L’eclisse
della realtà
e il dilagare
della violenza
- di Giuseppe Savagnone
Una
guerra senza verità
Lo
svolgersi degli ultimi eventi sugli scenari internazionali sembra confermare
l’idea, oggi così diffusa, che la verità non esiste, o, più
precisamente, che non ce n’è una valida per tutti, perché ognuno ha
la sua.
Si
guardi alla “guerra dei dodici giorni” di Israele e degli Stati Uniti contro
l’Iran. Frutto di un intervento necessario e urgente per garantire la sicurezza
non solo d’Israele, ma del mondo intero, secondo l’interpretazione unanime dei
governi occidentali, oppure aggressione sionista e imperialista, contraria ad
ogni regola del diritto internazionale, come l’hanno definita, oltre allo
stesso governo di Teheran, Russia e Cina?
E
davvero l’Iran era sul punto di costruire la bomba atomica, come sostiene
Israele appoggiato, ancora una volta, da tutto il mondo occidentale, oppure la
repubblica islamica aveva fin dal 2003 rinunziato a questo obiettivo, puntando
piuttosto su un uso pacifico dell’arricchimento dell’uranio, come nel mese di
marzo aveva affermato davanti al Congresso la direttrice
dell’Intelligence nazionale Tulsi Gabbard (che però, in seguito alle reazioni
del presidente americano, ultimamente ha ritrattato queste affermazioni)?
E
il significato del bombardamento americano sui siti nucleari iraniani? «Gli
attacchi in Iran come Hiroshima, hanno messo fine alla guerra», ha detto Trump,
secondo cui con questa operazione, ammirevole sotto il profilo militare, si è
raggiunto pienamente l’obiettivo.
Di
danni significativi, ma non decisivi, per il programma di arricchimento
dell’uranio parlano, invece, le autorità iraniane, ma anche autorevoli fonti
giornalistiche americane come il «New York Times», la CNN e il «Financial
Times», secondo cui gli iraniani avrebbero in tempo trasferito il materiale più
prezioso in altri siti, segreti e sicuri.
Addirittura
è sull’esito stesso della guerra che si registrano versioni opposte e
contraddittorie. Un trionfo di Israele e degli Stati Uniti, secondo Netanyahu e
Trump, una «vittoria schiacciante» dell’Iran secondo la Guida Suprema Khamenei.
La
doppia immagine della presidenza Trump e un episodio italiano
Ma
non è l’unico caso in cui lo smarrito spettatore delle vicende pubbliche è
indotto a ricordare le parole di Pirandello, a conclusione del suo dramma «Così
è (se vi pare)», quando mette in bocca alla donna velata, sulla cui identità
nel corso dell’opera ci si è interrogati, le famose parole: «Io sono colei che
mi si crede».
La
stessa figura del presidente americano Trump è al centro di opposte letture. I
sondaggi fatti negli Stati Uniti in questi primi mesi del suo governo indicano
una caduta verticale di popolarità, sia per gli effetti economici e
finanziari devastanti della sua volubilità nella politica dei dazi, sia per il
mancato adempimento della promessa di chiedere in pochi giorni le due guerre in
corso in Ucraina e nella Striscia di Gaza.
Più
recentemente, a esasperare questa delusione è arrivato l’attacco all’Iran, che
ha addirittura esposto gli stessi Stati Uniti al rischio di impantanarsi in una
guerra nel Medio Oriente. Così il Tycoon ha registrato il peggiore indice di
gradimento dopo cento giorni di qualunque altro presidente dal 1952 a oggi.
In
diversi sondaggi è emersa anche un giudizio negativo sulla politica migratoria
di Trump, che pure era stato uno dei punti del suo programma che gli aveva
garantito il successo. Per molti americani le deportazioni degli irregolari
sono andate «troppo in là».
In
particolare è stata espressa una netta opposizione alle deportazioni nei
confronti di persone che hanno vissuto negli USA per più di dieci anni, o che
hanno figli con la cittadinanza americana, o che non hanno commesso alcun
reato.
Da
parte sua, invece, Trump ha festeggiato questo stesso periodo come «i 100
giorni più di successo di qualsiasi Amministrazione nella storia del nostro
Paese». E anche all’estero non sono mancati gli apprezzamenti, soprattutto da
parte dei rappresentanti politici della destra come, in Italia,
Salvini e Meloni.
Per
non parlare degli editoriali di Mario Sechi, direttore di «Libero», e di
Belpietro, direttore de «La Verità», che hanno esaltato senza mezzi termini la
spregiudicatezza del presidente americano come l’inizio di una nuova era,
contrapponendola alla ingessata ed obsoleta politica tradizionale.
Ed
è degli ultimi giorni il messaggio che il Segretario generale della NATO, Mark
Rutte, ha inviato a Trump dopo l’attacco all’Iran e l’imposizione ai paesi
europei dell’aumento al 5% delle spese militari: «Caro Donald congratulazioni
per la tua azione cruciale in Iran, una cosa che nessuno avrebbe osato fare».
Poi, sull’obiettivo del 5%: «Donald, ci hai guidati verso un momento veramente
importante per l’America, l’Europa e il mondo». E ancora: «Raggiungerai
qualcosa che nessun presidente americano è riuscito a fare negli ultimi
decenni».
Ultimo
segnale di questo impero della contraddizione: pochi giorni fa il governo del
Pakistan ha proposto di assegnare al presidente USA Donald Trump il Premio
Nobel per la Pace 2026, come riconoscimento del suo «decisivo intervento
diplomatico» in occasione della recente crisi tra India e Pakistan.
Anche
per quanto riguarda il nostro paese, gli esempi di “doppia verità” non mancano.
Alcuni giorni fa il nostro ministro degli Esteri, Tajani ha affermato che
«quello che abbiamo fatto noi a Gaza non l’ha fatto nessun governo europeo».
