IL PARADOSSO DELLA TRISTEZZA
- di Alessandro D'Avenia
Qualche giorno fa una ex studentessa è venuta a trovarmi. Avevo davanti una donna luminosa che, ripercorrendo il sentiero dei ricordi, mi ha raccontato un episodio per lei fondamentale e di cui non avevo memoria. Aveva cambiato scuola dopo un primo anno di superiori molto doloroso: la sua timidezza, che non era stata accolta o capita dagli insegnanti, l’aveva portata a sentirsi un’incapace.
Quando
è approdata da noi per il secondo anno, ho ascoltato la sua storia per poterne
prender parte in modo utile. Ho cercato di spiegarle che la timidezza (dal
latino timere, aver paura) ritenuta un difetto nella cultura della
performance e dell’immagine, è in realtà l’atteggiamento normale di chi,
cominciando a fare i conti con la realtà, si mette a distanza di sicurezza per
non farsi troppo male. Le promisi che, lavorando insieme, quella «paura»
sarebbe divenuta «coraggio» (è coraggioso solo chi conosce la paura della vita
e la affronta), come era accaduto anche a me alla sua età. «Non ho dimenticato
le sue parole» mi diceva la donna che, dieci anni prima, si nascondeva in una
quindicenne «intimidita» da adulti che interpretavano il loro ruolo a guisa di
giudici e non di giardinieri: un germoglio è la «incapacità» o la «timidezza»
dell’albero? Non è strapazzandolo che cresce e rinforza, ma curandone le radici
e rispettandone i tempi. Ma c’era dell’altro, ed era per me.
Mi
ha chiesto, memore delle liste di letture personalizzate dei tempi scolastici,
qualche titolo da leggere. Lei in quel momento stava rileggendo uno dei libri
che le avevo consigliato al liceo, stupita di come le sembrasse nuovo (nuovo è
ciò che ha sempre da dare, a ogni incontro, qualcosa di inatteso, altrimenti è
solo recente: Dante è nuovo, l’articolo che state leggendo è recente). Le ho
chiesto allora di mandarmi la pagina che l’aveva colpita di più.
Eccola:
«Pericolose e maligne sono soltanto le tristezze che si portano tra la gente,
per soverchiarle col rumore; come malattie, trattate superficialmente, fanno
solo un passo indietro e dopo una breve pausa erompono tanto più paurosamente;
e sono vita, vita non vissuta, avvilita, perduta, di cui si può morire». C’è
una misteriosa capacità delle parole di raggiungerci attraverso messaggeri
inattesi, la pagina scelta dalla mia ex alunna era proprio per me e continuava
così: «Queste tristezze sono i momenti in cui qualcosa di nuovo è entrato nel
nostro cuore, è penetrato nella sua camera più interna e anche là non è più, è
già nel sangue. Ci si potrebbe persuadere che nulla sia accaduto, ma noi ci
siamo trasformati come si trasforma una casa in cui sia entrato un ospite. Noi
non possiamo dire chi sia entrato, forse non lo sapremo mai, ma molti indizi
suggeriscono che il futuro entra in noi in questa maniera per trasformarsi in
noi, molto prima che accada. Quanto più calmi, pazienti e aperti noi siamo
nella tristezza, tanto più profondo e infallibile entra in noi il nuovo, tanto
meglio noi ce lo conquistiamo, tanto più sarà nostro destino».
Infatti,
proprio in quelle ore ero invischiato in alcune «tristezze»: il tumore
diagnosticato a un’amica e il ricovero di una studentessa. Rilke mi richiamava
a cambiare sguardo, consapevole che la forza che abbiamo di fronte al mondo
consiste nel trasformare il modo in cui lo guardiamo, le sue parole (calmi,
pazienti, aperti) mi restituivano il coraggio della scelta, come se mi dicesse:
«Il problema non è la tristezza, ma che cosa ci fai. Non usarla male, come
alibi per disperare e inaridirti, ma come occasione per trasformarti e così
liberare la principessa dal drago. E quindi: che cosa puoi fare tu?». C’è
sempre una possibilità creativa nascosta nel duro richiamo dell’esperienza
della vita, non è la «fine» ma il «confine»: frontiera su un territorio inesplorato
che ci appartiene più di quanto crediamo. Questo invito lo ricevevo da una ex
alunna.
Scuola
non è l’edificio o un periodo scolastico, ma un modo di essere fianco a fianco,
adulti e giovani, per diventare, insieme, discepoli della vita, che chiede di
crescere in noi sempre nello stesso testardo modo: amando e lasciandosi amare
di più, anche se il richiamo si presenta, come gli dei antichi, «sotto mentite
spoglie», persino quelle di sentimenti difficili da accogliere, come la
tristezza. Una tristezza dovuta alla paura (la mia timidezza) della malattia
fisica e psichica, di fronte alle quali mi smarrisco. «Non essere timido» mi
ricordava la mia studentessa divenuta maestra. Stava a me scegliere che cosa
fare di quelle tristezze, da questo sarebbe dipeso chi diventare. Affrontare il
drago o fuggire? Disperare o cambiare sguardo? Occupandomi delle due malattie
mi sarei occupato di me, solo così avrei trasformato la paura in coraggio, il
confine in relazione, il limite in creazione, la tristezza in futuro. Dovevo
scegliere — non lo imparo mai abbastanza — tra amore e disamore: farmi (più)
vivo o farmi i fatti miei?
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