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venerdì 13 dicembre 2024

SERVIRE IL BENE COMUNE

 


Un servitore 

del 

bene comune

 




-         di Giuseppe Savagnone*

-          

Alla fine, Ernesto Maria Ruffini si è dimesso da direttore dell’Agenzia delle Entrate.  Di lui, fino a poco tempo fa quasi del tutto sconosciuto al grande pubblico, si parlava molto da giorni sui quotidiani come dell’“uomo nuovo” di cui, secondo alcuni, l’opposizione avrebbe bisogno per superare la sua attuale frammentazione, che le rende impossibile costituire una concreta alternativa all’attuale governo.

Era anche indicato come l’uomo adatto, per la sua storia personale di credente, a far ritornare i cattolici protagonisti della vita politica, dopo una lunga eclisse.

All’origine di queste voci, sempre più insistenti, c’era sicuramente la stima di cui Ruffini gode, un po’ in tutti gli schieramenti politici, per il suo eccellente lavoro nell’Agenzia e che spiega perché sia stato confermato nel suo delicato ruolo da ben quattro governi, di tutti i colori, compreso quello attuale.

Grazie a lui l’Agenzia delle Entrate ha reso più razionali e funzionali i suoi servizi ai cittadini, anche ricorrendo a un ampio uso della digitalizzazione. E in questo modo ha potuto combattere, molto più efficacemente che in passato, la piaga cronica dell’evasione fiscale, raggiungendo nel 2023 il traguardo record un recupero di oltre 31 miliardi di euro.

Al di là dei risultati concreti, però, è significativa la logica secondo cui Ruffini ha concepito e impostato la sua ardua opera, nel quadro di una visione più ampia, esposta nel suo recente libro «Uguali per Costituzione. Storia di un’utopia incompiuta dal 1948 ad oggi», con una prefazione del presidente Mattarella.

Per Ruffini «le tasse, belle o brutte che siano, sono il mezzo più onesto e trasparente che abbiamo per contribuire al bene comune del nostro paese, di tutti noi». In un’Italia che vede aumentare sempre più il divario tra una minoranza di ricchi sempre più ricchi e una maggioranza di poveri sempre più poveri, le imposte sono il modo per combattere questa perversa polarizzazione e redistribuire le risorse, così da non vanificare l’art. 3 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge».  

In conflitto con il governo

Una logica che non può certo essere condivisa dai partiti di destra oggi al governo, il cui comune modello è quell’acerrimo nemico delle tasse che è stato Silvio Berlusconi, secondo cui esse costituiscono un illegittimo «mettere le mani nelle tasche degli italiani». 

In questa prospettiva si capiscono le reiterate campagne di Matteo Salvini per promuovere forme di “pace fiscale” che in sostanza si riducono a condonare agli evasori la maggior parte di quello che devono alla comunità e che altri (soprattutto i lavoratori con stipendio fisso), al posto loro, sono obbligati a pagare, rendendo così il carico fiscale veramente esorbitante.

Ed è nel più puro spirito berlusconiano che il nostro vice-premier, qualche tempo fa, ha usato parole durissime contro l’ufficio dello Stato di cui egli dovrebbe essere istituzionalmente il primo sostenitore: «Ci sono milioni di italiani ostaggio dell’Agenzia delle Entrate».  

È stata l’unica volta che Ruffini ha sentito la necessità di fare un intervento pubblico: «Il contrasto all’evasione», ha risposto al ministro, «non è volontà di perseguitare qualcuno, l’Agenzia è un’amministrazione dello Stato, non un’entità belligerante.  È un fatto di giustizia nei confronti di tutti coloro che le tasse, anno dopo anno, le pagano, e le hanno pagate, sempre fino all’ultimo centesimo, anche a costo di sacrifici e nonostante l’innegabile elevata pressione fiscale, e di coloro che hanno bisogno del sostegno dello Stato, erogato attraverso i servizi pubblici con le risorse finanziarie recuperate».