E
la nostra premier ha dichiarato in Parlamento che «obiettivo prioritario per
l’Italia» è «il cessate il fuoco a Gaza, dove la legittima reazione di Israele
a un terribile e insensato attacco terroristico sta assumendo forme drammatiche
e inaccettabili, che chiediamo a Israele di fermare immediatamente». Solo
qualche giorno dopo, però, al Consiglio europeo l’Italia, insieme alla
Germania, si è fermamente opposta alla proposta, avanzata da diversi altri
paesi membri dell’UE, di interrompere l’accordo di associazione con Israele, in
forza di un articolo di esso che ne prevede la sospensione in caso di
violazione di diritti umani.
Possiamo
rassegnarci alla fine della realtà?
«Il
mondo è diventato favola», aveva affermato Nietzsche, in uno dei suoi scritti.
Nella sua visione nichilista la realtà non esiste e si riduce alle narrazioni
che noi ne facciamo. Così come non esiste alcun criterio etico che possa
fondarsi sulla verità delle cose – «Al di là del bene del male» si intitola una
sua opera.
Non
ci resta ormai che prendere atto dell’ineludibile forza di questa profezia
e adattarci al quadro che in base ad essa si sta delineando?
Proprio
ciò che abbiamo sotto gli occhi ci costringe a ribellarci a questo destino.
Perché una verità almeno sembra imporsi in modo indiscutibile, ed è che la fine
della verità consegna il mondo alla logica di una violenza illimitata, al cui
trionfo stiamo assistendo. Dove violenza è la forza che non si fonda sul
diritto, ma pretende di sostituirlo.
Violenza
è quella del regime iraniano, che soffoca la libertà – soprattutto quella delle
donne – e, sia vero no che sta costruendo la bomba, non rinunzia comunque
alla pretesa di cancellare dieci milioni di cittadini dello Stato d’Israele.
Violenza
è quella di Netanyahu, che, simmetricamente, vuole fondare la sicurezza dello
Stato ebraico su una guerra di annientamento senza limiti e senza fine
contro chiunque costituisca un pericolo prossimo o remoto nei suoi confronti.
E
violenza è quella di Trump, che in nome degli interessi americani – o di quelli
che egli crede tali – calpesta le vite di milioni di persone, minaccia anche i
paesi amici – con i dazi o addirittura con le armi, come nel caso della
Groenlandia – e avanza pretese spudoratamente affaristiche, come quelle sulle
terre rare dell’Ucraina.
Senza
verità e senza distinzione tra bene e male la violenza non è più la patologia
della politica, ma la sua regola, perché ognuno può raccontare la realtà come
gli conviene. Ma questo non è più il mondo degli esseri umani, è la
giungla, dove l’unica legge è quella del più forte.
E
la violenza ricade su tutti, non solo su chi immediatamente la subisce. Ci si
può illudere di rifare di nuovo grande l’America sostenendo Israele nel più
grande massacro di civili dalla seconda guerra mondiale in poi, bloccando
l’attività dell’USAID, la più grande agenzia al mondo di aiuti umanitari ai
poveri, e al tempo stesso conducendo una lotta senza quartiere contro questi
stessi poveri che cercano negli Stati Uniti una vita migliore.
Così
come ci si può illudere che questa stessa logica vada bene per rifare grande
l’Italia, dove la nostra premier è totalmente appiattita sulla linea di Trump.
Così
come si può anche credere che aumentando gli armamenti ci si tutelerà dalle
minacce alla nostra sicurezza, in funzione della politica imperialista d Putin,
senza rendersi conto che il dittatore russo, con le sue folli manie di
grandezza, è solo la punta di un iceberg ben più minaccioso per
l’Occidente egoista che abbiamo creato, e che è il Sud del mondo, del quale
fanno parte i poveri, che diventano sempre più numerosi e il cui odio stiamo
attizzando sempre di più. «Si vis pacem para bellum», ha detto in Parlamento
Giorgia Meloni, ricorrendo a una dotta citazione per sostenere la sua adesione
al programma di riarmo della NATO, che prevede l’innalzamento delle spese
militari dall’1,5% al 5% del nostro PIL.
Ma
davvero l’unica via per la sicurezza è spendere i soldi per le armi, invece che
per rendere migliori le condizioni di vita di chi ci minaccia? Le armi non
hanno mai garantito la pace.
Se
vuoi la pace, prepara la pace. Essa ha bisogno che l’odio diminuisca, e le
bombe su Gaza non solo non rendono più sicuro Israele, ma creano le condizioni
perché la sua insicurezza duri per sempre, così come le violenze nei campi
di concentramento in Libia e in Tunisia finanziati dall’Italia
non sembrano un buon biglietto da visita per il tanto strombazzato “piano
Mattei”, che vorrebbe avvicinare il nostro paese all’Africa.
A
ricordarci che il mondo che stiamo costruendo, puntando sulla corsa agli
armamenti, potrà solo basarsi su una guerra continua è stato recentemente Leone
XIV: «Non dobbiamo abituarci alla guerra, bisogna respingere la corsa agli
armamenti», ha detto il papa. «Ripeto ai responsabili ciò che diceva Papa
Francesco: “la guerra è sempre una sconfitta”».
Ma
la pace, come insegnava Gandhi, ha bisogno della verità e nasce da essa. È da
qui che bisogna ricominciare. Solo che riscoprire la cultura della verità
richiede l’abbandono di quella oggi dominante, che chiude non solo i
politici, ma tutti noi, nella bolla delle nostre illusioni soggettive e ci
impedisce di vedere la realtà. È una sfida epocale. Ma noi saremo capaci
di raccoglierla?
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di Mahmoud Sulaiman su Unsplash