LA
POLITICA ?
- di Giuseppe
Savagnone*
Una
nuova stagione di “magnifiche sorti e progressive”
Le
ultime elezioni regionali in Lombardia e nel Lazio hanno segnato, per unanime
riconoscimento (anche da parte degli sconfitti), il trionfo dei partiti di
destra al governo, che hanno ottenuto in entrambe la maggioranza assoluta dei
suffragi.
A
esultare sono stati soprattutto i giornali governativi, che hanno contrapposto
questi risultati elettorali al clima del festival di Sanremo: «La Sinistra
vince solo a Sanremo», ha titolato «La verità». «Altro che Sanremo. Canta la
Destra», è stato il titolo di «Libero». E «Il Giornale»: «Effetto Fedez &
C.: Sinistra asfaltata».
L’euforia
dei vincitori è stata ulteriormente accresciuta dalla sentenza che, qualche
giorno dopo, ha assolto con formula piena uno dei tre leader della coalizione
governativa, Silvio Berlusconi, dall’accusa di corruzione mossagli nel processo
Ruby ter. Una pronunzia che conferma la legittimazione del “cavaliere” a
contribuire alla guida del paese.
Considerando
che, dopo queste consultazioni, ormai anche a livello regionale, oltre che a
quello nazionale, la Destra è al potere, l’Italia sembrerebbe davvero avviata,
finalmente – come hanno sottolineato le dichiarazioni ufficiali rilasciate dai
rappresentanti del governo – , ad una durevole stagione politica caratterizzata
dalla stabilità e dalla piena realizzazione delle democrazia.
Una
maggioranza di due italiani su dieci
A
insinuare qualche dubbio su questo quadro rassicurante è il dato, per lo più
lasciato in secondo piano dai quotidiani sopra citati, riguardante
l’astensionismo. Perché l’affluenza alle urne in queste regionali è stato il
più basso di sempre: il 41,67% in Lombardia, il 37,20% nel Lazio. Insomma, in
media, il 40,00%.
Qualcuno
potrebbe chiamare in causa il fatto che si tratta di elezioni regionali. Ma in
queste stesse regioni – particolarmente rappresentative per il loro peso nel
paese – nelle precedenti elezioni regionali del 2018 la partecipazione era
stata del 70,63%. Siamo dunque davanti a un decremento di oltre 30 punti
percentuali, quasi la metà.
In
concreto, questo significa che, quando i vincitori rivendicano la loro
indiscutibile maggioranza, la loro reale rappresentatività, almeno in Lombardia
e nel Lazio riguarda poco più del 20% degli elettori. Due cittadini su dieci.
Qualcosa
di analogo era già avvenuto, in forma meno eclatante ma non meno allarmante,
alle consultazioni nazionali di pochi mesi fa, in cui si era registrata
un’affluenza alle urne pari al 63,9%, anche in questo caso il dato più basso di
sempre, nettamente in calo anche rispetto al 2018, quando ai seggi elettorali
si è recato il 72,93% degli aventi diritto al voto. Un astensionismo, dunque,
del 36,1%, 9 punti in più rispetto al 2018, quando era stato del 27%, e – per
fare un raffronto con la Prima Repubblica – sei volte superiore rispetto al
6,51% delle elezioni del 1976.
Alle
radici etiche della crisi
Questa
è la democrazia, si dirà. Certamente. Nessuno mette in dubbio legittimità
formale del responso delle urne, tanto più che, a fronte di questi risicati
numeri dei partiti di maggioranza, in questo momento non esiste alcuna
alternativa di governo. Ma, se è vero che la vita di una democrazia non si
riduce solo ai rapporti di forza elettorale tra i partiti, ma riguarda la
partecipazione effettiva del popolo, alla luce di questi dati è lecito
interrogarsi sullo stato di salute della politica nel nostro paese.
Da
questo punto di vista, anche la profonda crisi dell’opposizione concorre ad
aggravare il quadro che si è delineato. Se i partiti della maggioranza hanno
relativamente pochi consensi, non è perché i voti vanno ai loro avversari e
neppure perché sono dispersi tra diverse forze politiche, ma perché la gente
non va più neppure a votare. E ci va sempre di meno.
La
responsabilità di un fenomeno del genere non si può certo attribuire al nuovo
governo, che se mai ne è il risultato, non la causa. Stiamo raccogliendo i
frutti di una lunga stagione di crisi che ha avuto le sue remote origini con la
fine della Prima Repubblica e l’avvento della Seconda e che l’anti-politica
dell’ondata populista – inizialmente salutata come una reazione – ha
evidentemente contribuito ad aggravare.
