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venerdì 30 maggio 2025

NOI E LA SOFFERENZA


 Visitare una persona malata significa farle spazio. 

Significa porsi in una posizione che sa coniugare impotenza e non-inutilità.

 Impotenza di fronte al suo soffrire, non-inutilità nel restare accanto donando tempo e presenza, ascolto e parola.




- di Luciano Manicardi

 

Chiedendo di offrire segni di speranza agli ammalati e alle persone con disabilità, papa Francesco auspica che «le loro sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che ricevono» (Spes non confundit 11). Il testo echeggia le parole di Agostino: «Io non so come accada che, quando un membro soffre, il suo dolore divenga più leggero se le altre membra soffrono con lui. E l’alleviamento del dolore non deriva da una distribuzione comune dei medesimi mali, ma dalla consolazione che si trova nella carità degli altri» (Epist. 99,2). 

Ora, la malattia è esperienza di stranierità: il malato è come un emigrato in un Paese straniero di cui non conosce lingua, usi e costumi. Per questo opponiamo resistenze a farci vicini a un malato: ci rende a nostra volta stranieri. La debolezza del malato fa emergere la paura di essere «contagiati» dalla sua sofferenza. Sicché la visita a un malato può divenire il penoso teatro in cui vanno in scena imbarazzo e ipocrisia, reticenza e falsità, doppiezza e condiscendenza, banalità e congiura del silenzio: non a caso nell’Antico Testamento, che pure esorta a visitare il malato («Non esitare nel visitare gli ammalati», Sir 7,35), manca la testimonianza in favore della buona riuscita del rapporto dei visitatori con il malato. Il libro di Giobbe è la storia di amici che diventano nemici mentre visitano un malato

Gli amici di Giobbe sbagliano, non solo perché fanno del capezzale del malato il luogo di una catechesi, ma soprattutto perché vanno presumendo di «sapere» ciò di cui il malato ha bisogno meglio del malato stesso e ritenendo di poterlo consolare adeguatamente. Presentandosi come salvatori essi innescano un circolo vizioso in cui colpevolizzano il malato, ne fanno una vittima divenendo i suoi persecutori, e diventano a loro volta i bersagli delle sue accuse. Visitatori e malato entrano in un complesso rapporto in cui rivestono entrambi, di volta in volta, le vesti del persecutore e della vittima, e questo a partire dalla pretesa dei visitatori di essere dei salvatori. Si verifica il triangolo drammatico teorizzato dallo psicologo Stephen Karpman. La visita diviene un inferno. Non bastano le buone intenzioni: chi visita un malato deve entrare nell’ottica di non aver potere sul malato, attenersi al quadro relazionale che egli presenta, convertire la propria posizione di potere in una posizione di servizio. Più che l’intento di fare del bene è importante la consapevolezza del perché si vuol visitare un malato. 

Gesù, poi, si identifica con il malato, non con il visitatore: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,36). Il malato è «sacramento di Cristo», sicché il visitatore deve entrare in quella povertà grazie a cui può avvenire l’incontro durante il quale il malato stesso, nella sua debolezza, condurrà il visitatore alla somiglianza con il Cristo che «da ricco si fece povero» (2Cor 8,9). E il malato chiede essenzialmente di essere ascoltato e accettato, anche se ciò che fa o dice non dovesse incontrare l’approvazione del visitatore. Dice Giobbe: «Per il malato c’è la lealtà degli amici, anche se rinnega l’Onnipotente» (Gb 6,14). Zittire le parole sconvenienti del malato o censurare i suoi moti di rivolta, significa negargli la possibilità di mettere parola (per quanto alterata) su ciò che sta avvenendo nella sua vita. Invece, ascoltare è lasciar essere presente l’altro con ciò che sente ed esprime. Visitare il malato significa fargli spazio, non occupare o negare il suo spazio. Significa porsi in una posizione che sa congiungere impotenza e non-inutilità. Impotenza di fronte al soffrire del malato, non-inutilità nel restare accanto donando tempo e presenza, ascolto e parola, senza giudicare. 

La crisi in cui ci pone il malato diviene radicale di fronte alla persona con disabilità, soprattutto mentale. Quell’umano che abitavamo pacificamente diventa una domanda drammatica: che cos’è l’umano? Che cos’è vivere? Chi sono io? Chi e come potrei diventare? E prima di suscitare domande, l’incontro con la persona con disabilità suscita inquietudine e paura, turbamento e volontà di fuga. L’identità personale di chi è segnato da disabilità è praticamente sequestrata da quella disabilità che è come la sua seconda pelle, quella che si impone all’osservatore. È lo stigma, e noi, di fatto, crediamo che la persona con uno stigma sia meno umana o «non sia proprio umana» (Erving Goffman). Siamo di fronte al problema radicale che la disabilità pone: che cos’è un essere umano? Ed è così che, paradossalmente, la disabilità si rivela un’esperienza specifica capace di «illuminare la complessità dell’umano» (Julia Kristeva). Più precisamente: «Quando diciamo che l’esperienza ci aiuta a capire l’handicap, omettiamo la parte più importante, e cioè che l’handicap ci aiuta a capire noi stessi» (Giuseppe Pontiggia).

 Messaggero di Sant'Antonio

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lunedì 5 febbraio 2024

SER MAIS

VOLONTARIATO. 

