con
Massimo Recalcati
Intervista
di Anna Stefi
Torniamo,
con lo psicoanalista Massimo Recalcati, a parlare di adolescenti e scuola. Massimo Recalcati non ha bisogno di presentazioni, ma
in questa occasione mi pare importante ricordare che a lui, e alle sue
teorizzazioni, si deve la nascita di Telemaco di Jonas Milano, un
luogo di cura e ascolto, orientato dalla psicoanalisi, e rivolto agli
adolescenti e a chiunque li affianchi nel loro processo di crescita.
Anna
Stefi: spesso, parlando di adolescenza, sei tornato sull’importanza di
accendere il desiderio come nodo nel rapporto con i giovani. Ti riporto le
parole di Irene, mia studentessa: “studio e ripeto, studio e ripeto, studio e
ripeto. E dimentico. Questa cosa mi sconfigge. Non sopporto il richiamo al che
cosa desidero, perché capire cosa desidero, e cosa voglio diventare, mi mette
più ansia ancora della maturità: mi sento in colpa perché non lo so”. Ho
sentito un chiaro j’accuse: “anche questo volete da me!”. Un
desiderio diventato dovere non nel modo in cui sei solito declinarlo tu – il
dovere del desiderio – ma come una prestazione tra le altre cui si sentono
chiamati.
Massimo Recalcati: la distorsione di cui
dici avviene sul piano della domanda. Uno dei grandi contributi che Lacan dà a
una teoria possibile della adolescenza è la distinzione tra piano della domanda
e piano del desiderio. L’adolescenza sarebbe il primo tempo del processo di
soggettivazione, in cui il desiderio del soggetto si contrappone alla domanda
dell’Altro. Una delle etimologie possibili di adolescenza è “acquisire il
proprio odore”: l’odore del desiderio si rivela eterogeneo alle aspettative
della domanda dell’Altro, in cui rientrerebbe anche avere un desiderio. Se
“avere un desiderio” si configura come un modo della domanda dell’Altro, il
soggetto, per preservare la propria singolarità, deve disertare il desiderio.
Se il desiderio diventa un dovere prescritto dall’Altro, o dal dispositivo
istituzionale, non è più tale. Nella didattica abbiamo tanti esempi
illustri: I Promessi Sposi, o la Commedia, in quanto
oggetti della domanda, non possono istituirsi come oggetti del desiderio, non
perché non abbiano in sé questa possibilità – tant’è che molti di noi hanno
studiato Manzoni o Dante a scuole terminate, quando la domanda non era più
ingombrante.
Distinguerei,
se dobbiamo usare questa terminologia, il termine “dovere”, una imposizione
della domanda, fosse anche il dover avere un desiderio, da quello che Lacan,
nelle prime lezioni del Seminario VII, chiama il “vero dovere”, che
è il desiderio. Il desiderio come vero dovere è ciò che contrasta ogni tipo di
domanda. Paradossalmente, allora, è possibile che ci sia più desiderio
nell’apatia o nel rigetto del sapere che troviamo in certi adolescenti, che non
nel conformismo di adeguarsi alle aspettative. Il desiderio, del resto, implica
sempre un’invenzione. È possibile fare delle invenzioni un obbligo? È chiaro
che non è possibile, questo è il paradosso più profondo della scuola: da un
lato dovrebbe accendere il desiderio ma, nella misura in cui la sua esperienza
è disciplinata da un dispositivo, l’accensione del desiderio sembra contraddire
la struttura del dispositivo. Dobbiamo vivere questa contraddizione: il
dispositivo, che è una macchina tritacarne, non esclude la possibilità
dell’incontro con qualcosa, che avviene a causa dell’obbligo e che trascende
l’obbligo.