E ora l’ormai ex direttore si è riferito a questo episodio per spiegare le sue dimissioni: «Non mi era mai capitato», ha detto in un’intervista al “Corriere della Sera”,  «di vedere pubblici funzionari essere additati come estorsori di un pizzo di Stato. Oppure di sentir dire che l’Agenzia delle Entrate tiene in ostaggio le famiglie, come fosse un sequestratore».

E ha ribadito il suo punto di vista: «Attenzione però: se il fisco in sé è demonizzato, si colpisce il cuore dello Stato (…). Personalmente ho sempre pensato che a danneggiare i cittadini onesti siano gli evasori»

La mancata “discesa in campo

Ruffini ha anche precisato, contestualmente, di non avere nessuna intenzione di “scendere in campo”. Un’ipotesi gravata da troppe incognite, in realtà, per essere realistica. Qualcuno lo voleva federatore dei partiti di centro – ma né Renzi né Calenda erano disposti a farsi da parte; qualcun altro evocava addirittura l’esempio di Prodi, che aveva  unito i partiti di centro-sinistra, per applicarlo all’attuale situazione del “campo largo”. 

Ma c’era chi si chiedeva se esistano, oggi, le condizioni che allora consentirono questa esperienza e metteva in guardia dal rischio di voler riprodurre uno schema ormai inattuale.

Ora la decisa presa di posizione di Ruffini – peraltro già anticipata nel suo intervento in un convegno di qualche giorno fa – elimina questi dubbi e dissipa questi equivoci spiegando le motivazioni che la ispirano: «Fatico a pensare che per cambiare le cose bastino i singoli. Per natura tendo più a credere nella forza delle persone che collaborano per un progetto comune. Affidarsi a sedicenti salvatori della Patria non è un buon affare.

Dovremmo smetterla di considerare la politica come una partita a scacchi o un gioco di potere, perché dovrebbe essere un percorso fatto di discussioni, grandi ideali, progetti, coinvolgimento. Non un talent show culinario per selezionare uno chef in grado di mescolare un po’ di ingredienti, nella speranza che il piatto finale sia buono. Altrimenti si alimenta il distacco dei cittadini dalla politica. E si costruisce un futuro peggiore».

Parole che suonano incredibili – e probabilmente resteranno incomprensibili – in uno scenario politico che vede dominare logiche del tutto diverse, sia nel governo che nell’opposizione.

Il risveglio di cui il mondo cattolico ha bisogno

Eppure, paradossalmente, proprio con questa rinunzia a fare la politica nel modo che gli veniva chiesto, Ruffini ha in realtà indicato la via per farla in un altro modo, completamente diverso. E, forse contro le sue intenzioni, questo lo rende il migliore candidato ad animare e promuovere il ritorno dei cattolici alla politica.

Perché essi non sono certo assenti nella nostra società per mancanza di forze, come dimostra  la loro incidenza nella sfera propriamente sociale, che li vede protagonisti del terzo settore. Se sono diventati irrilevanti in quella politica, dove, dopo essere stati per quarant’anni al governo del paese con la Dc, è perché non hanno avuto la capacità di elaborare quel «progetto comune» di cui ha parlato Ruffini e sono stati risucchiati da due poli – di destra e di sinistra – che non rispecchiano in alcun modo l’insegnamento sociale cristiano a cui essi si ispirano.

Così si sono trovati all’interno di un PD che, malgrado fosse nato con l’ambizione di unire cattolici e socialisti, sembra ormai essersi concentrato sulle battaglie per una libertà che ricorda molto quella dell’individualismo possessivo radical-liberale (altro che sinistra!), lasciando in secondo piano i diritti (e i doveri) sociali.

Oppure hanno finito per sostenere una destra che, ad ogni pie’ sospinto, si dichiara «cristiana» e che combatte, è vero, contro  il «diritto di aborto» e la maternità surrogata, ma che non conosce la dimensione della solidarietà, né all’interno dello Stato (vedi legge sull’autonomia differenziata, fortemente criticata dai vescovi italiani), né verso i poveri del mondo (vedi politica di «difesa dei confini»  contro i migranti, agli antipodi dei reiterati appelli di papa Francesco alla solidarietà). 