L'ARTE DEL PRENDERSI CURA


- di Italo Fiorin


Il (nostro) presidente Mattarella, ieri, a Trento, nominata città capitale europea del volontariato, ha detto: « Il volontariato esprime una visione del mondo. Quella della indivisibilità della condizione umana. Il famoso I care, mi riguarda, fatto proprio da don Milani e da Martin Luther King. Una visione che pone in primo piano la persona, l’integralità della sua vita, il suo pieno diritto a essere parte attiva della comunità».
 
L’Italia vanta una presenza larga, diffusa, di un volontariato silenzioso e concreto, persone di ogni età e condizione sociale che si prendono cura degli altri, dell’ambiente, delle istituzioni. E’ questa la grande risorsa del nostro Paese, senza la quale saremmo più poveri, soprattutto di umanità.

Chi è il ‘volontario’? Chi fa qualcosa di buono per gli altri non perché obbligato, lo fa gratuitamente, trovando la ricompensa in quello che fa. Potremmo dire, paradossalmente, che il volontario si prende cura, prima di tutto, di se stesso, non in termini utilitaristici o narcisistici, non per ambizione, non per calcolo o per tornaconto, non per avere, ma per essere di più (ser mais, diceva P. Freire).

Se il volontariato e’ un atto di libera scelta, e’ però un bene prezioso che va coltivato. E si comincia da subito, con i bambini in famiglia, con gli studenti a scuola. Non esiste una materia scolastica chiamata ‘cultura della cura’, ma questo è l’insegnamento più importante, che non richiede risorse, non è certificato dai voti, ma fa la differenza.

E, come ricorda sempre il Presidente Mattarella: «la “cultura della cura” deve tradursi anche in “cura della Repubblica” e “cura dell’Europa”. La solidarietà genera speranza. E solidarietà e speranza sono strettamente connesse con l’idea di pace, gravemente tradita. Le azioni dei volontari ci parlano di pace. Il mondo si cambia anche partendo dai piccoli passi che riempiono il nostro quotidiano. È una responsabilità che riguarda ciascuno ».


DISCORSO DEL PRESIDE


NTE DELLA REPUBBLICA


 

sabato 20 gennaio 2024

TO SHARE - TO CARE

Comunicare 
non è solo connettere 
ma condividere 
e prendersi cura

Il prefetto del Dicastero per la Comunicazione firma la prefazione al libro della Lev “Comunicare”, che raccoglie i dieci Messaggi di Francesco per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, raccolti dall’Unione Cattolica Stampa Italiana e commentati da giornaliste e giornalisti italiani. Di seguito il testo integrale della prefazione

Il libro “Comunicare” è stato curato da Vincenzo Varagona, presidente dell’Unione cattolica stampa italiana (Ucsi), giornalista Rai per 35 anni che ora collabora con Avvenire e da Salvatore Di Salvo, segretario nazionale dell’Ucsi, redattore del settimanale Cammino e collaboratore del Giornale di Sicilia. Gli autori dei contributi sono: Marco Ansaldo, Alessandro Banfi, Carlo Bartoli, Paolo Borrometi, Aldo Cazzullo, Alessandra Costante, Asmae Dachan, Marco Damilano, Giuseppe Fiorello, Luciano Fontana, Sara Lucaroni, Simone Massi, Maurizio Molinari, Andrea Monda, Salvo Noè, Agnese Pini, Gianni Riotta, Nello Scavo, Andrea Tornielli, Mariagrazia Villa.

 

-         di Paolo Ruffini

Comunicare non è solo connettere.

Praticamente in ognuno dei suoi Messaggi per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, papa Francesco ha ripetuto questo ammonimento, facendone il “filo rosso” del suo magistero. Connettere non basta. Bisogna prendersi cura. To share e to care.

 To share: il mondo della televisione ha ridotto lo share a un numero che misura una massa; a un indice che serve per pesare il valore degli investimenti pubblicitari. Laddove, invece, se c’è una grandezza da misurare è quella della pienezza, della bellezza, di questa condivisione. È una grandezza che sta nella sua unicità.

 To care, mi interessa, mi sta a cuore: il mondo di oggi ha quasi cancellato l’idea che ci si possa interessare a qualcosa di diverso dal proprio interesse.

Al massimo ci interessa il modo in cui il progresso sembra appagare i nostri desideri.

 Siamo così affascinati dal catalogo delle possibilità che la tecnologia della comunicazione digitale squaderna davanti agli occhi di ognuno di noi, che rischiamo di restare alla fine senza parole, senza gesti, senza immagini, senza nulla da comunicare, prigionieri di noi stessi, delle nostre paure, del nostro narcisismo; incarnando il paradosso del massimo della connessione e del minimo della comunicazione; scambiando la forma con il contenuto.

 È in questo quadro che si inseriscono i Messaggi di papa Francesco per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali.

La Chiesa ha sempre considerato la comunicazione coessenziale alla sua missione; e sempre ha accettato la sfida del tempo.

 Potremmo citare le Lettere di san Paolo, san Giacomo, san Pietro e san Giovanni come prima forma di comunicazione insieme ai Vangeli. E gli Atti degli Apostoli come narrazione, una comunicazione frutto della comunione. Potremmo trovare nella Regula pastoralis di papa Gregorio I, del 590, una bellissima riflessione teologico-pastorale sui criteri per discernere – con il cuore – quando parlare e quando tacere: «Il pastore sia accorto nel tacere e tempestivo nel parlare, per non dire ciò ch’è doveroso tacere e non passare sotto silenzio ciò che deve essere svelato».

 E potremmo ritrovare in questa citazione così lontana da noi persino una risonanza rispetto a quanto papa Francesco ha scritto nel suo Messaggio del 2023 riguardo al dovere di non aver paura di proclamare la verità, anche se a volte è scomoda, e allo stesso tempo anche al dovere di guardarsi dal farlo senza carità, senza cuore.

