Dal genocidio
al
neocolonialismo
Un
giorno storico
«Tutto
si sta risolvendo. Oggi è un giorno storico per la pace. Con Netanyahu
abbiamo parlato di come porre fine alla guerra a Gaza nel quadro più
grande di una pace eterna nel Medio Oriente». Con queste le parole il
presidente americano Trump ha iniziato la conferenza stampa congiunta
con il premier israeliano Netanyahu, in cui ha enunciato i venti punti del
suo piano per la pace a Gaza.
E
le reazioni internazionali hanno confermato il suo ottimismo. Il piano ha
riscosso l’unanime approvazione dei governi di tutto il mondo. In
particolare, i leader europei, da Ursula von der Leyen a Emmanuel Macron, che
ultimamente erano apparsi piuttosto critici verso politica di Israele nella
Striscia, hanno reagito positivamente a quella che hanno considerato, per
usare le parole della presidente, un passo importante verso «la soluzione dei
due Stati», che rimane, a loro avviso, «l’unica strada percorribile per una
pace giusta e duratura».
Entusiasta
la reazione del governo italiano. La premier Giorgia Meloni ha ringraziato
Trump «per il lavoro di mediazione e i suoi sforzi per portare la pace in Medio
Oriente. L’Italia esorta quindi tutte le parti a cogliere questa opportunità e
ad accettare il Piano». Da parte sua, il vice-premier Matteo Salvini ha
definito la notizia «splendida», avvertendo che «nessuno deve sabotare
questo accordo prezioso».
Meloni
non ha fatto altro che esprimere l’opinione comune in questo momento:
grazie a Trump – ancora più convinto, adesso, di meritare il premio Nobel per
la pace – si è arrivati finalmente a un accordo giusto e ragionevole che può
porre fine a tante sofferenze di innocenti e la responsabilità di
ratificarlo o respingerlo ricade ora solo su Hamas.
Accordo
o ultimatum unilaterale?
Qualche
dubbio, però, non può non emergere se si guarda con un po’ di attenzione quello
che sta accadendo. A cominciare da ciò che Meloni ha definito, in un primo
commento, «mediazione» e, in una successiva dichiarazione, «accordo per la
pace», dandone il merito al presidente americano. “Mediazione” e “accordo”
tra chi? Manca la controparte.
Non
è stato Hamas, che pure lo è nella realtà e il cui assenso, infatti, è
riconosciuto dallo stesso Trump decisivo. Non è stato neppure l’Autorità
Nazionale Palestinese, che pure, a differenza di Hamas, riconosce Israele.
Ma
anche questa legittima rappresentanza del popolo palestinese non è
riconosciuta, a sua volta, dal governo di Tel Aviv ed è guardata con
diffidenza da quello di Washington, che pochi giorni fa ha addirittura
negato ai suoi rappresentanti il visto per entrare negli Stati Uniti e
partecipare, come avrebbe pieno diritto di fare, all’Assemblea dell’ONU.
Nessuna
meraviglia che non sia stata invitata, non dico per discutere il piano, ma
almeno per esprimere le esigenze del popolo di cui esso definisce il futuro.
Le
parole della nostra premier e di quanti, nel mondo occidentale, le ripetono,
sono dunque una finzione linguistica per coprire il fatto che siamo
davanti a un progetto scritto sulla testa degli interessati, senza neppure
ascoltarli, e costruito in base ai loro progetti.
Che
già, peraltro, essi avevano espresso senza mezzi termini fin dalla precedente
conferenza-stampa congiunta, tenuta all’indomani dell’insediamento del Tychoon
alla Casa Bianca, in cui avevano annunciato il proposito di trasformare la
Striscia di Gaza in un resort di lusso.
Un
progetto che ora, pur con qualche importante modifica (non si parla più di
deportazione in massa degli abitanti della Striscia), è in fondo ripreso nel
piano presentato ora, dopo qualche mese.
Adesso
questo proposito si è trasformato in un vero e proprio ultimatum, rivolto
certamente ad Hamas, ma in definitiva al popolo palestinese: se non ci si
piegherà al diktat unilaterale di Stati Uniti e Israele, sarà l’inferno, e non
solo per i terroristi, ma prima di tutto per la popolazione civile, anche
se è difficile immaginare qualcosa di peggio di quello che ha già
dovuto subire.
Il
fantomatico “Stato palestinese”
Una
seconda perplessità (per usare un eufemismo) nasce dal fatto che i soli garanti
della corretta realizzazione dei venti punti elencati nel
piano saranno i suoi stesi autori, Trump e Netanyahu.
Quest’ultimo,
proprio per la sua politica verso Gaza, è stato giudicato colpevole, dalla
Corte Penale Internazionale, di «crimini contro l’umanità» e di recente è stato
accusato, da una Commissione indipendente dell’ONU e da autorevoli
intellettuali – anche ebrei e israeliani, come David Grossmann – di
essere responsabile di genocidio.
Quanto
a Trump, si è sempre senza riserve schierato dalla sua parte, fino al punto di
perseguitare con pesantissime sanzioni chiunque avallasse quelle accuse, dai
giudici della stessa Corte alla relatrice dell’ONU per Gaza Francesca Albanese.
A
questi due personaggi, ufficialmente nemici del popolo palestinese, non
solo si deve l’ideazione del piano sull’assetto da dare a questo
popolo, ma è affidata anche la sua applicazione. Ruolo tanto più
delicato in quanto molti punti del piano stesso non contengono precisazioni
cronologiche e lasciano indeterminato il futuro.