Stefi: in
relazione a quanto dici, e al rapporto tra fatica e desiderio, mi domando se
non si potrebbe dire che non solo il desiderio si accenda nonostante il
dispositivo, ma che, in qualche modo, la strettoia del dovere, e dunque del
dispositivo, sia necessaria. Avevo un insegnante alle medie che mi ha costretta
a studiare una quantità infinita di poesie di Leopardi a memoria – Ginestra compresa.
Allora mi sembrava una tortura: così tante, lunghe e con una tale costanza.
Tuttavia, sono convinta che il mio amore per la poesia venga anche da lì.
Recalcati: possiamo sostituire il
termine fatica, che pure è un termine preciso, che mette in luce una delle
cifre più significative della psicopatologia dell’adolescente oggi – la fatica
evidente a desiderare –, con il termine ripetizione. La ripetizione è una componente
essenziale della didattica. Coinvolge l’insegnante, che è tenuto a ripetere un
programma, un autore, a ripercorrere testi che già conosce, e l’allievo,
sottomesso alla legge della ripetizione. L’adolescente tende a rigettare la
ripetizione, domanda il nuovo. Il nostro compito è mostrare che la ripetizione
non è nemica dell’invenzione, ma che è anzi lo sfondo che la rende possibile,
che non è un’emancipazione dalla ripetizione ma è una piccola torsione della
ripetizione. La tua insegnante vi ha iscritti in una ripetizione, quello che
Pennac chiama “il grande fiume della lingua”, per cui lui sostiene l’importanza
di studiare le poesie a memoria perché sarebbe un’immersione nel, con Lacan,
“bagno del linguaggio”. Lì c’è un’immersione necessaria ma non c’è ancora
soggetto. Soggetto c’è quando qualcosa viene fuori da questa immersione, nei
modi più imprevedibili. L’emergere dalla ripetizione è l’effetto soggetto di
ogni didattica, e non può prescindere dalla ripetizione. È il doppio volto
della ripetizione che da un lato consuma – gli allievi, gli insegnanti – ma
dall’altro genera la differenza, non è ostile alla differenza.
È
come in un percorso analitico: c’è un aspetto burocratico, ripetitivo, e, a un
certo punto c’è un effetto soggetto. È qualcosa che definisce in generale
l’esperienza della formazione: la formazione è ripetizione e invenzione.
L’invenzione avviene solo su quello sfondo, altrimenti c’è sconnessione,
esaltazione, c’è quello che i romantici chiamavano “il colpo di pistola del
sentimento” che però non dà forma alla vita.
Stefi: non
ricordo se nel ripetere e memorizzare Leopardi avevo qualcosa dell’ordine della
speranza, fiducia che da quella pratica odiata qualcosa sarebbe emerso. Se –
potrei dire così – “ci credevo”. Più semplicemente, probabilmente, non la
mettevo in questione. Quello che riscontro oggi è una maggior ferocia, o un
maggior disincanto, rispetto al dispositivo. Potrei dirla così: il loro “il
latino non serve a niente” mi pare più radicale del nostro. Chiedono una
traduzione più immediata di quello che proponiamo loro, non a caso trovo più
ascolto se parlo, in classe, il linguaggio della psicoanalisi piuttosto che
quello della filosofia.
Recalcati: la questione è il
rapporto tra il dispositivo e quello che potremmo chiamare “l’effetto maestro”,
ovvero l’innamoramento, nel senso ampio che assume in Platone l’erotizzazione
del sapere. Non è solo suggestione: l’innamoramento genera transfert, movimento
nel soggetto che acquista la forza dell’amante. Il maestro come un magnete che
raduna attorno a sé amanti: la dimensione erotica è il nerbo della didattica,
ed è chiaramente in contrasto con il dispositivo. Non sarebbe però pensabile
senza il dispositivo. Questa topologia è difficile da comprendere per un
adolescente: l’effetto di innamoramento non è possibile in strada con questi
stessi effetti, è possibile solo dentro un dispositivo che fa in modo che tali
effetti non cadano nella suggestione settaria, che il maestro non diventi un
guru. Anche perché questa forza deve essere canalizzata verso il sapere. Tu
dici: è lì che c’è l’ostacolo. Il sapere psicoanalitico di cui dici potremmo
tradurlo come un sapere che chiaramente tocca la vita: questo consente di
mantenere la forza aggregativa del magnete. Quando, invece, introduci il sapere
come tale, la loro supposizione nichilistica è che il sapere sia contro la
vita, non sia utile alla vita. La scommessa vera è mostrare che non solo il
sapere psicoanalitico ma il sapere in quanto tale li riguarda. Un sapere che
ciascuno seleziona, poiché ci sono dei saperi che ci interessano, altri meno.