 Comunicare con il cuore

Una cosa soprattutto ci ripete ogni anno Francesco con i suoi Messaggi; ed è esattamente questa: l’importanza di comunicare con il cuore, di «parlare con il cuore», di ascoltare con il cuore, di tacere anche con il cuore.

 Come scrive il Papa nel suo Messaggio del 2017: «Già i nostri antichi padri nella fede parlavano della mente umana come di una macina da mulino che, mossa dall’acqua, non può essere fermata. Chi è incaricato del mulino, però, ha la possibilità di decidere se macinarvi grano o zizzania. La mente dell’uomo è sempre in azione e non può cessare di “macinare” ciò che riceve, ma sta a noi decidere quale materiale fornire (cfr. Cassiano il Romano, Lettera a Leonzio Igumeno)».

 «Tutti siamo chiamati a cercare e a dire la verità e a farlo con carità (…) a custodire la lingua dal male (cfr. Sal 34,14)» (Francesco, Messaggio per la LVII Giornata delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2023).

 Ascoltare è comunque il primo indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione. Non si comunica se non si è prima ascoltato e non si fa buon giornalismo senza la capacità di ascoltare (cfr. Francesco, Messaggio per la LVI Giornata delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2022).

 Quanto alla tecnologia, certamente essa ci permette oggi cose che erano impensabili solo pochi decenni fa. Ma ci sono – sempre ci saranno – cose che la tecnologia non può sostituire. Come la libertà. Come il miracolo dell’incontro fra le persone. Come la sorpresa dell’inatteso. La conversione. Lo scatto dell’ingegno. L’amore gratuito. Qui è la radice di ogni comunicazione. Per questo la connessione da sola non basta.

 Di solito della comunicazione si parla in maniera funzionale. L’insegnamento della Chiesa è quasi all’opposto. Ci possono essere marketing, pubblicità, connessione. Ma senza una relazione vera non c’è vera comunicazione. La stessa ragione della crisi dei media può essere trovata qui.

 Le dinamiche dei media e del mondo digitale – ha scritto papa Francesco nella Laudato si’ – «quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità. I grandi sapienti del passato, in questo contesto, correrebbero il rischio di vedere soffocata la loro sapienza in mezzo al rumore dispersivo dell’informazione».

Le fake news

 Siamo sommersi di informazioni non verificate, senza contesto, senza memoria, senza una lettura consapevole.

Il primato della velocità impedisce spesso il controllo, la verifica, il discernimento. Alimenta la chiacchiera.

In un tempo dove la tecnologia rischia di diventare tecnocrazia dovremmo testimoniare un nuovo umanesimo cristiano, dove la tecnologia è per l’uomo e non contro l’uomo.

Il mondo digitale non è fermo, non è immobile. Sta a noi orientarlo verso il bene.

Non sarà un algoritmo a rivelarci il bene. Tocca semmai a noi orientare l’algoritmo al bene.

 Anche a questo risponde papa Francesco, quando ci invita a usare l’amore (l’unica cosa preclusa alle macchine e agli algoritmi) come regola anche del modo in cui narrarla, la verità. Il problema che stiamo affrontando è: come si fa a essere accattivanti senza diventare cattivi, come si può generare un’informazione che non degeneri, come si può evitare di essere complici di una falsa interpretazione della realtà? Come si può discernere ciò che è vero da ciò che non lo è, la verità dalla post-verità, gli eventi dagli pseduo-eventi, i fatti dai fattoidi?

 Credo che la soluzione stia nel riscoprire l’importanza di essere sulla vita, pienamente presenti, invece che semplicemente in linea.

Più volte papa Francesco ha invitato i comunicatori a evitare gli eccessi degli slogan, che invece di mettere in moto il pensiero lo annullano; e a percorrere la strada lunga della comprensione invece di quella breve che pensa di poter trovare subito o i salvatori della patria, capaci di risolvere da soli tutti i problemi, o i capri espiatori su cui scaricare tutte le responsabilità.

 Più volte ha messo in guardia dal fidarsi di chi dice le cose a metà, perché disinforma con l’alibi di informare, impedisce di dare un giudizio accurato sulla realtà e induce all’errore.

Più volte ha stigmatizzato l’alternanza tra due mali opposti, ugualmente dannosi: l’allarmismo catastrofico e il disimpegno consolatorio, il più grave dei quali è la disinformazione, perché induce all’errore, allo sbaglio; induce a credere solo a una parte della verità.

 Ora l’intelligenza artificiale ci sfida.

Ma l’intelligenza umana ha una risorsa che la macchina non ha: il cuore, il sentimento.

 «La comunicazione è (…) una conquista più umana che tecnologica», ha esordito Francesco nel 2014, con il suo primo Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali. E lo ha fatto scegliendo a sorpresa una parabola diversa da quelle solitamente usate per parlare della comunicazione, quella del buon samaritano, perché ci aiuta – ha detto – a pensare il potere della comunicazione in termini di prossimità: «Anche il mondo dei media non può essere alieno dalla cura per l’umanità ed è chiamato a esprimere tenerezza. La rete digitale può essere un luogo ricco di umanità, una rete non di fili ma di persone umane».

 In questo inizio c’è già tutto. E c’è soprattutto tra le righe il riconoscimento della comunicazione (e del giornalismo) come missione, come afferma il Messaggio del 2015: «In un mondo dove così spesso si maledice, si parla male, si semina zizzania, si inquina con le chiacchiere (…) benedire anziché maledire, visitare anziché respingere, accogliere anziché combattere è l’unico modo per spezzare la spirale del male, per testimoniare che il bene è sempre possibile».