Primo
fra tutti quello che ha spinto molti governi, fautori della soluzione dei “due
Stati” ad accogliere con favore questo piano, la nascita, finalmente, di uno
Stato palestinese.
La
soluzione prevista è, in realtà, che a governare Gaza sia «un
comitato tecnocratico e apolitico» composto da palestinesi qualificati ed
esperti internazionali, con la supervisione di un nuovo organismo
internazionale di transizione, il “Board of Peace”, che sarà presieduto dal
Presidente Donald J. Trump, con altri membri e capi di Stato da decidere, tra
cui l’ex Primo Ministro Tony Blair». (n.9).
Questo
«fino a quando l’Autorità Nazionale Palestinese non avrà completato il suo
programma di riforme (…) e potrà riprendere il controllo di Gaza in modo sicuro
ed efficace» (ivi). Solo allora «potrebbero finalmente crearsi le
condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e lo Stato
palestinese, che riconosciamo come l’aspirazione del popolo palestinese»
(n.19).
Formule
al condizionale, fortemente ipotetiche, e comunque aperte a qualunque possibile
scadenza temporale. Chi deciderà quando le «condizioni per un percorso
credibile verso l’autodeterminazione e lo Stato palestinese‚» si saranno
finalmente realizzate? Evidentemente non i palestinesi.
E
poiché i promotori e i garanti del piano sono due nemici, acerrimi e dichiarati,
dell’ipotesi stessa di uno Stato palestinese – «Non si farà mai!», ha gridato
anche recentemente Netanyahu, approvato in pieno da Trump – non è da
maligni sospettare questo percorso, già ora rimandato a un lontano e
ipotetico futuro, non comincerà mai.
Come
sembra confermare, del resto, il fatto che nel piano non si dice nemmeno una
parola sul destino della Cisgiordania, la cui progressiva occupazione illegale
da parte degli insediamenti israeliani, secondo l’ultima dichiarazione del
ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, «seppellirà l’idea di
uno Stato palestinese». A questi insediamenti il paino non prevede alcun freno,
avallando tacitamente la prospettiva del ministro.
Ancora
una volta siamo davanti a una evidente smentita delle commosse dichiarazioni
diplomatiche che lo hanno salutato come una porta aperta verso il giusto
riconoscimento della patria palestinese.
I
tanti governanti che hanno detto questo o non avevano letto bene il testo,
oppure non hanno visto l’ora di scaricarsi del problema posto
nell’opinione pubblica, dalle stragi in corso a Gaza, sacrificando la verità e
la giustizia alla loro cessazione.
La
rinascita del colonialismo
Nel
frattempo, a governare la Striscia sarà il “Board of Peace”, «presieduto dal
Presidente Donald J. Trump, con altri membri e capi di Stato da decidere, tra
cui l’ex Primo Ministro Tony Blair» (n.9).
Vero
è che nel piano si dice che «Israele non occuperà né annetterà Gaza»
(n.16) e che, a differenza del progetto originario enunciato all’inizio di
quest’anno da Trump e Netanyahu, essi assicurano nel testo attuale che
«nessuno sarà costretto a lasciare Gaza, coloro che lo desiderano saranno
liberi di farlo e di tornare», aggiungendo anzi: «Incoraggeremo le persone a
rimanere e offriremo loro l’opportunità di costruire una Gaza migliore».
Ma
non certo come cittadini liberi e indipendenti. Gli unici nomi menzionati
nell’organismo destinato al controllo del territorio palestinese
sono quello del presidente americano e di un ex primo ministro inglese. Siamo
in una logica che ha caratterizzato tutala storia del colonialismo: per il bene
degli indigeni è meglio che siano gli occidentali a decidere al posto loro –
come è stato nell’“accordo” che ha dato vita al piano – e a esercitare il
potere sulle loro terre.
Con
quali intenti e con quale stile lo dice tutta la storia del colonialismo. Quel
che in questo caso è certo è che l’ex premier Tony Blair – già noto per aver
collaborato alla falsificazione delle prove portate dal presidente
americano Bush per aggredire gratuitamente, nel 2003, l’Iraq – si è da
tempo dato a una fiorente attività economica e finanziaria. E poiché Gaza
è considerata oggi, per usare le parole del ministro Smotrich, «una
miniera d’oro immobiliare», si delinea già la prospettiva di uno sfruttamento
sistematico della Striscia da parte dei paesi occidentali e di Israele, che ne
è stato, ne è e ancor più ne sarà il fido partner democratico nella
barbare terre mediorientali.
E,
in questa logica, potrà essere anche realizzata quella idea del resort di lusso
da costruire sulle macerie, annunciata da Trump e Netanyahu nella loro prima
conferenza stampa congiunta.
Ai
palestinesi – a quelli che non sono morti di fame o per i bombardamenti – ,
visto che non avranno diritti politici, potrebbe essere affidato il compito di
personale di servizio nella futura Gaza Betch.
Quanto
al controllo militare, gli Stati Uniti collaboreranno con i partner arabi e
internazionali per sviluppare una Forza Internazionale di
Stabilizzazione (ISF) temporanea da dispiegare immediatamente a Gaza», a
cui le truppe israeliane «cederanno progressivamente il territorio di Gaza che
occupano» (n.16).
Resta,
anche qui, indeterminato il momento di questo passaggio di consegne. E uno dei
proponenti/garanti del piano, Netanyahu, ha già chiarito che «l’esercito
israeliano resterà su gran parte della Striscia di Gaza». Come aveva sempre
detto. Non sembra esagerato quello che ha scritto il «New York Times»,
secondo il quale, con questo patto, il premier israeliano ha avuto tutto
ciò che voleva. Giusto premio per il genocidio compiuto.
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