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sabato 17 luglio 2021

INVALSI, DAD E DISAGIO DEI RAGAZZI


-  I test Invalsi e i problemi resi più espliciti da lunghi mesi di Dad - 

- NON SONO LE CROCETTE LA CRISI DI UNA SCUOLA SENZA PADRI - 

-         -di DANIELE NOVARA

Non sono mai stato un amante delle Prove Invalsi, di questa idea che il funzionamento della scuola possa essere verificato attraverso le risposte esatte. Paradossalmente i dati, resi noti in questi giorni, hanno finito per confermare che la Dad non è nemmeno riuscita a salvare la scuola tradizionale presidiata proprio dalle crocette sulle risposte giuste. Emerge un gran disagio nei nostri ragazzi che a scuola si sentono come degli ospiti o persone di passaggio, lì parcheggiate senza capirne bene il motivo. Da tempo denuncio che la scuola italiana ha un arretramento pedagogico significativo rispetto agli altri Paesi europei, abbarbicata com’è nel mito della lezione frontale e di un giudizio ancora veicolato da numeri utilizzati con la precisione di Guglielmo Tell. In particolare, una Scuola Superiore dove molti insegnanti non arrivano formati come professionisti dell’organizzazione dell’apprendimento, ma come ex alunni in cattedra pronti a rifare quello che loro hanno vissuto, se non subìto, dai loro professori. Il ruolo stesso del Dirigente è ormai schiacciato dalle incombenze amministrative. Il permanere di un focus assolutistico sulle materie crea una demotivazione fortissima, un calo di interesse negli alunni e tanta dispersione scolastica.

La Dad si è quindi inserita in un quadro già compromesso.

Meravigliarsene sarebbe fuori luogo. Resta invece lo stupore di come il Ministero non riesca a dare una svolta nel formare insegnanti in ottica pedagogica, a porre le basi per una scuola dove si apprende, non semplicemente dove si ripetono nozioni e contenuti. Un presidio pedagogico in ogni scuola e una formazione adeguata sarebbero il minimo necessario.

Il disagio dei nostri ragazzi ha pure una ragione più profonda localizzata nella gestione degli adolescenti italiani da parte dei genitori. Nel mio lavoro di sostegno educativo alle famiglie, ogni volta che mi trovo a dover fare i conti con un preadolescente o un adolescente in difficoltà l’elemento ricorrente è sempre la mancanza, nell’arena educativa, della figura del padre o della configurazione pedagogica paterna. I ragazzi e le ragazze, da che mondo è mondo, entrano in questa età con un unico, inesorabile desiderio: allontanarsi dal nido familiare, in particolare quello materno, e dal controllo dei genitori. È un’esigenza negata da una gestione che resta, nella stragrande maggioranza delle volte, a trazione materna, ossia 'amministrata' direttamente dalla mamma in una continuità infantileadolescenziale che non lascia respiro e che non può funzionare. Questi giovani rischiano cortocircuiti molto pericolosi. Per fare un esempio riferito alla scuola: se la mamma vuole aiutarli, controllarli, incalzarli, andare male a scuola diventa l’unico mezzo per dimostrare che non ne vogliono sapere di questa modalità, che chiedono più libertà. Finisce così che non resta a loro che utilizzare il territorio scolastico per questa classica sfida adolescenti-genitori riducendo la scuola a un luogo dove, invece di trovare una via d’uscita dal controllo genitoriale, si trova un ulteriore elemento di scontro e di conflitto. La Dad ha enfatizzato al massimo la paradossalità del ritorno al nido materno creando un corto circuito davvero insostenibile.

Il ruolo del padre

Da sempre propongo, in adolescenza, la convergenza educativa sul padre e sul paterno. Di fronte a genitori più o meno disperati ribadisco che la mamma, ovvero la figura che ha gestito tutta l’infanzia, può essere avvertita dai figli quasi come una zavorra. Il rischio è che vogliano alzare l’asticella della provocazione in maniera esagerata pur di scrollarsi di dosso questo peso. Non ci sono colpevoli: l’allontanamento va gestito, non contrastato. È il momento in cui la mamma, quando è possibile, passa la palla al padre nella gestione del 'front office' educativo: 'Parlane col papà', 'Stasera sentiamo cosa dice il papà'. Il padre diventa quindi una figura di negoziazione e di regolazione di questo allontanamento, che può essere guidato attraverso tecniche specifiche – come ad esempio quella del paletto per cui si mette un limite dentro cui comunque l’adolescente ha una libertà di scelta. È l’unico modo per gestire un’età della vita che diversamente rischia, come sta succedendo, l’implosione e l’autolesionismo. Un’età che corre il pericolo di non riuscire a essere sé stessa nel legittimo desiderio di distacco e di trovarsi impigliata in un maternage infinito, che non può risultare la risposta ai bisogni dei nostri ragazzi.