Questo fa parte della singolarità dell’inclinazione. L’enciclopedismo è una
idiozia mentale, annulla la singolarità del desiderio. Ogni allievo avrà un
sapere interessante per lui, che tocca le corde più vive. La grande scommessa,
a scuola, è smentire che il sapere dell’altro sia un sapere morto. Come si
smentisce? Testimoniando che è vivo, trasmettendo un sapere vivo. Questo è
l’impegno della didattica che si rinnova nel tran-tran della
ripetizione. È chiaro che è più facile parlare d’amore, di sesso, di
ambivalenze affettive e di rapporti: gli oggetti della psicoanalisi sono
chiaramente più affascinanti. Non tutti devono diventare psicoanalisti.
L’attivazione deve servire a spostare il transfert sul sapere.
Stefi: e
rispetto al tema della fiducia?
Recalcati: la differenza che vedo
è che il nostro nichilismo – penso alla mia generazione – aveva come obiettivo
il dispositivo: l’idea era che l’istituzione opprimesse il desiderio. Si
trattava, per noi, di abbattere il dispositivo per rivendicare una libertà di
apprendimento, senza comprendere che la libertà di apprendimento dipende
dall’esistenza dell’istituzione. Il “basta con i padri” e “basta con i maestri”
aveva come spinta decapitare l’anima foucaultiana, che è essenziale alla scuola
(le gerarchie, i doveri, le imposizioni). L’ideologismo della mia generazione
abbatteva ruoli e funzioni e la critica al dispositivo implicava la fiducia
nella libertà. Oggi secondo me la sfiducia è più diffusa, la critica al
dispositivo non è dettata dall’esigenza di sprigionare la potenza del desiderio
ma è il “non serve a niente”. Un nichilismo che non immagina un futuro: il
tempo non ha una profondità. La sfiducia sorge dalla disperazione e dal
cinismo, ma è così vero che non credono più a niente? Sono solo disperati e cinici?
I giovani di un tempo avevano un orizzonte valoriale ampio e l’idea che era
possibile, anzi era nostro compito, trasformare il mondo. Questa dimensione è
totalmente persa e penso che gran parte delle difficoltà di oggi dipendano
dalla caduta di questo orizzonte. La soluzione, tuttavia, non è nella sua
restaurazione: il superamento di questo nichilismo non è la restaurazione della
passione ideologica, così come la soluzione del problema della famiglia oggi,
delle difficoltà del discorso educativo, non sono nel recupero nostalgico della
famiglia patriarcale. Il compito è più sottile, difficile e complesso. Continuo
a pensare che la sola cosa che possiamo fare sia accendere il desiderio di
questi ragazzi: chiunque è impegnato sul piano educativo deve avere questo come
compito.
Stefi: dunque
l’orizzonte non può più essere collettivo?
Recalcati: il desiderio non è mai
solo individuale. Questo è un punto molto importante, su questo ci sono delle
obiezioni che Deleuze ha fatto alla psicoanalisi molto precise. Dobbiamo
pensare che il desiderio, nella misura in cui è messo in moto, implica una singolarità
che non è solo individuale, perché tale singolarità genera concatenamenti,
effetti collettivi, legami, nessi nuovi. Questa è già la dimensione collettiva
del desiderio. Però, nella pratica educativa, nella didattica, quello che conta
è sempre l’uno per uno, non il collettivo. Quello che conta è l’incontro, che è
sempre un incontro che si istituisce sulla singolarità. Credo davvero che la
salvezza dei nostri figli sia nella grazia dell’incontro.