Ci
si può indignare per questo disinteresse nei confronti della politica, ma ci si
deve anche chiedere perché un giovane, oggi dovrebbe avere fiducia in essa.
Dove la fiducia implica, che lo si voglia o no, una dimensione etica di cui
proprio la Seconda Repubblica ha largamente fatto a meno. Basti pensare che la
figura dominante, in essa, è stata un personaggio come Silvio Berlusconi, che
con le sue televisioni e il suo stile vita personale – peraltro esibito come
simbolo di successo – ha costituito una radicale alternativa ai modelli ispirati
all’etica tradizionale, dimostrandone la relatività nel nuovo contesto
culturale e sociale.
Davanti
a questo esempio offerto dalla politica un giovane ha avuto l’alternativa tra
l’ammirazione incondizionata, per una spregiudicatezza che però portava a
mettere in primo piano gli interessi privati più che quello collettivo, e il
disgusto. In entrambi i casi la fiducia nella politica, nel suo significato
profondo di ricerca del bene comune, è da tempo venuta meno.
Peraltro,
che Berlusconi sia potuto rimanere al comando della nave perfino dopo una
condanna penale definitiva per frode fiscale dimostra che non può essere la
magistratura a determinare le sorti politiche del nostro paese. Dovrebbero
essere i cittadini e i loro rappresentanti.
Anche
la sua assoluzione a livello processuale, nel Ruby ter potrà avere le sue
ragioni giuridiche, ma non cambia di una virgola la realtà di una vicenda
vergognosa, i cui termini fattuali sono stati ampiamente accertati e
riconosciuti anche dai sostenitori del cavaliere, che in Parlamento fecero
approvare una mozione in cui non si negava che avesse approfittato del suo
ruolo pubblico per far rilasciare dalla questura di Milano la giovane escort di
origini marocchine Karima El Mahroug, detta Ruby, ma si sosteneva che l’aveva
fatto perché davvero convinto che fosse la nipote del presidente egiziano
Mubarak!
Fermo
restando che il tribunale ha fatto il suo mestiere valutando solo l’aspetto
meramente giuridico della questione, doveva essere la politica – nella misura
in cui pretende ancora una fiducia etica – a prendere una chiara posizione. Non
l’ha fatto, e nessuno se ne scandalizza.
La
sfida dell’educazione alla responsabilità
La
verità è che, dietro la crisi della politica, c’è quella dell’etica. I giornali
della Destra, che hanno polemicamente contrapposto il risultato delle elezioni
regionali allo spirito di Sanremo, non hanno capito che c’è una profonda
continuità tra lo spettacolo ispirato al principio – enunciato dal direttore
artistico e conduttore Amadeus – che «ognuno è libero di vivere la propria vita
come meglio crede», senza doverne rispondere a nessuno, e delle elezioni in cui
sei cittadini su dieci restano a casa senza curarsi di prendere posizione sul
bene comune.
Se
non si riesce a ritrovare, almeno su alcuni punti, un pensare e un sentire
condiviso, non si può neppure pretendere che il popolo italiano prenda sul
serio il compito, affidatogli dal sistema democratico, di avere un ruolo
decisivo nell’interpretare il bene comune della nazione. Oggi il più importante
servizio che si può rendere alla politica è di lavorare alla ricostituzione di
una comunità etica. Al di là della contrapposizione tra Destra e Sinistra, è
questa la vera questione, da cui dipende il futuro dell’Italia.
E qui è necessario, dall’alto, che i rappresentanti della classe politica si sforzino di dare esempi significativi di coerenza. La difesa ad oltranza dei membri della propria fazione, fingendo di non vedere i loro comportamenti palesemente scorretti (come nel recente caso dell’on. Donzelli e del sottosegretario Delmastro) non va certo in questa direzione. Poco importa la rilevanza puramente giudiziaria: non sono i tribunali che devono purificare la politica, ma una più viva coscienza etica.
Si
impone, anche, dal basso, una rinascita dell’interesse e dell’impegno dei
cittadini che li porti nuovamente a confrontarsi e a discutere le questioni non
solo in termini di rivendicazioni di interessi, ma in una prospettiva
propriamente politica e, per ciò stesso, anche etica. L’introduzione
dell’Educazione civica nelle scuole come materia obbligatoria potrebbe essere,
da questo punto di vista, un’occasione. Ma dovrebbe rifiorire il dibattitto
anche nei cosiddetti “corpi intermedi” – associazioni, gruppi – per risvegliare
la coscienza delle persone. Questa è la sfida che viene dai fatti. Saremo in
grado di vederla e raccoglierla?
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