*Pedagogista

www.avvenire.it


 

sabato 16 gennaio 2021

GENITORE UNO e DUE ?

Lo psicologo Regalia: differenze anche nominali indispensabili per la costruzione dell’identità dei figli.

 Nella bozza del decreto della ministra Lamorgese si parlerà semplicemente di “genitori”. Senza 1 e 2

-         di LUCIANO MOIA

 Meglio scrivere 'genitori' invece di madre e padre sulle carte d’identità o sui moduli scolastici dei ragazzi al di sotto dei 14 anni? Oppure 'genitori 1 e 2'? Potrebbe apparire una differenza di poco conto, ma non è così. Sarà comunque indispensabile attendere il parere del Garante della privacy e poi la decisione della Conferenza Stato-Città per capire la struttura del decreto del ministero dell’Interno destinato a cancellare, per la seconda volta in pochi anni, le parole padre e madre dalle carte d’identità elettroniche dei minori di 14 anni per far posto a un più generico 'genitori'. Mercoledì le agenzie di stampa e le comunicazioni diffuse dopo il question time a cui il ministro Luciana Lamorgese ha risposto alla Camera, lasciavano intendere che le tradizionali denominazioni di madre e padre sarebbero state sacrificate sull’altare delle richieste europee e per rispettare le 'criticità tecniche' segnalate dal Garante della privacy. Di conseguenza sarebbe stata ripristinata l’anonima classificazione numerica dei genitori che già aveva fatto tanto discutere quando era stata introdotta nel 2015 dal governo Renzi. Ma ieri la segreteria della ministra Lamorgese ha precisato che nella bozza del decreto non c’è al momento alcun riferimento numerico. Niente 'genitore 1 e 2' ma semplicemente 'genitori' o 'tutori' nel caso di assenza dei primi. In un allegato del decreto si sottolinea anche la necessità di indicare nome e cognome dei genitori stessi. Ora, una madre e un padre biologici sono naturalmente genitori. Quindi il cambio lessicale non incide sull’identità e sui ruoli. Mentre nel caso dei nuclei «arcobaleno» maternità e paternità possono essere in parte biologiche, in parte solo 'di intenzione'. Per questo motivo il Garante della privacy ha sottolineato «forti criticità dal punto di vista della protezione dei dati e della tutela dei minori, nel caso in cui i soggetti che esercitano la responsabilità genitoriale non siano riconducibili alla figura materna o paterna».

Ma è proprio così? Esistono davvero criticità nel riferimento esplicito alla madre e al padre nel caso di famiglie in cui uno dei due partner della coppia non fondi il suo ruolo su un dato biologico?

«La volontà di non riconoscere la peculiarità della funzione materna e paterna al punto da non nominarla, è una scelta che deve interrogare», osserva Camillo Regalia, docente di psicologia sociale alla Cattolica e direttore del Centro di ateneo studi e ricerche sulla famiglia. «Nominare la madre e il padre non deve far paura. Dal punto di vista della costruzione identitaria, sacrificare il riferimento personale per richiamarsi genericamente al concetto di genitori non è certo positivo». A parere del docente non è questa la strada corretta per legittimare forme di genitorialità non biologica, quasi che, dove invece esiste una genitorialità evidente e chiara, si possa aprire una contrapposizione. Non dev’essere così, ma è evidente che ci sia anche una componente ideologica nel Regolamento europeo in materia di dati personali a cui il nostro quadro normativo deve adeguarsi, come spiegato dalla ministra Lamorgese, oscurando i nomi di madre e di padre. «Quando si parla di nuclei arcobaleno occorre essere assolutamente rispettosi. In molte situazioni questi nuclei mostrano un impegno educativo lodevole anche se – sottolinea ancora Regalia – le difficoltà rimangono e non dobbiamo avere timore di parlarne. Il grande equivoco è quello di pensare che si possa parlare di funzioni genitorali indipendentemente dal fatto che i ruoli siano biologicamente determinati. Facciamo un esempio per chiarire meglio: una madre single può assolvere anche a una funzione paterna? Evidentemente sì, ma avrà maggiori difficoltà e farà più fatica. Lo stesso per una coppia omogenitoriale. Sono situazioni in cui si aggiungono dati problematici a una realtà, quella del ruolo genitoriale, che è già complesso di per sé».