Stefi: questa
cosa accade, e tuttavia, rispetto a un po’ di tempo fa, sento forte il bisogno
che hanno di rispondere all’angoscia che provano davanti alle scelte (e in ogni
scelta sembra giocarsi la partita della loro vita) riducendo la distanza
dall’adulto e delegando: scegli per me, dimmi cosa devo fare.
Recalcati: la delega all’altro è
l’effetto di un’ostruzione del passaggio dalla domanda al desiderio, è
l’infantilizzazione che il discorso sociale, e non solo familiare, oggi induce.
Prima dicevamo: nell’adolescenza il desiderio si contrappone alla domanda. Oggi
una delle perversioni di questo snodo evolutivo è che l’adolescente resta
fissato alla dialettica della domanda, sia quando la nega, sia quando la
invoca: chiedere all’altro cosa fare. La centralità della domanda riguarda
anche il tema della prestazione, che è sempre conformistica, è sempre risposta
alla domanda. Il desiderio non ha a che fare con la prestazione ma con
l’azione. La prestazione è sempre in rapporto all’Altro. Siamo in un tempo di
monadi ma, al tempo stesso, di monadi tutte attaccate, tutte connesse. Basta
pensare ai social. Chiedere all’Altro è segno di un’infantilizzazione, non c’è
effetto soggetto. Escono dalla famiglia più facilmente di un tempo, ma la
separazione non è questo: separarsi è separarsi dalla domanda dell’Altro,
introdurre un oggetto proprio che non è commestibile da questa domanda, è
irriducibile. Il proprio desiderio è l’oggetto separatore.
Stefi: rispetto
a questo, per favorire questo che dici, mi pare necessario, come adulti, un
movimento di sottrazione. Mi pare che non ci debba essere solo il loro
“segreto”, come scrivi tu nel
libro dedicato a questo, ma anche il nostro. L’impressione che ho è
che sia necessario smettere il lavoro di eccessiva traduzione che mettiamo in
atto, rendersi in qualche modo indisponibili, lasciando che incontrino, in noi,
anche la dimensione del muro. Il muro non dell’autorità ma, appunto,
dell’enigma. La fatica che si rende necessaria, per noi educatori, insegnanti,
genitori, è sopportare di non essere amati.
Recalcati: la patologia del voler
essere amati è una delle distorsioni più perverse dell’educatore ipermoderno.
Un buon formatore, un insegnante, un educatore, e per certi versi anche un
analista, deve amare – come diceva Massa parlando della didattica – chi impara.
Non amare di essere amato. La soddisfazione è amare chi impara, generare un
desiderio nuovo. Questa è una soddisfazione molto superiore a quella
dell’essere amati: vedere che una vita si mette in movimento. Per fare questo
bisogna custodire l’asimmetria. C’è un modo semplice di negare l’asimmetria ed
è la simmetrizzazione: farsi amici, dissolvere ogni segreto, l’eccesso di
intimità. Poi c’è una asimmetria formale, retorica, che è la differenza dei
ruoli: c’è l’insegnante, ci sono gli allievi. È una asimmetria che non tocca.