Per non parlare della sostanziale solidarietà del nostro governo con quello israeliano, davanti alle stragi di inermi civili palestinesi (anche in questo caso in chiaro contrasto con la posizione del papa).

Questo vale anche per l’ala più moderata, della destra, Forza Italia, il cui segretario, Tajani, recentemente ha detto di considerarsi erede di Alcide De Gasperi. Una dichiarazione che non può non fare rabbrividire chi ricorda la figura del grande politico cristiano (di cui oggi è in corso il processo di beatificazione), nel vederla accaparrata da un partito che  si ispira a un personaggio come Silvio Berlusconi – agli antipodi di De Gasperi, nel pensiero e nell’esempio, – di cui ancora nelle ultime elezioni europee ha messo il nome sui suoi manifesti.

È in questo vuoto che si è manifestata, nella Settimana sociale di Trieste del luglio scorso, l’esigenza di riscoprire, al di là delle divisioni, una identità cattolica trasversale ai partiti. 

Non per formare un terzo polo, ma per rimettere all’ordine del giorno della politica idee della dottrina sociale cristiana come “bene comune” e “solidarietà”, scomparse dal vocabolario sia della destra che della sinistra.

Su questa base potranno in futuro nascere degli sviluppi che coinvolgano anche i partiti. Ma questo richiede un pensiero, un progetto. Sono le idee che prima di tutto sono mancate in questi anni al mondo cattolico, ed è in questa direzione che lo stesso Ruffini ha mostrato di voler lavorare.

Non si tratta, ovviamente, di creare un “pensatoio” di intellettuali. Nella sua intervista il direttore dimissionario ha definito la politica «un’avventura collettiva fondata su rispetto, dialogo e soprattutto partecipazione» .

È a questo che bisogna rieducare una base cattolica che attualmente troppo spesso si limita a frequentare le parrocchie per “consumare” – individualisticamente – sacramenti e appena fuori dalle mura del tempio, ignora l’appello dei papi a considerare la politica «la forma più alta di carità». . 

È urgente, dunque, ricominciare a creare occasioni di riflessione, confronto e partecipazione che da tempo sono venute meno. In questo impegno collettivo può essere prezioso il ruolo dell’associazionismo cattolico. Su questa base anche molti, che credenti non sono, sarebbero probabilmente interessati a dare il loro contributo.

Questa – ha ragione Ruffini – è sola via per una reale svolta. Non le operazioni di palazzo in cui lo si voleva coinvolgere, offrendogli posti di potere. E noi gli siamo grati di avere non solo detto, ma testimoniato con il suo gesto coraggioso, ciò di cui non solo i cattolici, ma l’Italia, oggi, ha estremo bisogno.

 

*Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo

 

www.tuttavia.eu

 

sabato 20 gennaio 2024

TO SHARE - TO CARE

Comunicare 
non è solo connettere 
ma condividere 
e prendersi cura

Il prefetto del Dicastero per la Comunicazione firma la prefazione al libro della Lev “Comunicare”, che raccoglie i dieci Messaggi di Francesco per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, raccolti dall’Unione Cattolica Stampa Italiana e commentati da giornaliste e giornalisti italiani. Di seguito il testo integrale della prefazione

Il libro “Comunicare” è stato curato da Vincenzo Varagona, presidente dell’Unione cattolica stampa italiana (Ucsi), giornalista Rai per 35 anni che ora collabora con Avvenire e da Salvatore Di Salvo, segretario nazionale dell’Ucsi, redattore del settimanale Cammino e collaboratore del Giornale di Sicilia. Gli autori dei contributi sono: Marco Ansaldo, Alessandro Banfi, Carlo Bartoli, Paolo Borrometi, Aldo Cazzullo, Alessandra Costante, Asmae Dachan, Marco Damilano, Giuseppe Fiorello, Luciano Fontana, Sara Lucaroni, Simone Massi, Maurizio Molinari, Andrea Monda, Salvo Noè, Agnese Pini, Gianni Riotta, Nello Scavo, Andrea Tornielli, Mariagrazia Villa.