Aspetti da affrontare senza toni da battaglia, ma guardando la realtà per quello che è, visto che il confronto esasperato sui problemi antropologici non ha altro effetto se non quello di rendere tutto confusivo e ideologico. «In ogni caso decidere di rinunciare ai nomi di padre e madre per lasciare solo 'genitori' – conclude il direttore del Centro di ateneo della Cattolica – significa rinunciare alle differenze per privilegiare la vaghezza dell’indistinto. E questa non è certamente una scelta che aiuta a risolvere le situazioni. Se l’obiettivo è quello di costruire un’alleanza genitoriale forte per il bene del proprio figlio, è importante, in ogni situazione, non dimenticare le differenze neppure sul piano lessicale».

 

Www.avvenire.it

 

 

 

mercoledì 3 maggio 2017

ALLA RISCOPERTA DELLE VIRTU' "CAVALLERESCHE"

Il codice virile
Lo psicoterapeuta Marchesini: «Dove sono più i veri uomini?
La nostra è una società irresponsabile, in cui contano solo i “like”.
 Riscopriamo le virtù del cavaliere, di colui che è pronto a dare la vita per il bene degli altri»


Intervista di ANTONIO GIULIANO

Quando il gioco si fa duro, scendono in campo i veri uomini. Ma questa è una società di “mammolette”, tutt’altro che virile. Bombardati da modelli e messaggi effeminati, dell’uomo maschio se ne son perse le tracce. Abbondano invece i fifoni e i “mammoni” e anche il “macho”, il palestrato con tatuaggio, in realtà nasconde una personalità fragile e insicura. È un quadro impietoso ma documentato che Roberto Marchesini, psicologo e psicoterapeuta, ha già fatto emergere in un saggio controcorrente Quello che gli uomini non dicono (Sugarco). Da studioso consapevole della posta in gioco ha pensato bene di rilanciare il tema con un nuovo manuale impavido che punta in alto e fa riscoprire l’orgoglio agli uomini (ma di riflesso anche alle donne) della propria identità di genere: Codice cavalleresco per l’uomo del terzo millennio (Sugarco, pagine 144, euro 12,50).
Maschi si nasce (checché ne dica l’ideologia gender), ma uomini si diventa è il cardine del suo ragionamento. Però abbiamo smarrito la stessa etimologia del termine “uomo”.
«Esatto. Il greco lo definisce con due parole: anthropos e aner. Il primo indica l’essere umano di sesso maschile, il secondo l’uomo pienamente realizzato, l’eroe. Così i latini usavano homo e vir da cui virtus (la virtù) vis (forza) e virilitas (virilità). L’essere umano di sesso maschile nasce homo (o anthropos) e deve diventare vir (o aner) cioè forte, coraggioso, virtuoso. Il dovere connesso al nascere maschio è di diventare uomo, di realizzare quel potenziale donatoci al concepimento di diventare un eroe».
Perché non sentiamo più questo compito?
«L’umanità ha sempre abitato un mondo metafisico, nel quale la realtà non era limitata ai nostri sensi. Ogni donna e ogni uomo sapeva di avere un compito da realizzare, un progetto da compiere, dei ta- lenti da mettere a frutto. Ora viviamo in un mondo in cui non c’è un domani, un orizzonte, un fine: la vita è un eterno presente senza senso. Il problema è che una vita senza significato è, come diceva Viktor Frankl, una vita grigia, vuota, impossibile. E anche la ricerca spasmodica del piacere è una conseguenza dell’impossibilità di vivere una vita senza uno scopo».
A che cosa serve un codice cavalleresco?
«È una guida per l’uomo di oggi per riscoprire se stesso. Un compendio tutto fuorché “buonista”. Il cavaliere non è tale per nascita, ma per virtù, non ha privilegi, ma doveri, che egli accetta liberamente. Il cavaliere è generoso e domina le passioni senza farsi dominare perché le indirizza verso il bene.