 Sebbene conscio dello straordinario potere della tecnica, e anche della retorica, papa Francesco respinge entrambe le tentazioni: quella tecnocratica e quella propagandistica. «Non è la tecnologia che determina se la comunicazione è autentica o meno, ma il cuore dell’uomo e la sua capacità di usare bene i mezzi a sua disposizione» (Francesco, 8 9 Messaggio per la L Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2016).

 Non è il marketing il modello della buona comunicazione. Ma la testimonianza di chi sa vedere, di chi sa ascoltare, di chi sa farsi prossimo.

Questo è anche il modo migliore di combattere le fake news:

Il miglior antidoto contro le falsità non sono le strategie, ma le persone: persone che, libere dalla bramosia, sono pronte all’ascolto e attraverso la fatica di un dialogo sincero lasciano emergere la verità; persone che, attratte dal bene, si responsabilizzano nell’uso del linguaggio. Se la via d’uscita dal dilagare della disinformazione è la responsabilità, particolarmente coinvolto è chi per ufficio è tenuto ad essere responsabile nell’informare, ovvero il giornalista, custode delle notizie. Egli, nel mondo contemporaneo, non svolge solo un mestiere, ma una vera e propria missione. Ha il compito, nella frenesia delle notizie e nel vortice degli scoop, di ricordare che al centro della notizia non ci sono la velocità nel darla e l’impatto sull’audience, ma le persone. Informare è formare, è avere a che fare con la vita delle persone (Francesco, Messaggio per la LII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2018).

Una rete per condividere

Nel mondo iperconnesso e frammentato, è questa – secondo Francesco – la rete che dovrebbero tessere gli uomini e le donne di buona volontà impegnati nella comunicazione, «una rete fatta non per intrappolare, ma per liberare» (Francesco, Messaggio per la LIII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2019); per condividere storie che reclamano di essere condivise, raccontate, fatte 10 vivere in ogni tempo, con ogni linguaggio, con ogni mezzo (cfr. Francesco, Messaggio per la LIV Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2020).

 Tra le cose meravigliose di cui l’animo umano è capace, prima di ogni invenzione tecnica, c’è questo infatti: la capacità di condividere.

In un momento così buio per la storia della umanità è solo nella condivisione vera che possiamo trovare la strada per ridare l’anima ad ogni meravigliosa invenzione tecnica e al nostro comunicare.

Solo così la comunicazione diventa comunione e apre veri e propri processi di sviluppo del bene, di pace.

 Non si tratta – come ha detto papa Francesco – di promuovere un giornalismo «buonista» che nega l’esistenza di problemi gravi e assume toni sdolcinati. Ma al contrario, un giornalismo senza infingimenti, ostile alle falsità, a slogan ad effetto e a dichiarazioni roboanti; un giornalismo fatto da persone per le persone; un giornalismo che non brucia le notizie, ma si impegna nella ricerca delle cause reali dei conflitti, per favorirne la comprensione dalle radici e il superamento di un giornalismo impegnato a indicare soluzioni alternative alle escalation del clamore e della violenza verbale.

 Per questo, ispirandoci a una preghiera francescana, Francesco – nei Messaggi del 2018 e del 2021 – ha scritto due preghiere per il giornalismo che sfidano anche i non credenti a intraprendere un cammino e che sono la migliore conclusione di queste righe.

 Signore, fa’ di noi strumenti della tua pace.

Facci riconoscere il male che si insinua in una comunicazione che non crea comunione.

Rendici capaci di togliere il veleno dai nostri giudizi.

Aiutaci a parlare degli altri come di fratelli e sorelle.

Tu sei fedele e degno di fiducia; fa’ che le nostre parole siano semi di bene per il mondo:

dove c’è rumore, fa’ che pratichiamo l’ascolto;

dove c’è confusione, fa’ che ispiriamo armonia;

dove c’è ambiguità, fa’ che portiamo chiarezza;

dove c’è esclusione, fa’ che portiamo condivisione;

dove c’è sensazionalismo, fa’ che usiamo sobrietà;

dove c’è superficialità, fa’ che poniamo interrogativi veri;

dove c’è pregiudizio, fa’ che suscitiamo fiducia;

dove c’è aggressività, fa’ che portiamo rispetto;

dove c’è falsità, fa’ che portiamo verità.

(Francesco, Messaggio per la LII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2018)

 

Signore, insegnaci a uscire dai noi stessi,

e a incamminarci alla ricerca della verità.

Insegnaci ad andare e vedere,

insegnaci ad ascoltare,

a non coltivare pregiudizi,

a non trarre conclusioni affrettate.

Insegnaci ad andare là dove nessuno vuole andare,

a prenderci il tempo per capire,

a porre attenzione all’essenziale,

a non farci distrarre dal superfluo,

a distinguere l’apparenza ingannevole dalla verità.

Donaci la grazia di riconoscere le tue dimore nel mondo

e l’onestà di raccontare ciò che abbiamo visto.

(Francesco, Messaggio per la LV Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 23 gennaio 2021)

 Vatican News

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sabato 20 maggio 2023

L’ARTE DI PRENDERSI CURA

IN CAMMINO VERSO LA PENTECOSTE

«Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26).

