono le prime, oggi, a risentire e a soffrire, nella prospettiva di una vita di coppia, del vuoto di virilità che colpisce l’altro genere.
Resta il fatto che il femminicidio è un prezzo che una società civile non può e non deve accettare di pagare. Ben vengano, per questo, le misure repressive. Ma, un tempo in cui si parla molto, giustamente, dei passi ancora da fare per riconoscere alle donne i loro diritti, forse sarebbe il caso di tenere presente che tra questi c’è anche quello ad avere di fronte degli uomini che siano tali.


mercoledì 3 maggio 2017

ALLA RISCOPERTA DELLE VIRTU' "CAVALLERESCHE"

Il codice virile
Lo psicoterapeuta Marchesini: «Dove sono più i veri uomini?
La nostra è una società irresponsabile, in cui contano solo i “like”.
 Riscopriamo le virtù del cavaliere, di colui che è pronto a dare la vita per il bene degli altri»


Intervista di ANTONIO GIULIANO

Quando il gioco si fa duro, scendono in campo i veri uomini. Ma questa è una società di “mammolette”, tutt’altro che virile. Bombardati da modelli e messaggi effeminati, dell’uomo maschio se ne son perse le tracce. Abbondano invece i fifoni e i “mammoni” e anche il “macho”, il palestrato con tatuaggio, in realtà nasconde una personalità fragile e insicura. È un quadro impietoso ma documentato che Roberto Marchesini, psicologo e psicoterapeuta, ha già fatto emergere in un saggio controcorrente Quello che gli uomini non dicono (Sugarco). Da studioso consapevole della posta in gioco ha pensato bene di rilanciare il tema con un nuovo manuale impavido che punta in alto e fa riscoprire l’orgoglio agli uomini (ma di riflesso anche alle donne) della propria identità di genere: Codice cavalleresco per l’uomo del terzo millennio (Sugarco, pagine 144, euro 12,50).
Maschi si nasce (checché ne dica l’ideologia gender), ma uomini si diventa è il cardine del suo ragionamento. Però abbiamo smarrito la stessa etimologia del termine “uomo”.
«Esatto. Il greco lo definisce con due parole: anthropos e aner. Il primo indica l’essere umano di sesso maschile, il secondo l’uomo pienamente realizzato, l’eroe. Così i latini usavano homo e vir da cui virtus (la virtù) vis (forza) e virilitas (virilità). L’essere umano di sesso maschile nasce homo (o anthropos) e deve diventare vir (o aner) cioè forte, coraggioso, virtuoso. Il dovere connesso al nascere maschio è di diventare uomo, di realizzare quel potenziale donatoci al concepimento di diventare un eroe».
Perché non sentiamo più questo compito?
«L’umanità ha sempre abitato un mondo metafisico, nel quale la realtà non era limitata ai nostri sensi. Ogni donna e ogni uomo sapeva di avere un compito da realizzare, un progetto da compiere, dei ta- lenti da mettere a frutto. Ora viviamo in un mondo in cui non c’è un domani, un orizzonte, un fine: la vita è un eterno presente senza senso. Il problema è che una vita senza significato è, come diceva Viktor Frankl, una vita grigia, vuota, impossibile. E anche la ricerca spasmodica del piacere è una conseguenza dell’impossibilità di vivere una vita senza uno scopo».
A che cosa serve un codice cavalleresco?
«È una guida per l’uomo di oggi per riscoprire se stesso. Un compendio tutto fuorché “buonista”. Il cavaliere non è tale per nascita, ma per virtù, non ha privilegi, ma doveri, che egli accetta liberamente. Il cavaliere è generoso e domina le passioni senza farsi dominare perché le indirizza verso il bene.
È un uomo che teme più la vergogna e il peccato della morte stessa. Anzi sacrificare la propria vita per il bene degli altri è il suo destino, il suo compimento».
Lei ne fa una questione di onore, ma gli adulti oggi sembrano più attratti dai social network.
«L’onore non coincide con la reputazione. L’onore dipende dalle virtù della persona, non da quello che altri pensano di lei. Le due cose non coincidono anzi spesso sono in antitesi. “Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi” dice il Vangelo. E in effetti Gesù che incarnava ogni virtù, non godeva di ottima reputazione. La nostra società senza onore - è basata sulla reputazione. Come dimostra il successo dei social, dove agisce il meccanismo perverso dei “like” o dei “followers”. Di avere cioè l’approvazione degli altri anche se estranei. Ma chi elemosina approvazione da chiunque è generalmente una persona molto insicura».
               In questa crisi del maschio, a farne le spese più di tutti oggi è la figura del padre.
«È il grande assente. E difatti la nostra società, materna, iperprotettiva, ci induce a essere timorosi. È la mamma che dice: “Non farlo, che ti fai male”, “È pericoloso”; è invece il padre che ci incoraggia a rischiare, a osare, a lasciare le sottane materne per prendere il largo nel pericoloso mondo. La vita è rischio e la nostra civiltà è stata costruita da coraggiosi, non da vili. Ma oggi prevale il lamento o l’assicurazione che non si avranno conseguenze. Siamo circondati da persone che vogliono avere rapporti sessuali ma non la gravidanza, vogliono avere figli ma devono essere sicuri che saranno sani e belli. E poi sempre a scaricare la responsabilità sugli altri: “Mio figlio è un bravo ragazzo prendetevela con i veri delinquenti”… Stiamo allevando una società di irresponsabili».
Tra le virtù del codice c’è la lealtà…
«Ormai scomparsa. Basta vedere la crisi del matrimonio. Il tradimento (considerato ormai fisiologico) e il divorzio non sono altro che una rottura del giuramento, una slealtà. “Se le cose vanno male” - si obietta - “perché restare insieme?”. Perché si è promesso e le promesse si fanno per quando le cose vanno male, altrimenti non ci sarebbe bisogno di promettere. Ma si sa la fedeltà ha un prezzo e oggi nessuno è educato a pagare per le proprie scelte».
Perché lo sport è un’ottima palestra di virtù?
«Chi ha fatto sport sa che l’avversario è quello che abbiamo dentro di noi: paure, insicurezze, limiti. Colui che abbiamo davanti ci dà l’occasione di superare le nostre fragilità. Nello sport non importa vincere o perdere, ma come si vince e come si perde. La storia (vera) di Rocky Balboa lo dimostra ».
Un eroe anche del cinema, come Braveheart o Batman…
«Sono modelli. Batman è uno che combatte il crimine a mani nude, e senza uccidere mai nessuno; indossa la maschera non per viltà, ma per proteggere chi gli sta vicino. È il Cavaliere Oscuro. Un cavaliere, perché il suo destino è quello di morire combattendo il male. Oscuro perché non esita a sacrificare la propria reputazione, ad accettare di essere deriso e calunniato per il bene delle persone che gli sono affidate».
Un’arma potente è l’educazione.
«La nostra civiltà è stata costruita sul potere delle storie: dai poemi omerici, alle chanson de geste, alla letteratura per l’infanzia, alle storie della Bibbia. Noi stessi del secolo scorso abbiamo capito cos’era un uomo leggendo Sandokan, Michele Strogoff, L’ultimo dei mohicani ... Ma adesso non raccontiamo più nulla ai ragazzi: gli diamo in mano un tablet, uno smartphone perché non diano fastidio. Riprendere in mano questo patrimonio millenario di storie è la chiave per dare ancora un orizzonte a milioni di uomini e donne».


Tratto da www.avvenire.it