È un uomo che teme più la vergogna e il peccato della morte stessa. Anzi sacrificare la propria vita per il bene degli altri è il suo destino, il suo compimento».
Lei ne fa una questione di onore, ma gli adulti oggi sembrano più attratti dai social network.
«L’onore non coincide con la reputazione. L’onore dipende dalle virtù della persona, non da quello che altri pensano di lei. Le due cose non coincidono anzi spesso sono in antitesi. “Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi” dice il Vangelo. E in effetti Gesù che incarnava ogni virtù, non godeva di ottima reputazione. La nostra società senza onore - è basata sulla reputazione. Come dimostra il successo dei social, dove agisce il meccanismo perverso dei “like” o dei “followers”. Di avere cioè l’approvazione degli altri anche se estranei. Ma chi elemosina approvazione da chiunque è generalmente una persona molto insicura».
               In questa crisi del maschio, a farne le spese più di tutti oggi è la figura del padre.
«È il grande assente. E difatti la nostra società, materna, iperprotettiva, ci induce a essere timorosi. È la mamma che dice: “Non farlo, che ti fai male”, “È pericoloso”; è invece il padre che ci incoraggia a rischiare, a osare, a lasciare le sottane materne per prendere il largo nel pericoloso mondo. La vita è rischio e la nostra civiltà è stata costruita da coraggiosi, non da vili. Ma oggi prevale il lamento o l’assicurazione che non si avranno conseguenze. Siamo circondati da persone che vogliono avere rapporti sessuali ma non la gravidanza, vogliono avere figli ma devono essere sicuri che saranno sani e belli. E poi sempre a scaricare la responsabilità sugli altri: “Mio figlio è un bravo ragazzo prendetevela con i veri delinquenti”… Stiamo allevando una società di irresponsabili».
Tra le virtù del codice c’è la lealtà…
«Ormai scomparsa. Basta vedere la crisi del matrimonio. Il tradimento (considerato ormai fisiologico) e il divorzio non sono altro che una rottura del giuramento, una slealtà. “Se le cose vanno male” - si obietta - “perché restare insieme?”. Perché si è promesso e le promesse si fanno per quando le cose vanno male, altrimenti non ci sarebbe bisogno di promettere. Ma si sa la fedeltà ha un prezzo e oggi nessuno è educato a pagare per le proprie scelte».
Perché lo sport è un’ottima palestra di virtù?
«Chi ha fatto sport sa che l’avversario è quello che abbiamo dentro di noi: paure, insicurezze, limiti. Colui che abbiamo davanti ci dà l’occasione di superare le nostre fragilità. Nello sport non importa vincere o perdere, ma come si vince e come si perde. La storia (vera) di Rocky Balboa lo dimostra ».
Un eroe anche del cinema, come Braveheart o Batman…
«Sono modelli. Batman è uno che combatte il crimine a mani nude, e senza uccidere mai nessuno; indossa la maschera non per viltà, ma per proteggere chi gli sta vicino. È il Cavaliere Oscuro. Un cavaliere, perché il suo destino è quello di morire combattendo il male. Oscuro perché non esita a sacrificare la propria reputazione, ad accettare di essere deriso e calunniato per il bene delle persone che gli sono affidate».
Un’arma potente è l’educazione.
«La nostra civiltà è stata costruita sul potere delle storie: dai poemi omerici, alle chanson de geste, alla letteratura per l’infanzia, alle storie della Bibbia. Noi stessi del secolo scorso abbiamo capito cos’era un uomo leggendo Sandokan, Michele Strogoff, L’ultimo dei mohicani ... Ma adesso non raccontiamo più nulla ai ragazzi: gli diamo in mano un tablet, uno smartphone perché non diano fastidio. Riprendere in mano questo patrimonio millenario di storie è la chiave per dare ancora un orizzonte a milioni di uomini e donne».


Tratto da www.avvenire.it