Educazione alla legalità e educazione politica nella scuola,
nella Lettera ai Giudici
di don Milani
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di Luciano Corradini *
La
"lezione" fatta ai suoi ragazzi e scritta con loro, indirizzandola a
"una professoressa", si dilata e assume un vasto respiro etico e
civile nella Lettera ai Giudici e nella Risposta ai cappellani militari
toscani, raccolte sotto il Titolo L'obbedienza non è più una virtù. Documenti
del processo di don Milani (1965). Si tratta di un testo, in tutto un'ottantina
di pagine, di grande valore etico, religioso, storico, civico, giuridico e
politico, concentrato in un dialogo a distanza, nel corso di un'azione giudiziaria,
con i cappellani militari e con i giudici, scritto, per la sua parte, da un
giovane gravemente ammalato, che argomenta la sua difesa come maestro e come
sacerdote.
Viene
spontaneo accostarlo a Socrate. Oltre che per la drammaticità della situazione e
la lucidità dell'argomentazione, questi sintetici e densi discorsi sono
esemplari per la loro chiarezza metodologica. Basti pensare alla famosa
distinzione fatta nella LG: “La scuola è diversa dal tribunale. Per voi
magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il
passato e l’avvenire e deve averli presenti entrambi. E’ l’arte delicata di
condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso
della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la
volontà di leggi migliori cioè di senso politico (e in questo si differenzia
dalla vostra funzione)". (….) "E allora il maestro deve essere per
quanto può profeta, scrutare i 'segni dei tempi', indovinare negli occhi dei
ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in
confuso”. (pp.36-37)
E’
qui individuato con chiarezza il sottile confine fra l’educazione civica e
l’educazione politica, come in altri passi fra l'educazione etica, l'educazione
storica e quella giuridica; e fra la deontologia professionale e la profezia.
La quale profezia non è vaneggiamento o pretesa di aver tutta la verità in
tasca e di conoscere il futuro. Don Milani ammette che gli insegnanti vedono
“solo in confuso” le cose belle che i ragazzi vedranno domani: e crede che gli
insegnanti queste belle cose debbano “indovinarle negli occhi dei ragazzi”.
Riconosce i suoi limiti, non insulta chi lo ritiene un vile, ma rivendica il
diritto al rispetto e alla libertà d'insegnamento di ciò ritiene la verità,
alla luce dei fatti, del Vangelo e della Costituzione.
Il
leit motiv e l’incipit di queste certezze si trovano espresse in frasi come
queste: "Cercasi un fine. Bisogna che sia onesto. Grande. Che non
presupponga nel ragazzo null’altro che d’essere uomo. Cioè che vada bene per
credenti e atei. Io lo conosco. Il priore me l’ha imposto fin da quando avevo
11 anni e ne ringrazio Dio. Ho risparmiato tanto tempo. Ho saputo minuto per
minuto perché studiavo” (p.94). “Per esempio, ho imparato che il problema degli
altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è
l’avarizia”. (LP,p.14)
Pensiamo
alla crisi di motivazione dei giovani d’oggi e al coraggio di scrivere che un
prete “impone” un fine elevato ad un ragazzo di 11 anni, e questo poi ringrazia
Dio per questa imposizione, che gli ha aperto la mente. Woody Allen potrebbe
chiedergli: e qual è il fine del prossimo? E che cosa hanno fatto i posteri per
me? La risposta di Barbina è chiara e forte. I care, me ne
importa.
"Ma
questo, conclude don Milani, è solo il fine ultimo, da ricordare ogni tanto.
Quello immediato, da ricordare minuto per minuto, è d'intendere gli altri e di
farsi intendere". Condizione per
cessare il fuoco e far la pace. Più attuale di così…
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