Da Voltaire a Croce, da secoli gli intellettuali si interrogano sui
fini dello studio del passato, comunque centrale per l’esperienza umana.
Toglierlo ai ragazzi, o ridurlo come qualcuno propone di fare a scuola,
significa attenuare le loro facoltà naturali come la curiosità, la voglia di
giudicare, di intervenire, di fare essi stessi la storia
di CARLO CARDIA
Un vasto dibattito s’è sviluppato di recente sulla
questione della storia, come materia da apprendere e studiare a scuola, come
parte essenziale di una cultura che deve lievitare in ogni luogo del sapere. Su
un punto si è raggiunto un certo consenso, sul fatto che la storia non può
essere dimidiata nella sua identità, né diluita per la presunta trasversalità
in altre discipline, come pulviscolo utile ai rami della conoscenza. La
trasversalità è certa, ma senza i fondamenti di una branca autonoma del sapere,
essa perde consistenza, fornisce pezzetti di conoscenza privi di logica e
organicità, azzera la ricerca di quel “senso del fluire delle generazioni”, che
è base dell’evoluzione umana. I grandi dibattiti, di cui sono piene le
biblioteche del mondo, riguardano gli interrogativi che tornano in ogni epoca.
Cosa è la storia, in che misura è veritiera, o utile agli uomini, se insegna a
migliorare. Le discussioni si nutrono delle rispettive culture di riferimento,
razionaliste, storiciste, altre di tipo teleologico. La svolta illuminista, che
ha Voltaire come grande alfiere, ritiene che la storia migliori gli esseri
umani solo se privata d’ogni idealità, o idea di provvidenza, guardata con
crudo raziocinio; e relega la storia antica in un orizzonte favolistico, perché
non saremo mai in grado di conoscerla davvero. In realtà, anche Voltaire
coltiva uno spunto finalistico quando afferma che essa riflette «i costumi e lo
spirito delle nazioni», ma il razionalismo estremo non gli fa cogliere la
complessità e la bellezza dell’azione dell’uomo che costruisce il presente e il
futuro, fino a sostenere che alcune verità sono utili, altre inutili, e lo
porta a tagliare, ignorare ciò che non serve al presente. Tra scetticismo e
razionalismo, l’unica filosofia della storia consisterebbe nella critica della
tradizione, si basa sulla Ragione e la Verità, ma così essa diviene spettacolo
truce e rutilante, colmo di incoerenza e irrazionalità.
Per le culture teleologiche, che includono quelle
di ispirazione religiosa, la storia non è un insieme di meri fatti e date, ma
un concatenarsi di processi guidati da una freccia del divenire, ha più
finalità. Benedetto Croce pensa che essa ci renda migliori, con una sua
capacità maieutica, perché è l’inverarsi di uno spirito che supera i singoli
eventi, li permea e avvolge, nell’ambito di una evoluzione che non procede a
caso. La ricerca di un senso della storia è base d’ogni storicismo, quello
idealistico che ci chiude in un determinismo che priva l’uomo di tanti spazi di
libertà. O quello di Henri Bergson che vede nelle due fonti dell’etica e della
religione le forze creatrici della storia, perché a ogni svolta etica
corrisponde una grande innovazione nel mondo del diritto e nelle leggi. Si apre
lo spazio alla libertà dell’uomo, avvertito sin dalla classicità e da chi
attinge alla religione e alla sua evoluzione, per individuare traguardi e
sconfitte, a seconda dei valori cui ci si ispira. Questo dibattito mostra la
centralità della storia per l’esperienza umana, e chiedersi se essa abbia un
senso è una domanda che per Dante non può nemmeno porsi, perché «nelle cose
evidenti, è fastidioso dover addurre delle prove». Accettando invece la
domanda, si stende lo sguardo su questioni che affascinano gli uomini d’ogni
tempo: e una riflessione speciale può concernere un aspetto speciale della
storia, quello del suo rapporto con i giovani, la sua utilità e centralità, per
la loro maturazione.
