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di Lidia
Maggi
Noi
siamo corpo. Nasciamo dal corpo di nostra madre e, prima ancora, dall’incontro
di due corpi. È attraverso il corpo, con la sapienza dei sensi e i suoi
confini, che impariamo a relazionare con l’altro per raggiungerlo con un
abbraccio, un sorriso, per ascoltarlo, respingerlo o accoglierlo. La vita
biologica, come quella relazionale, nasce dall’incontro di corpi. Questo
paradigma, tuttavia, è messo in discussione dai mutamenti epocali legati alla
percezione del corpo quale assoluto protagonista della nostra cultura.
Sottratto alle maglie della morale, dove era schiavo, attraverso un processo di
emancipazione, si è liberato fino a trasformarsi in tiranno. La sana
riconquista di una consapevolezza del corpo è stata a tal punto enfatizzata da
trasformare il corpo nel Signore delle nostre vite: un idolo da gratificare e
adorare, con tanto di liturgie predisposte allo scopo. E come per ogni divinità
che si rispetti, il corpo dovrà apparire come “l’essere perfettissimo”; ed
avere i suoi santuari e i suoi riti religiosi, tutti all’insegna del benessere
e della comodità, i cui ingredienti sono diete, moda, palestre, chirurgia
estetica e selfie in quantità. Nasce il mito del corpo immortale, eternamente
giovane. Il recupero della corporeità – la cui verità è affermata dal Dio di
Gesù Cristo percepito come attestato dalla Scrittura – mostra un esito
degenerato; è stato geneticamente modificato nella società del mercato e dello
spettacolo.
Di
fronte a questo disorientamento, andiamo al corpo della fede, il corpo delle
Scritture, un corpo con tante membra: diverse parti e tutte necessarie per una
lettura unitaria. Anche qui troviamo un corpo ferito, dilaniato, sottoposto a
facili dualismi: antico testamento contro nuovo, il Dio di Gesù contro quello
di Mosè. Le Scritture ci raccontano che siamo stati creati da Dio come corpi. È
attraverso il corpo che si esprime quella differenza che, nella relazione, ci
permette di rispecchiarci nel divino («facciamo la creatura umana a nostra
immagine... maschio e femmina li creò»). E i corpi non sono un peso, un carcere
per l’anima. Differenziati per genere, essi sono «molto buoni». Necessari per
strappare l’umano alla solitudine autoreferenziale e aprirlo al rapporto con un
tu, al confronto e al dialogo, immagine del divino in noi.
[…]
Recuperare una visione biblica del corpo significa anche ritornare a riflettere
sul legame “biologico” con nostra madre terra da cui siamo stati tratti. E
confessare che l’umanità tutta ha violato il precetto: non ha onorato la madre
da cui è stata tratta. Non ha riconosciuto il legame – «osso delle mie ossa,
carne della mia carne» – con la terra che lo ha partorito. L’umano, poi, ha
pensato che, per essere specchio del divino, a immagine e somiglianza di Dio,
dovesse rinnegare il proprio corpo per dare ascolto solo allo spirito,
percepito come sede del divino in lui. Le Chiese, con le loro predicazioni dal
tenore dualistico, sono responsabili di un tale fraintendimento. Di fronte
all’urlo agonizzante della terra cogliamo le implicazioni di tali eresie.
Denigrare il corpo per esaltare tutto ciò che è spirituale, non ha solo causato
scissioni nella persona, sensi di colpa sulla sessualità (da cui ancora,
nonostante le diverse convinzioni, ognuno di noi fatica a liberarsi),
svalutazione del corpo a vantaggio dell’anima. L’insegnamento delle Chiese non
si è limitato a denigrare le donne, creature troppo corporee, facilmente
sedotte e troppo seducenti, esseri emotivi, poco spirituali, giungendo così a
stabilire a loro riguardo l’interdetto nell’amministrare il sacro. La
subordinazione delle realtà materiali a quelle spirituali, del corpo all’anima,
è anche una delle cause che ha portato all’attuale crisi ecologica. Attraverso
una visione troppo antropocentrica della salvezza si è negato il legame
indissolubile con nostra madre terra, che ancora geme in attesa che si
manifesti un annuncio inclusivo di salvezza (cfr. Rm 8). […] Parlare di corpi,
corpi rimessi al centro dell’annuncio evangelico, significa dunque parlare di
un altro sguardo sull’umano e sul mondo. Uno sguardo da ritrovare continuamente
in un equilibrio sempre precario, da rinegoziare.