 

-         di Paolo Ruffini

Comunicare non è solo connettere.

Praticamente in ognuno dei suoi Messaggi per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, papa Francesco ha ripetuto questo ammonimento, facendone il “filo rosso” del suo magistero. Connettere non basta. Bisogna prendersi cura. To share e to care.

 To share: il mondo della televisione ha ridotto lo share a un numero che misura una massa; a un indice che serve per pesare il valore degli investimenti pubblicitari. Laddove, invece, se c’è una grandezza da misurare è quella della pienezza, della bellezza, di questa condivisione. È una grandezza che sta nella sua unicità.

 To care, mi interessa, mi sta a cuore: il mondo di oggi ha quasi cancellato l’idea che ci si possa interessare a qualcosa di diverso dal proprio interesse.

Al massimo ci interessa il modo in cui il progresso sembra appagare i nostri desideri.

 Siamo così affascinati dal catalogo delle possibilità che la tecnologia della comunicazione digitale squaderna davanti agli occhi di ognuno di noi, che rischiamo di restare alla fine senza parole, senza gesti, senza immagini, senza nulla da comunicare, prigionieri di noi stessi, delle nostre paure, del nostro narcisismo; incarnando il paradosso del massimo della connessione e del minimo della comunicazione; scambiando la forma con il contenuto.

 È in questo quadro che si inseriscono i Messaggi di papa Francesco per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali.

La Chiesa ha sempre considerato la comunicazione coessenziale alla sua missione; e sempre ha accettato la sfida del tempo.

 Potremmo citare le Lettere di san Paolo, san Giacomo, san Pietro e san Giovanni come prima forma di comunicazione insieme ai Vangeli. E gli Atti degli Apostoli come narrazione, una comunicazione frutto della comunione. Potremmo trovare nella Regula pastoralis di papa Gregorio I, del 590, una bellissima riflessione teologico-pastorale sui criteri per discernere – con il cuore – quando parlare e quando tacere: «Il pastore sia accorto nel tacere e tempestivo nel parlare, per non dire ciò ch’è doveroso tacere e non passare sotto silenzio ciò che deve essere svelato».

 E potremmo ritrovare in questa citazione così lontana da noi persino una risonanza rispetto a quanto papa Francesco ha scritto nel suo Messaggio del 2023 riguardo al dovere di non aver paura di proclamare la verità, anche se a volte è scomoda, e allo stesso tempo anche al dovere di guardarsi dal farlo senza carità, senza cuore.

 Comunicare con il cuore

Una cosa soprattutto ci ripete ogni anno Francesco con i suoi Messaggi; ed è esattamente questa: l’importanza di comunicare con il cuore, di «parlare con il cuore», di ascoltare con il cuore, di tacere anche con il cuore.

 Come scrive il Papa nel suo Messaggio del 2017: «Già i nostri antichi padri nella fede parlavano della mente umana come di una macina da mulino che, mossa dall’acqua, non può essere fermata. Chi è incaricato del mulino, però, ha la possibilità di decidere se macinarvi grano o zizzania. La mente dell’uomo è sempre in azione e non può cessare di “macinare” ciò che riceve, ma sta a noi decidere quale materiale fornire (cfr. Cassiano il Romano, Lettera a Leonzio Igumeno)».

 «Tutti siamo chiamati a cercare e a dire la verità e a farlo con carità (…) a custodire la lingua dal male (cfr. Sal 34,14)» (Francesco, Messaggio per la LVII Giornata delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2023).

 Ascoltare è comunque il primo indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione. Non si comunica se non si è prima ascoltato e non si fa buon giornalismo senza la capacità di ascoltare (cfr. Francesco, Messaggio per la LVI Giornata delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2022).