- di Giovanni Perrone

L’annuale ricorrenza della Pentecoste interroga il nostro essere cristiani ed educatori. I doni dello Spirito hanno, infatti, una valenza umana e spirituale. Lo Spirito ce li offre perché anche noi possiamo farne dono a coloro che incontriamo e ai nostri alunni. Essi costituiscono forti colonne, e allo stesso tempo bussola, per la nostra vita e per il nostro servizio.

Il Paraclito, ricordato sovente nel Vangelo e promesso da Cristo ai suoi discepoli, condivide e sostiene il nostro cammino. Lo stesso termine lo dice: paraclito è colui che accompagna, che difende, che aiuta a seguire il giusto cammino; colui che si prende cura e ci sostiene nel prenderci cura di noi stessi e di coloro che ci vengono affidati.

Gli stessi doni ch’Egli elargisce, come sorgente inesauribile, «la sapienza, l'intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timore di Dio» sono colonne portanti di un progetto di vita umana e cristiana, indicatori coi quali occorre confrontarci per valutare il nostro cammino e la nostra azione educativa e danno valore a ciò che facciamo, insegniamo.

Lo stesso impegno associativo, personale e comunitario, non ne può farne a meno, se vuole essere efficace, visibile credibile. Dunque, dobbiamo prendercene cura, con quotidiano impegno perché i doni che lo Spirito Santo ci elargisce siano accolti e fruttino, fortificando e rendendo feconda la vita di ciascuno e migliore la società ove operiamo.

Oggi, in un mondo in veloce mutamento, di fronte alla sfida dell’intelligenza artificiale e ai mille apprendimenti “fast food”, sovente disorientati dai fuochi artificiali di mille eventi e dall’assordante rombo di parole e discorsi, affascinati e intontiti dall’apparire, ci resta poco tempo per coltivare l’arte del discernimento e del prendersi cura.

Il prendersi cura sovente non è appariscente e non ha risultati immediati, ma un cammino costituito anche da silente, paziente e speranzosa attesa. Nel silenzio, nell’ascolto e nella lungimiranza il discernimento si raffina e produce vera crescita.

Il prendersi cura è intelligente e operosa presenza nel quotidiano. È previsione, competenza e azione. Non interessano medaglie, visibilità ed applausi, ma l’efficacia dei risultati.

I tragici eventi di questi giorni evidenziano la grande carenza e incapacità di prenderci cura del territorio. Al di là degli “eccezionali” eventi metereologici, è stata carente la manutenzione, cioè la quotidiana cura. Gli esperti ce lo dicono, i politici lo proclamano. Ma poi? Simili discorsi li abbiamo sentiti e li sentiremo. Proprio stamani, un anziano contadino mi diceva che nel passato c’era l’abitudine quasi quotidiana di curare la pulizia dei torrenti per “lasciare all’acqua la possibilità di scorrere liberamente anche quando sarebbe piovuto a dirotto”.

Gli stessi tragici eventi delittuosi che ci indignano e che danno luogo a mille dibattiti televisivi evidenziano la carenza educativa del prendersi cura, della quotidiana manutenzione di noi stessi e delle persone che ci vengono affidate.

Lo stesso può avvenire anche nella vita associativa, quando si cade nella tentazione di illudersi perché ogni tanto si celebrano grandi eventi, talora buoni principalmente per riempire i social.

Bisogna passare dalla logica del non m'importa a quella del mi importa, "i care", come diceva don Milani; dall'inedia al responsabile impegno.

Il termometro della vita personale, di quella familiare, di quella scolastica, di quella associativa, di quella religiosa e sociale è, infatti, l’arte di prenderci cura, dell’insieme e di ciascuno, prima che sia troppo tardi.

Il prendersi cura è l’arte del pellegrino che passo dopo passo va verso una meta, guardando nello stesso tempo il vicino e il lontano, e interagendo sapientemente con coloro e con ciò che incontra. È l’arte del mosaicista che sceglie una ad una le varie tessere e le situa in maniera da dare concretezza, bellezza e armonia al suo progetto. È l’arte del contadino che presta quotidiana attenzione non solo al suo campo, ma ad ogni singola pianta.

Il prendersi cura non è una somma di eventi, seppure appariscenti e appaganti; non è l’esercizio autoreferente del potere, ma è il prestare attenzione, apprezzare, aiutare, incoraggiare, valorizzare ogni risorsa, sostenersi vicendevolmente,  rendere un efficace servizio nella quotidianità, “mettendo insieme competenza e creatività” (Papa Francesco).

 Il prendersi cura non è, perciò, un solitario esercizio né un lampo di genio o un ammaliante scoop, né il riempire i social con le proprie immagini; non è una somma di eventi, seppure appariscenti e appaganti, non è il guardarsi allo specchio per compiacersi, ma è un camminare insieme verso una meta comune. È l’arte della condivisione e dell’essere paracliti gli uni gli altri.

Educare, in particolare, vuol dire prenderci cura, con costanza,  amore e con competenza, con fiducia,  specialmente dei più deboli o delle situazioni più precarie.

Siamo sempre chiamati alla speranza, che è il presente del nostro futuro (San Tommaso d’Aquino).

Cristo avrebbe potuto dare lo Spirito ai suoi apostoli in pochi istanti, ma scelse (e sceglie) il pellegrinare per gli impervi sentieri della Palestina, facendosi maestro e compagno. Passo dopo passo, giorno dopo giorno verso la Pentecoste, inizio di un nuovo cammino per i suoi discepoli e per il mondo intero. Ancor oggi Gesù ci dice: “Lo Spirito Santo vi dirà tutto ciò che ha udito e vi annunzierà le cose che verranno” (Gv. 16).