Per i ragazzi, la conoscenza della storia è il
primo cibo necessario per “situarsi” nel mondo e nella realtà, il resto è
crescita, cultura, desiderio di sapere. Togliere, o ridurre, il primo
nutrimento ai giovani significa attenuarne facoltà naturali come la curiosità,
la voglia di giudicare, intervenire, fare essi stessi la storia. Vorrebbe dire,
per Salvatore Settis, colpire il carattere costitutivo che essa ha per la
formazione della persona e il suo rapporto con la realtà. Per Liliana Segre non
si deve «rubare il passato ai ragazzi», perché così facendo, si finisce col
togliere loro la capacità critica che si viene formando nell’età giovanile,
mentre storia e analisi critica sono elementi indissociabili, esprimono la
libertà con la quale l’essere umano guarda a sé stesso, alle vicende che
l’hanno preceduto, costruito, lo preparano a vivere il futuro. Solo così,
potranno porsi antichi interrogativi, e fornire insieme risposte nuove. Sono
celebri gli opposti pareri su alcuni caratteri della storia, quello di
Tucidide, per il quale «la storia si ripete», e l’altro di Vilfredo Pareto per
cui «la storia non si ripete mai», e ancora di G. Macaulay Trevelyan per il
quale le due affermazioni sono egualmente vere. Pezzetti di verità e d’ironia
si ritrovano nell’opinione di Enoch Powell, per il quale «la storia è cosparsa
di guerre che tutti sapevano che non sarebbero accadute», o di Alexis de
Toqueville secondo cui «la storia è una galleria di quadri dove ci sono pochi
originali e molte copie »; all’opposto, per Elias Canetti occorre «imparare dalla
storia che da essa non c’è niente da imparare». In realtà i giovani comprendono
presto, con l’ardimento loro proprio, che dalla storia si può imparare se ci si
impegna a studiarla, anche perché a chi si rifiuta di imparare non servono né
la storia, né la filosofia, o altre branche del sapere. Gaetano Salvemini è
attirato dal lato oscuro degli eventi umani, perché solo l’immaginazione può
riempire le lacune del puzzle della storia, mentre per Thomas Carlyle «le
epoche felici dell’umanità sono le pagine vuote della storia», e in essa
«contano anche i fatti non avvenuti». Per i ragazzi questi paradossi aiutano a
pensare, introducono una dialettica che non ha mai fine. Infine, c’è il
capitolo dell’attualità della storia, che può iniziare con il pensiero di Paul
Johnson, secondo cui «lo studio della storia è un potente antidoto
all’arroganza contemporanea ».
Nella modernità le lacune tendono a diminuire anche
perché la storia si svolge sotto i nostri occhi, ed è quasi impossibile
oscurare, insieme al bene, il male che si compie, soprattutto il male assoluto,
che conosciamo e che sconvolge e ferisce i giovani più degli altri. L’arroganza
resiste anche di fronte al male, l’arroganza di chi non vuole vedere, sapere,
di chi addirittura (c’è anche questo) rivendica il male compiuto e vuole
ripeterlo, scimmiottarlo, nasconderlo con tanti negazionismi. Resta soprattutto
l’arroganza di chi vuole privare i giovani della capacità critica necessaria a
chi voglia conoscere quella storia che parla dei valori, arricchisce la persona,
la fa crescere. Basta pensare ai simboli che evocano e riassumono fatti ed
epoche storiche, ma se la storia si cancella, anche il simbolo si svuota, non
parla più. Poi alla storia che abitua a ragionare, cercare nessi di casualità,
e attira i giovani per una più profonda comprensione dell’uomo e della sua
creatività. Se però si emargina, si spezzetta e frantuma il nostro ragionare,
si finisce con gli slogan, le frasi fatte, che costituiscono l’odierno flagello
della non cultura, si finisce con il pensiero unico che annulla il pensiero. La
storia è esattamente il contrario, si oppone agli slogan, alla superficialità,
ai tweet, alla fretta.
Per Norberto Bobbio una cultura viva chiede di
«valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare le
testimonianze, non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale
dipenda una scelta perentoria e definitiva». La storia si presenta ai giovani
come la scienza del cambiamento, un orizzonte in perenne movimento, ed è così
vasta da aprire la mente a mille ricerche e a tante prospettive nuove. Essa,
però, chiede la riflessione della coscienza, l’inclusione di tutti, anche dei
perdenti, mentre viene spesso utilizzata come uno scenario dal quale si vuole
cacciar via qualcuno, espellere l’uno o l’altro dei protagonisti. Nel
nascondimento della storia, a seconda dei negazionismi, si possono espellere
gli immigrati, i popoli che si muovono, o che non hanno voce, perché essi
semplicemente non si esistono. Si può abolire lo studio della religione, di una
delle forze motrici dell’evoluzione, della cultura, della spiritualità di un
popolo o interi continenti. O ancora, si può ridurre la naturalità dell’uomo a
una scheggia della sua antropologia, stravolgendo la stagione dei diritti
umani, sostituendoli con i desideri, le pretese, dell’individuo, con tutto ciò
che è effimero. E si può proporre la storia solo di sé stessi, umiliando quella
degli altri, ignorando che ogni qualvolta lo si è fatto, essa s’è di nuovo
macchiata di sangue, di conflitti, egoismo. Infine, è questione dei giorni
nostri, si vuole cancellare l’etica, la compassione, e la compromissione, dalla
storia dell’uomo ignorando le conseguenze che ne derivano, per la dignità
dell’uomo, per l’ingigantirsi degli egoismi, per chiudersi e coltivare i propri
piccoli trofei, ignorare i traguardi più grandi dell’umanità.
Studiare, coltivare la storia, vuol dire invece, per
l’uomo, per i giovani soprattutto, proseguire un cammino che valorizza l’opera
umana, dona significato e valore ai contributi che ciascuna generazione reca in
termini di conoscenza, sapienza, spiritualità. Essa è il più grande teatro che
si possa immaginare, senza che alcun autore scriva alcun testo o inventi
scenari, perché ogni cosa è stata scritta, sofferta, realizzata direttamente
dagli esseri umani.
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