XXVII domenica del tempo ordinario
Ab
1,2-3; 2,2-4; Sal 94 (95); 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10
Scrivo
«quasi disperato», perché il fatto stesso che tale grido venga rivolto a Dio è
segno che ancora una speranza c’è, che la possibilità che «qualcuno»
intervenga» è ancora viva. Dall’altra parte, però, in tale grido vi è anche
un’accusa: «Perché resti spettatore dell’oppressione?».
C’è
dunque una situazione di violenza, ci sono oppressi e oppressori, e a volte è
davvero difficile fare un distinguo tra di essi; perché se è tipico della
violenza opprimere, è anche vero che l’oppresso può a sua volta rispondere con
la violenza, scatenando così lo straziante dilemma di dove inizia e dove
finisce la sottile linea tra legittima difesa e aggressione: anche l’oppresso
può rischiare di divenire oppressore. In questo intreccio così complesso, che
spesso le situazioni di violenza portano con sé, si alza il grido verso Dio:
«Perché non intervieni?».
E,
come sempre, la risposta di Dio è spiazzante, proprio perché invita a guardare
la realtà da un punto di vista «altro», si potrebbe dire dall’alto e, in questo
caso, ancor meglio, dalla «fine»: «Il Signore rispose e mi disse: “Scrivi la
visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. È una
visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se
indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che
non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”».
Ci
sono due elementi importanti in questa risposta di Dio: «l’animo retto» e il
fatto che «il giusto vivrà per la sua fede». Ora, riguardo al primo elemento,
chi è colui/colei che ha un animo retto? Tutti sono brave persone; tutti, chi
più chi meno, cercano di essere retti, ma di fatto più si è retti e più ci si
accorge di non esserlo del tutto. Faccio un esempio per chiarire: più polvere
c’è su di un tavolo e più non è possibile accorgersi di altra polvere che
sopraggiunge, ma se il tavolo è ben spolverato ecco che il granello di polvere
che vi si deposita è subito visibile.
La
rettitudine è un modus vivendi che richiede una costante vigilanza e
consapevolezza interiore di quanto si dice, si fa e si pensa: più tale
«vigilanza» è attiva e più si percepisce ciò che non è retto, si percepiscono i
propri limiti, la necessità di un cammino continuo che non porterà mai
definitivamente alla meta di «un animo retto». Tutto questo per dire che se la
speranza di salvarsi si basa sul livello di rettitudine, è una speranza assai
vana. Ma c’è l’altro elemento che controbilancia e mantiene, invece, viva
questa speranza: la fede. Quella fede che, direbbe Paolo, ci rende giusti (Rm
5,1) e, come dice il profeta Abacuc, ci farà vivere.
«Fino
a quando, Signore?». La fede, a stento visibile come un granello di senape, ma
allo stesso tempo potente come la forza evangelica capace di sradicare,
spostare e piantare un albero in un luogo così inadatto come il mare, ci
insegna che tutto ha un termine, che il male per quanto orribile e terribile ha
già un termine, è di per sé finito, limitato. Anche se produce morte e
distruzione, non è eterno e soprattutto non ha l’ultima parola; l’orizzonte è
un altro e solo la fede può aprirci il varco per contemplarlo già ora, già qui.
Bisogna
allora passivamente attendere questa fine? Magari diventando giorno dopo giorno
insensibili al male, alla violenza, all’oppressione? No, ma tutto questo ci
dovrebbe stimolare a volgere lo sguardo in alto per guardarci veramente dentro,
per diventare sempre più sensibili di fronte a quel granello di polvere che ci
portiamo dentro, imparando così a entrare nella complessità della nostra
realtà, che non è mai del tutto bianca o del tutto nera, in cui l’oppresso e
l’oppressore non sono sempre delle parti così distinte e nette, e imparando ad
accogliere quella giustizia che produce vita proprio perché promuove la vita;
allora «Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo» (Sal
85,12).
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