Ogni istituzione è chiamata ad essere un cammino condiviso, di solidarietà, di impegno, di maturazione; in cui ognuno voglia e sappia essere una preziosa risorsa per tutti: non il primo né il migliore, ma il servitore.

Anche noi siamo chiamati a farci generoso e quotidiano dono per tutti.

Non siamo lasciati soli: lo Spirito ci assiste e ci orienta perché ciascuno faccia del proprio meglio, divenendo Epifania dell'amore di Dio, umile e fecondo testimone di impegno attivo nella scuola, nella Chiesa, nell’associazione e nella società.

 


sabato 2 gennaio 2021

LA PACE E' UNA VITA RICCA DI SENSO

 
- Papa Francesco: 


"Iniziamo il nuovo anno ponendoci sotto lo sguardo materno e amorevole di Maria Santissima, che la liturgia oggi celebra come Madre di Dio. Riprendiamo così il cammino lungo i sentieri del tempo, affidando le nostre angosce e i nostri tormenti a Colei che tutto può. Maria ci guarda con tenerezza materna così come guardava il suo Figlio Gesù. E se noi guardiamo il presepe [si volta verso il presepe allestito nella sala], vediamo che Gesù non è nella culla, e mi dicono che la Madonna ha detto: “Me lo fate tenere un po’ in braccio questo figlio mio?”. E così fa la Madonna con noi: vuole tenerci tra le braccia, per custodirci come ha custodito e amato il suo Figlio. Lo sguardo rassicurante e consolante della Vergine Santa è un incoraggiamento a far sì che questo tempo, donatoci dal Signore, sia speso per la nostra crescita umana e spirituale, sia tempo per appianare gli odi e le divisioni – ce ne sono tante – sia tempo per sentirci tutti più fratelli, sia tempo di costruire e non di distruggere, prendendoci cura gli uni degli altri e del creato. Un tempo per far crescere, un tempo di pace.

È proprio alla cura del prossimo e del creato che è dedicato il tema della 

Giornata Mondiale della Pace, 

che oggi celebriamo: La cultura della cura come percorso di pace. 

I dolorosi eventi che hanno segnato il cammino dell’umanità nell’anno trascorso, specialmente la pandemia, ci insegnano quanto sia necessario interessarsi dei problemi degli altri e condividere le loro preoccupazioni. Questo atteggiamento rappresenta la strada che conduce alla pace, perché favorisce la costruzione di una società fondata su rapporti di fratellanza. Ciascuno di noi, uomini e donne di questo tempo, è chiamato a realizzare la pace: ognuno di noi, non siamo indifferenti a questo. Noi siamo tutti chiamati a realizzare la pace e a realizzarla ogni giorno e in ogni ambiente di vita, tendendo la mano al fratello che ha bisogno di una parola di conforto, di un gesto di tenerezza, di un aiuto solidale. E questo per noi è un compito dato da Dio. Il Signore ci dà il compito di essere operatori di pace.

E la pace si può costruire se cominceremo ad essere in pace con noi stessi – in pace dentro, nel cuore – e con chi ci sta vicino, togliendo gli ostacoli che impediscono di prenderci cura di quanti si trovano nel bisogno e nell’indigenza. Si tratta di sviluppare una mentalità e una cultura del “prendersi cura”, al fine di sconfiggere l’indifferenza, di sconfiggere lo scarto e la rivalità – indifferenza, scarto, rivalità –, che purtroppo prevalgono. Togliere questi atteggiamenti. E così la pace non è solo assenza di guerra. La pace mai è asettica, no, non esiste la pace del quirofano [spagnolo: “sala operatoria”]. La pace è nella vita: non è solo assenza di guerra, ma è vita ricca di senso, impostata e vissuta nella realizzazione personale e nella condivisione fraterna con gli altri. Allora quella pace tanto sospirata e sempre messa in pericolo dalla violenza, dall’egoismo e dalla malvagità, quella pace messa in pericolo diventa possibile e realizzabile se io la prendo come compito datomi da Dio.

La Vergine Maria, che ha dato alla luce il «Principe della pace» (Is 9,6) e che lo coccola così, con tanta tenerezza, tra le sue braccia, ci ottenga dal Cielo il bene prezioso della pace, che con le sole forze umane non si riesce a perseguire in pienezza. Le sole forze umane non bastano, perché la pace è anzitutto dono, un dono di Dio; va implorata con incessante preghiera, sostenuta con un dialogo paziente e rispettoso, costruita con una collaborazione aperta alla verità e alla giustizia e sempre attenta alle legittime aspirazioni delle persone e dei popoli. Il mio auspicio è che regni la pace nel cuore degli uomini e nelle famiglie; nei luoghi di lavoro e di svago; nelle comunità e nelle nazioni. Nelle famiglie, nel lavoro, nelle nazioni: pace, pace. È ora che pensiamo che la vita oggi è sistemata dalle guerre, dalle inimicizie, da tante cose che distruggono… Vogliamo pace. E questa è un dono.

Sulla soglia di questo inizio, a tutti rivolgo il mio cordiale augurio di un felice e sereno 2021. Ognuno di noi cerchi di far sì che sia un anno di fraterna solidarietà e di pace per tutti; un anno carico di fiduciosa attesa e di speranze, che affidiamo alla protezione di Maria, madre di Dio e madre nostra.

