rispondono i dati
La
pandemia, con il suo passaggio improvviso e dalle conseguenze tragiche, ha
lasciato un segno evidente nella scuola in termini di esiti di apprendimento
degli studenti. Questi esiti, come è noto, hanno subito una flessione rispetto
al periodo prepandemico, acuendo fenomeni preoccupanti come la
dispersione nelle sue diverse forme, gravosa non solo in termini
economici ma anche in termini di disagio personale sociale. Sarebbe però
semplicistico rifugiarsi dietro uno sbrigativo – per quanto sicuramente vero –
“era prevedibile”.
Un
contributo importante perché questa presa d’atto di una fragilità presente
nella nostra scuola si trasformi in forza propulsiva, dalla quale ripartire, ci
può venire proprio dai risultati delle rilevazioni nazionali.
I
dati non possono certamente spiegare tutto né tantomeno
offrire soluzioni,
ma
analizzarli e comprenderli è condizione essenziale per contribuire a
individuare le migliori strategie possibili da adottare in un determinato
contesto, in rapporto anche alle altre variabili presenti che concorrono a
determinarlo.
Il
tempo ha dimostrato in modo molto evidente che i dati acquisiti attraverso
prove standardizzate forniscono informazioni utili e necessarie
a più scopi: aiutare la scuola a trovare percorsi di miglioramento all’interno
della propria specifica realtà; capire come intervenire al meglio nel supportare
la scuola a progredire e a rinnovarsi; elaborare idee costruttive,
adeguate al presente e proiettate al futuro per corrispondere alle molteplici
esigenze di una popolazione scolastica estremamente eterogena.
A
queste necessità si vuole andare incontro, in una maniera che negli anni è
diventata sempre più mirata anche grazie al confronto con le realtà
internazionali, attraverso azioni che afferiscono certamente alle competenze di
base degli studenti, ma che non dimenticano il peso dei fattori
socio-relazionali, quali la motivazione o la capacità collaborativa, per citare
solo due tra le numerose variabili legate all’apprendimento e sulle quali la
scuola può incidere anche tramite un utilizzo virtuoso e costruttivo dei dati.
Di
contro, c’è da dire che leggere gli esiti attraverso categorie interpretative
non corrispondenti a quanto i dati stessi rilevano rischia di alterare il reale
portato dell’informazione contenuta nel dato stesso e può anzi rafforzare
erronee convinzioni, perpetuando visioni dell’istruzione che prescindono dagli
effettivi bisogni degli studenti e del sistema scolastico.
Il
dato ha senso se lo usiamo per mettere in atto processi di miglioramento e
questa consapevolezza negli anni ha fatto passi da gigante nella cultura della
valutazione e in tutte le componenti del sistema scuola, interne ed esterne.
Questo
non vale solo per il sistema di istruzione ma anche per la politica, le
amministrazioni, la ricerca, che considerano ormai i dati un patrimonio
informativo da cui partire per costruire percorsi sempre più rispondenti alle
realtà cui fanno riferimento.
Un cambiamento
culturale non è in genere – e possiamo dire comprensibilmente – né
breve né privo di ansie e perplessità, che devono però spingerci a domandarci:
quale modello di scuola vogliamo perseguire?
Se
la nostra domanda è autentica allora le risposte ci sono,
perché la ricerca negli anni ha fatto e detto tanto, mostrando a chiare lettere
attraverso i dati – provenienti da studi e indagini nazionali e internazionali
– che lavorare bene con giovani che vivono una fase fondamentale del loro
percorso formativo, sul piano scolastico e personale, richiede l’adozione di
modelli inclusivi e che questi per essere davvero efficaci devono fondarsi su
informazioni affidabili.
Abbiamo
affrontato in più occasioni questi temi sulle pagine di INVALSIopen,
in modi diversi e con vari accenti, ma forse alla vigilia dell’avvio delle
Prove nazionali 2023 vale la pena rifletterci ancora una volta, anche alla luce
di una consapevolezza crescente su quanto i dati possono offrire al sistema
Paese, al quale la scuola contribuisce formando le nuove generazioni cui è
affidato il domani.
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