L’asimmetria di cui parlo è l’asimmetria dell’incontro: incontrano qualcosa che
non comprendono fino in fondo e da cui sono toccati. Incontro con una parola,
uno stile, un libro, un atteggiamento. È una salvezza immotivata, per questo dico
che è dell’ordine della grazia. Avviene per caso e li mette di fronte alla
responsabilità di rispondere a questo incontro. Non sono loro a generare un
incontro ma, in quanto toccati dalla grazia, hanno la responsabilità di farsene
qualcosa oppure no. Questo è un concetto di formazione che altera molto l’idea
standard della formazione dominante nel nostro tempo. La concezione diffusa ha
come paradigma l’immagine della scala: un percorso lineare dal gradino più
basso a quello più alto. Formazione come progressione di tipo teleologico. La
mia idea è più fondata sul trauma, su una discontinuità, su qualcosa che accade
e non era previsto, sul fuoco che si accende. Credo molto in questo, nonostante
i paradigmi siano cambiati. Credo che la formazione avvenga così e, se
confidiamo in questo, dobbiamo sapere che implica il tempo morto, lo
smarrimento, l’improduttività, lo scoramento, la disperazione. Il primo modello
suppone che il nostro funzionamento somigli a quello delle macchine, che nel
tempo diventiamo sempre più raffinati, completi, ordinati; l’altro suppone lo
strappo, il cambiamento di pelle, l’incontro con qualcosa che ci disturba e ci
affascina.
Stefi: credo
che la fatica di questo modello sia la capacità di sopportare lo smarrimento di
cui dici.
Recalcati: questo dipende dal
dispositivo. Se il dispositivo adotta in modo acritico il primo modello la
valutazione sarà: è adeguato al primo gradino? È adeguato al secondo? E
falcidierà chi non risponde a tali livelli. Il secondo criterio cambia tutto:
non è che non implichi la responsabilità, o la fatica, ma cambia la valutazione
perché in primo piano non c’è l’uniformazione ma la singolarizzazione. Avere
fede in questo è un grande salto.
Stefi: rispetto
a questo tema del pasticcio simmetrico ti domando qualcosa che riguarda la
violenza, l’elemento distruttivo. Lo potrei collegare all’occupazione – l’anno
scorso il liceo dove insegno è stato teatro di un’occupazione che ha prodotto
danni ingenti –, ma la cronaca ci fornisce altri esempi e diversi sono gli
episodi cui assistiamo nelle classi. Lo intreccio al tema della simmetria
perché interrogo la nostra risposta: mi pare che la tendenza prevalente sia
restare su un piano simmetrico (essere delusi: “con tutto quello che facciamo
per voi”).
Recalcati: il rischio che vedo è che la violenza sia sempre
più dissociata dal conflitto. Una volta il conflitto canalizzava la violenza e
dunque era uno scontro tra ideologie: la violenza trovava un alfabeto nel
conflitto. Adesso la mia impressione è che ci sia una dimensione più erratica
della violenza perché non è ordinata dalla caratterizzazione politica del
conflitto: è pre-politica, pre-ideologica. La violenza allora può esser
decifrata, e quindi letta, non dai ragazzi, ma dagli adulti. Il compito sarebbe
quello di riportare la violenza sul piano di un conflitto o, se non di un
conflitto, di una domanda, di un’esigenza. È necessaria una lettura, che non
può essere da parte di chi compie violenza, ma da chi la osserva. Nel caso
dell’occupazione: è chiaro che la devastazione di un istituto è un messaggio
indirizzato all’Altro del dispositivo. Davanti a questo si può dire: “siete dei
maleducati” o ci si può impegnare a interpretare il messaggio. Oggi, negli
adolescenti, non c’è la maturità di vedere nella distruzione un messaggio:
questa è una differenza profonda con la mia generazione, dove la violenza era
sempre dentro un binario politico. Oggi la violenza apre il grande capitolo di
chi la interpreta, dunque quale significazione dare: forma disperata di
appello? Inquietudine che non trova parole? Contrapposizione generazionale?
Darne una lettura significa riportarla dentro un alfabeto. La distruzione ora è
selvaggia, fine a sé stessa.
Stefi: torno
sul tema della separazione per un’ultima domanda a partire da un aneddoto.