 

PAPA FRANCESCO - ANGELUS



domenica 11 ottobre 2020

Mattarella: PRENDERSI CURA PER COSTRUIRE LA PACE

 Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato al coordinatore del Comitato promotore Catena Umana da Perugia ad Assisi, Flavio Lotti, il seguente messaggio:


«Dalla Marcia Perugia-Assisi proviene ogni volta un messaggio popolare molto forte, che scaturisce dalla consapevolezza del carattere integrale della pace e della stretta connessione tra i grandi temi globali, a cominciare dalla lotta alla povertà e alle diseguaglianze, dal contrasto al cambiamento climatico, dalla cooperazione necessaria per assicurare ai popoli quel diritto a uno sviluppo sostenibile che è parte del diritto stesso alla vita e al futuro. Per questo è importante che anche quest’anno la Marcia sia stata confermata, nel rispetto delle condizioni di sicurezza imposte dalla pandemia, e che possa dare a tante persone e a tanti giovani la possibilità di esprimere la volontà di un domani migliore e l’impegno a farsi generatori di pace, a partire dalla realtà quotidiana.

La stessa azione di contrasto alla pandemia può diventare una modalità di costruzione della pace. “Time for Peace – Time to Care” è il motto scelto per l’edizione 2020. Il diritto alla cura è un caposaldo della piena cittadinanza, ma la cultura della cura va oltre le capacità del sistema di Welfare di rispondere ai bisogni con qualità ed efficienza: la cultura della cura è una dimensione della fraternità tra gli uomini, è un fattore di coesione sociale e può diventare vettore di un’economia orientata a un più equilibrato e duraturo sviluppo.
Nel mondo non mancano conflitti, oppressioni, violenze provocate da odi etnici e integralismi religiosi, non mancano minacce di riarmo nucleare. Non deve mai venir meno la voce di quanti chiedono la pace, il rispetto dei diritti dell’uomo, il cessate il fuoco ovunque si combatta. Al tempo stesso, è quanto mai prezioso che ci sia coscienza di una pace impegnativa per ciascuno di noi, a partire dalla realtà quotidiana e da una educazione alla pace che deve farsi permanente.
È con questo spirito che saluto i partecipanti alla Marcia, nell’augurio che i costruttori diventino sempre più numerosi nel cantiere della pace».

www.quirinale.it   


 

mercoledì 16 settembre 2020

SAPER CONTEMPLARE PER PRENDERSI CURA DI SE STESSI E DEL MONDO

Papa Francesco: Per uscire da una pandemia, occorre curarsi e curarci a vicenda. E bisogna sostenere chi si prende cura dei più deboli, dei malati e degli anziani. C’è l’abitudine di lasciare da parte gli anziani, di abbandonarli: è brutto, questo. Queste persone – ben definite dal termine spagnolo “cuidadores”, coloro che si prendono cura degli ammalati – svolgono un ruolo essenziale nella società di oggi, anche se spesso non ricevono il riconoscimento e la rimunerazione che meritano. Il prendersi cura è una regola d’oro del nostro essere umani, e porta con sé salute e speranza (cfr Enc. Laudato si’ [LS], 70). Prendersi cura di chi è ammalato, di chi ha bisogno, di chi è lasciato da parte: questa è una ricchezza umana e anche cristiana.

Questa cura, dobbiamo rivolgerla anche alla nostra casa comune: alla terra e ad ogni creatura. Tutte le forme di vita sono interconnesse (cfr ibid., 137-138), e la nostra salute dipende da quella degli ecosistemi che Dio ha creato e di cui ci ha incaricato di prenderci cura (cfr Gen 2,15). Abusarne, invece, è un peccato grave che danneggia, che fa male e che fa ammalare (cfr LS, 866). Il migliore antidoto contro questo uso improprio della nostra casa comune è la contemplazione (cfr ibid., 85214). Ma come mai? Non c’è un vaccino per questo, per la cura della casa comune, per non lasciarla da parte? Qual è l’antidoto contro la malattia di non prendersi cura della casa comune? È la contemplazione. «Quando non si impara a fermarsi ad ammirare e apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli» (ibid., 215). Anche in oggetto di “usa e getta”. Tuttavia, la nostra casa comune, il creato, non è una mera “risorsa”. Le creature hanno un valore in sé stesse e «riflettono, ognuna a suo modo, un raggio dell’infinita sapienza e bontà di Dio» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 339). Questo valore e questo raggio di luce divina va scoperto e, per scoprirlo, abbiamo bisogno di fare silenzio, abbiamo bisogno di ascoltare, abbiamo bisogno di contemplare. Anche la contemplazione guarisce l’anima.

Senza contemplazione, è facile cadere in un antropocentrismo squilibrato e superbo, l’“io” al centro di tutto, che sovradimensiona il nostro ruolo di esseri umani, posizionandoci come dominatori assoluti di tutte le altre creature. Una interpretazione distorta dei testi biblici sulla creazione ha contribuito a questo sguardo sbagliato, che porta a sfruttare la terra fino a soffocarla. Sfruttare il creato: questo è il peccato. Crediamo di essere al centro, pretendendo di occupare il posto di Dio e così roviniamo l’armonia del creato, l’armonia del disegno di Dio. Diventiamo predatori, dimenticando la nostra vocazione di custodi della vita. Certo, possiamo e dobbiamo lavorare la terra per vivere e svilupparci. Ma il lavoro non è sinonimo di sfruttamento, ed è sempre accompagnato dalla cura: arare e proteggere, lavorare e prendersi cura… Questa è la nostra missione (cfr Gen 2,15). Non possiamo pretendere di continuare a crescere a livello materiale, senza prenderci cura della casa comune che ci accoglie. I nostri fratelli più poveri e la nostra madre terra gemono per il danno e l’ingiustizia che abbiamo provocato e reclamano un’altra rotta. Reclamano da noi una conversione, un cambio di strada: prendersi cura anche della terra, del creato.