[…]
Il corpo è fragile: ha un suo confine, abita uno spazio, è portatore di una sua
alterità da rispettare; ed insieme permette un’intimità che, a tratti, sembra
annullare tale confine, per ristabilirlo subito dopo. Contatto e distanza,
alterità e vicinanza: la relazione è il respiro del corpo, ossigeno vitale
dell’umanità. I corpi in relazione celebrano la propria liturgia nella
sessualità, col suo santuario di carne ed i suoi riti di gesti corporei. La
sessualità, spesso pensata come conseguenza del peccato, in realtà abita nel
giardino fin dai primordi. È creatura benedetta da Dio, giudicata come cosa
bella e buona, necessaria per strappare il terrestre alla sua solitudine. Il
male, che solitamente facciamo iniziare con la comparsa del serpente, entra in
scena ancora prima, attraverso le parole di un Dio che valuta negativamente la
solitudine umana: «Non è bene [e dunque è male] che il terrestre sia solo» (Gen
2,18). La sessualità è il dono che supera questo male, questo difetto del
“prototipo umano”. Senza la sessualità non c’è relazione, reciprocità, non c’è
esperienza del bene. Questo non significa tacciare di disumanità chi fa scelte
celibatarie o chi, per condizioni sociali, si trova nell’impossibilità di
vivere una relazione affettiva. Bisogna, tuttavia, prendere definitivo congedo
dal pensare che l’esperienza affettiva possa sottrarre qualcosa a Dio, in
quanto ostacolo alla piena relazione con Lui. Poiché, nei racconti di
creazione, è proprio la sessualità il simbolo che dice la relazione, che
richiama l’umano alla necessità di non bastare a sé stesso. […] La sessualità è
riconoscimento del bisogno dell’altro che rende generativi. Riconoscimento
corporeo, che non indulge alle astrazioni. La storia, che nel nostro
immaginario è un concetto teorico, nella Bibbia è esperienza di corpi sessuati.
Nella lingua ebraica non esiste un vocabolo al singolare per definire la
storia; troviamo solo un vocabolo plurale: toledot, tradotto con “storia” ma
che significa, più esattamente, “storie partorite”. Il futuro passa attraverso
i corpi sessuati e il ventre gravido delle donne.
[…]
Che cosa si perde quando si subordina il corpo all’anima, lo spirituale al
materiale? Si perde, prima di tutto, la fede biblica. Si costruisce una
narrazione lontana dall’orizzonte delle Scritture ebraico-cristiane. La
creatura umana nell’antropologia biblica può vivere solo nella piena unità tra
corpo e anima. Si pensi solo ai termini con cui si allude a quello che
comunemente chiamiamo anima: nella Bibbia sono tutt’altro che astratti,
incorporei; rimandano al corpo, alla gola, alla voce, al respiro, anima è fiato
che esce ed entra dalla gola. Anima è suono di una voce che non può fare a meno
della cassa di risonanza del corpo. […] Quel Dio che, in Gesù, si fa corpo
divenendo umano come noi, ci salva, prima di tutto sanando i corpi. Un Dio
medico tra la gente, che tocca, ascolta, chiama e guarisce. Ridona dignità
prima di tutto attraverso i corpi risanati. Non guarisce tutte le infermità ma,
attraverso le tante guarigioni operate, ristabilisce, simbolicamente, l’unità
della persona. Salvezza e salute hanno, non a caso, la stessa radice. Anche la
salvezza ultima, attesa con a risurrezione, non ha a che vedere con
l’immortalità dell’anima e la distruzione dei corpi, ma con i corpi
risollevati, risorti. Un linguaggio simbolico che ci richiama alla necessità di
recuperare uno sguardo unitario e dunque mistico sull’intera nostra esistenza.
(Testo tratto da un articolo comparso sul numero 3/2019 della rivista Dialoghi)
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