Leggevo un brano dalla Repubblica di Platone sul tema della
giustizia e, domandando cosa fosse la giustizia, i passaggi, rapidi, sono
stati: la giustizia è il bene, il bene è essere fedeli. Questa fedeltà mi ha
colpito, era già emersa in discussioni, in altre classi, relative al desiderio
di “avere un amore come quello dei nonni”. Certezza di non essere traditi,
amore vero. La dimensione del legame simbiotico, del “migliore amico” e della
“migliore amica”, è sempre appartenuta all’adolescenza, eppure ho sentito nelle
loro parole, forte, la nostalgia verso un tempo in cui i legami erano
possibili: i nonni!
Recalcati: dietro questo – non
vorrei psicoanalizzare troppo – c’è la nostalgia per il legame primario. È un
grande tema dell’adolescente: fare il lutto dei legami primari che sono i
legami di assoluta fedeltà, la fedeltà del sangue. Quello con i nonni, più
ancora di quello con i genitori, consente l’idealizzazione: non vivendoci
insieme si immagina che siano diversi dai genitori e si proietta lì un ideale
familiare. Il tema è: possiamo costruire dei legami affidabili che durano nel
tempo come abbiamo immaginato potessero essere i legami con i nostri genitori?
Pensiamo agli amori che iniziano sui banchi del liceo e arrivano sino al
matrimonio: la psicoanalisi ci dice che quei legami duplicano il legame
primario, legame di cui non è stato fatto il lutto. I rapporti di coppia che
sembrano inscalfibili sono la riproduzione del primo legame. Gli adolescenti
hanno dunque questa domanda: come avere un legame così? E, davanti a loro, le
sabbie mobili: una libertà molto vuota, insicurezza, un tempo che dice loro che
non c’è più niente di vero. La verità non esiste, nemmeno l’amore.
Stefi: in
relazione a questo mi accorgo di una trasformazione: questo “non c’è più niente
di vero” lo sento in modo forte, e così cammino su un filo nel tentativo di
costruire una fiducia senza edificare verità e norme prescrittive. Vorrei
sganciarli dall’idea del tradimento come male assoluto e, al tempo stesso, il
compito di decostruzione e di critica, proprio della filosofia, diventa più
complicato in uno scenario come quello attuale.
Recalcati: lo sfondo è: le verità
assolute non sono accessibili. Questo non è relativismo, è la dimensione laica
della cultura. Tutti noi ci muoviamo in un campo aperto ed esposto al rischio,
all’equivoco, al fraintendimento. In questo campo plurale c’è qualcosa che
tiene? Penso che la vera fedeltà, prima di tutto, sia rispetto alla nostra
vocazione. L’illusione è che ci sia qualcosa di assoluto come l’amore tra i
nonni, che è una rappresentazione idealizzata del legame primario. La vera
fedeltà che dà senso alla nostra esistenza è la fedeltà a quello che facciamo,
a quello che desideriamo. Questo devono riuscire a toccare, di questo bisogna
dare testimonianza. Che poi la fedeltà dell’amore esiga la costanza, è un altro
discorso. Non è un’illusione, c’è qualcosa che dura nel tempo, ma può durare
nel tempo se la fedeltà si istituisce sulla fedeltà al proprio desiderio. Molto
spesso la fedeltà è un tradimento del desiderio: per calcolo, conformismo,
utilità. Non penso solo ai legami d’amore, penso anche ai progetti, alle
professioni. Questo dovrebbero vedere.
Per
tornare a dove siamo partiti: l’idealizzazione dei nonni è della stessa natura
del non separarsi dalla domanda. C’è un fantasma infantile: dipendere dalla
domanda dell’Altro anche quando si contesta. Il desiderio, invece, svita il
nesso tra il soggetto e la domanda al punto tale che posso ritrovarmi a
desiderare quello che tu avresti desiderato che io diventassi, ma con libertà,
per altra via. Questo è un passaggio molto complesso, implica il riconoscimento
della provenienza, della dimensione tortuosa dell’eredità.
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