Dunque, è importante recuperare la dimensione contemplativa, cioè guardare la terra, il creato come un dono, non come una cosa da sfruttare per il profitto. Quando contempliamo, scopriamo negli altri e nella natura qualcosa di molto più grande della loro utilità. Qui è il nocciolo del problema: contemplare è andare oltre l’utilità di una cosa. Contemplare il bello non vuol dire sfruttarlo: contemplare è gratuità. Scopriamo il valore intrinseco delle cose conferito loro da Dio. Come hanno insegnato tanti maestri spirituali, il cielo, la terra, il mare, ogni creatura possiede questa capacità iconica, questa capacità mistica di riportarci al Creatore e alla comunione con il creato. Ad esempio, Sant’Ignazio di Loyola, alla fine dei suoi Esercizi spirituali, invita a compiere la “Contemplazione per giungere all’amore”, cioè a considerare come Dio guarda le sue creature e gioire con loro; a scoprire la presenza di Dio nelle sue creature e, con libertà e grazia, amarle e prendersene cura.

La contemplazione, che ci conduce a un atteggiamento di cura, non è un guardare la natura dall’esterno, come se noi non vi fossimo immersi. Ma noi siamo dentro alla natura, siamo parte della natura. Si fa piuttosto a partire da dentro, riconoscendoci parte del creato, rendendoci protagonisti e non meri spettatori di una realtà amorfa che si tratterebbe solo di sfruttare. Chi contempla in questo modo prova meraviglia non solo per ciò che vede, ma anche perché si sente parte integrante di questa bellezza; e si sente anche chiamato a custodirla, a proteggerla. E c’è una cosa che non dobbiamo dimenticare: chi non sa contemplare la natura e il creato, non sa contemplare le persone nella loro ricchezza. E chi vive per sfruttare la natura, finisce per sfruttare le persone e trattarle come schiavi. Questa è una legge universale: se tu non sai contemplare la natura, sarà molto difficile che saprai contemplare la gente, la bellezza delle persone, il fratello, la sorella.

Chi sa contemplare, più facilmente si metterà all’opera per cambiare ciò che produce degrado e danni alla salute. Si impegnerà a educare e promuovere nuove abitudini di produzione e consumo, a contribuire ad un nuovo modello di crescita economica che garantisca il rispetto per la casa comune e il rispetto per le persone. Il contemplativo in azione tende a diventare custode dell’ambiente: è bello questo! Ognuno di noi dev’essere custode dell’ambiente, della purezza dell’ambiente, cercando di coniugare saperi ancestrali di culture millenarie con le nuove conoscenze tecniche, affinché il nostro stile di vita sia sempre sostenibile.

Infine, contemplare e prendersi cura: ecco due atteggiamenti che mostrano la via per correggere e riequilibrare il nostro rapporto di esseri umani con il creato. Tante volte, il nostro rapporto con il creato sembra essere un rapporto tra nemici: distruggere il creato a mio vantaggio; sfruttare il creato a mio vantaggio. Non dimentichiamo che questo si paga caro; non dimentichiamo quel detto spagnolo: “Dio perdona sempre; noi perdoniamo a volte; la natura non perdona mai”. Oggi leggevo sul giornale di quei due grandi ghiacciai dell’Antartide, vicino al Mare di Amundsen: stanno per cadere. Sarà terribile, perché il livello del mare crescerà e questo porterà tante, tante difficoltà e tanto male. E perché? Per il surriscaldamento, per non curare l’ambiente, per non curare la casa comune. Invece, quando abbiamo questo rapporto – mi permetto la parola – “fraternale” in senso figurato con il creato, diventeremo custodi della casa comune, custodi della vita e custodi della speranza, custodiremo il patrimonio che Dio ci ha affidato affinché ne possano godere le generazioni future. E qualcuno può dire: “Ma, io me la cavo così”. Ma il problema non è come tu te la caverai oggi – questo lo diceva un teologo tedesco, protestante, bravo: Bonhoeffer – il problema non è come te la cavi tu, oggi; il problema è: quale sarà l’eredità, la vita della generazione futura? Pensiamo ai figli, ai nipoti: cosa lasceremo, loro, se noi sfruttiamo il creato? Custodiamo questo cammino così diventeremo “custodi” della casa comune, custodi della vita e della speranza. Custodiamo il patrimonio che Dio ci ha affidato, affinché possano goderne le generazioni future. Penso in modo speciale ai popoli indigeni, verso i quali abbiamo tutti un debito di riconoscenza – anche di penitenza, per riparare il male che abbiamo fatto loro. Ma penso anche a quei movimenti, associazioni, gruppi popolari, che si impegnano per tutelare il proprio territorio con i suoi valori naturali e culturali. Non sempre queste realtà sociali sono apprezzate, a volte sono persino ostacolate, perché non producono soldi; ma in realtà contribuiscono a una rivoluzione pacifica, potremmo chiamarla la “rivoluzione della cura”. Contemplare per curare, contemplare per custodire, custodire noi, il creato, i nostri figli, i nostri nipoti e custodire il futuro. Contemplare per curare e per custodire e per lasciare un’eredità alla futura generazione.

Non bisogna però delegare ad alcuni: quello che è il compito di ogni essere umano. Ognuno di noi può e deve diventare un “custode della casa comune”, capace di lodare Dio per le sue creature, di contemplare le creature e di proteggerle.

 

DISCORSO DI PAPA FRANCESCO