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giovedì 14 ottobre 2021

DIO, UN'IPOTESI?


MA DIO NON È UN'IPOTESI (È AMORE NELLA STORIA)

  Ragionando sulle ragioni di Parisi e su un riacceso dibattito pubblico


-         Di GIUSEPPE LORIZIO *

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La notizia del conferimento del premio Nobel per la fisica all’italiano Giorgio Parisi ci ha riempiti di orgoglio 'nazionale' (speriamo non 'nazionalistico'), anche perché questo grande scienziato ha compiuto la scelta, certamente scomoda, di restare nel nostro Paese, e ha fatto sgorgare fiumi di inchiostro sulle pagine dei giornali. C’è stato anche chi, dando voce alla sensibilità credente, ha inteso esprimere il proprio 'sconforto', avendo incrociato un’espressione pronunciata dal fisico in una intervista al quotidiano 'La Repubblica' del 31 dicembre 2010, rilasciata in occasione dell’assegnazione della medaglia Planck per la matematica, tanto più che il personaggio non appare affatto come un 'uomo a una sola dimensione', bensì si sottolinea che ama la storia e la musica, la letteratura e la fantascienza e, nei giorni scorsi, si è anche evidenziata la sua passione per la danza. In quella intervista alla domanda, rivoltagli dal giornalista Antonio Gnoli: «Lei crede in Dio?», il fisico rispose seccamente «Dio per me non è neanche un’ipotesi». Da qui lo 'sconforto'. Come può, infatti, una persona colta, inserita profondamente nella cultura occidentale, pensare così bruscamente di poter eludere la questione di Dio?

Ma si è trattato di uno sconforto fecondo, innanzitutto perché ha offerto occasione al neo-Nobel di chiarire il suo pensiero, in una lettera al direttore Tarquinio, dalla quale apprendiamo che l’elusione del ricorso a Dio concerne l’ambito della fisica e, diremmo in generale, delle scienze empiriche, che se adottassero tale ricorso dovrebbero coerentemente bloccarsi nella loro ricerca. Si tratta del versante epistemico della laicità, che pure trova le sue radici nel Vangelo del «Restituite a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Mc 12, 17),

che tradotto significa 'date alla scienza (fisica in questo caso) ciò che le appartiene e alla fede ciò che le è proprio'. La questione di Dio non appartiene alla fisica, ma alla metafisica, con tutto quanto ciò può ancora significare e nonostante il discredito, di cui gode (si fa per dire) anche fra i teologi. Sicché quando cerchiamo di individuare tracce dell’Infinito nel cosmo, pur interpellando le scienze, non pensiamo da fisici o da scienziati tout court, ma applichiamo la filosofia (metafisica appunto) alle altre forme dell’umana conoscenza.

Lo 'sconforto' risulta altresì fecondo in quanto, come si nota nelle lettere al direttore di 'Avvenire', ha avviato un dibattito-confronto sulla questione decisiva della nostra esistenza: Dio. Infatti, se non parliamo di Lui, di cosa parliamo? «Bla, bla, bla…», direbbe Greta Thunberg. E la speranza è che il dibattito diventi dialogo fra credenti, non credenti o diversamente credenti, ma comunque esistenze pensanti. Ponendoci al livello della fisica, anche teorica, infatti, all’epoca del determinismo, oltre la posizione tranchant del marchese di Laplace, cui si ispira la frase attribuita a Parisi, c’è stata fior di filosofia credente che ha fatto ricorso al principio di causalità efficiente, in senso appunto deterministico, per formulare prove dell’esistenza di Dio, così come, al tempo dell’«indeterminazione» ( Werner Karl Heisenberg), dei teoremi dell’«incompiutezza » (Kurt Gödel) e del «disordine» (Parisi in fisica e Marcello Buiatti in biologia) nei flussi dei sistemi complessi, si è cercato e si cerca da parte di qualche teologo o filosofo credente di rilevarne l’affinità con il mistero cristiano, individuando in queste acquisizioni della meccanica quantistica elementi per la riflessione su Dio. L’orizzonte della laicità impone estrema cautela nell’adozione di inferenze, che preludano a posizioni fondamentaliste. Il che non ci impedisce di stupirci di fronte alle acquisizioni delle scienze e di riflettere sulle 'tracce' considerandole per quelle che appunto sono e non sbandierandole come 'prove'. In realtà, sono sempre ancora benevolmente perplesso di fronte al pudore di Gödel rispetto alla sua «prova matematica dell’esistenza di Dio», testo che non ha voluto pubblicare, pur ritenendolo soddisfacente (lo abbiamo in italiano edito da Bollati Boringhieri, Torino 2006). In ogni caso, e per usare il linguaggio comune alle discipline scientifiche, Dio non è né un’ipotesi, e neppure una teoria. Nel momento in cui ha fatto irruzione nella storia, il Dio della rivelazione biblica si presenta come una realtà. E la sua res è quella dell’Amore incondizionato, che chiede di essere corrisposto e accolto («con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza» Mc 12,30), oppure rifiutato col gesto della restituzione del biglietto d’ingresso, che il genio di Fëdor Michajlovi? Dostoevskij attribuisce a Ivan Karamazov. Insomma « Il faut parier! » (bisogna scommettere) parola di Blaise Pascal (scienziato anche lui, oltre che filosofo). E questo perché si tratta dell’amore, nel quale non è coinvolta solo la conoscenza e la ragione, ma anche l’affettività e la libertà dell’uomo.

Certo il nostro lavoro teologico è quello di mostrare la ragionevolezza della scommessa ed esplicitare le ragioni del credere, ma nella consapevolezza che tale dimensione non esaurisce tutto lo spettro dell’adesione. La stessa scelta di 'ignorare' l’a(A)more traccia un confine e sarebbe interessante scorgerne le motivazioni, anche se un indizio l’ho rinvenuto proprio nell’intervista di Parisi sopra citata: «In un lontano incontro, Cabibbo [Nicola, il maestro credente del Nostro] disse che la fede è comunque un bel vantaggio. Non dubito, se uno crede. Ma uno non è che può credere per vivere meglio». Infatti, il rischio per chi crede e di essere posto dinanzi alla necessità di scomodare le proprie certezze per accogliere l’Amore crocifisso.

 

·        * professore ordinario di Teologia fondamentale nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense

 

www.avvenire.it

 

 

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