 Quanto alla tecnologia, certamente essa ci permette oggi cose che erano impensabili solo pochi decenni fa. Ma ci sono – sempre ci saranno – cose che la tecnologia non può sostituire. Come la libertà. Come il miracolo dell’incontro fra le persone. Come la sorpresa dell’inatteso. La conversione. Lo scatto dell’ingegno. L’amore gratuito. Qui è la radice di ogni comunicazione. Per questo la connessione da sola non basta.

 Di solito della comunicazione si parla in maniera funzionale. L’insegnamento della Chiesa è quasi all’opposto. Ci possono essere marketing, pubblicità, connessione. Ma senza una relazione vera non c’è vera comunicazione. La stessa ragione della crisi dei media può essere trovata qui.

 Le dinamiche dei media e del mondo digitale – ha scritto papa Francesco nella Laudato si’ – «quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità. I grandi sapienti del passato, in questo contesto, correrebbero il rischio di vedere soffocata la loro sapienza in mezzo al rumore dispersivo dell’informazione».

Le fake news

 Siamo sommersi di informazioni non verificate, senza contesto, senza memoria, senza una lettura consapevole.

Il primato della velocità impedisce spesso il controllo, la verifica, il discernimento. Alimenta la chiacchiera.

In un tempo dove la tecnologia rischia di diventare tecnocrazia dovremmo testimoniare un nuovo umanesimo cristiano, dove la tecnologia è per l’uomo e non contro l’uomo.

Il mondo digitale non è fermo, non è immobile. Sta a noi orientarlo verso il bene.

Non sarà un algoritmo a rivelarci il bene. Tocca semmai a noi orientare l’algoritmo al bene.

 Anche a questo risponde papa Francesco, quando ci invita a usare l’amore (l’unica cosa preclusa alle macchine e agli algoritmi) come regola anche del modo in cui narrarla, la verità. Il problema che stiamo affrontando è: come si fa a essere accattivanti senza diventare cattivi, come si può generare un’informazione che non degeneri, come si può evitare di essere complici di una falsa interpretazione della realtà? Come si può discernere ciò che è vero da ciò che non lo è, la verità dalla post-verità, gli eventi dagli pseduo-eventi, i fatti dai fattoidi?

 Credo che la soluzione stia nel riscoprire l’importanza di essere sulla vita, pienamente presenti, invece che semplicemente in linea.

Più volte papa Francesco ha invitato i comunicatori a evitare gli eccessi degli slogan, che invece di mettere in moto il pensiero lo annullano; e a percorrere la strada lunga della comprensione invece di quella breve che pensa di poter trovare subito o i salvatori della patria, capaci di risolvere da soli tutti i problemi, o i capri espiatori su cui scaricare tutte le responsabilità.

 Più volte ha messo in guardia dal fidarsi di chi dice le cose a metà, perché disinforma con l’alibi di informare, impedisce di dare un giudizio accurato sulla realtà e induce all’errore.

Più volte ha stigmatizzato l’alternanza tra due mali opposti, ugualmente dannosi: l’allarmismo catastrofico e il disimpegno consolatorio, il più grave dei quali è la disinformazione, perché induce all’errore, allo sbaglio; induce a credere solo a una parte della verità.

 Ora l’intelligenza artificiale ci sfida.

Ma l’intelligenza umana ha una risorsa che la macchina non ha: il cuore, il sentimento.

 «La comunicazione è (…) una conquista più umana che tecnologica», ha esordito Francesco nel 2014, con il suo primo Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali. E lo ha fatto scegliendo a sorpresa una parabola diversa da quelle solitamente usate per parlare della comunicazione, quella del buon samaritano, perché ci aiuta – ha detto – a pensare il potere della comunicazione in termini di prossimità: «Anche il mondo dei media non può essere alieno dalla cura per l’umanità ed è chiamato a esprimere tenerezza. La rete digitale può essere un luogo ricco di umanità, una rete non di fili ma di persone umane».

 In questo inizio c’è già tutto. E c’è soprattutto tra le righe il riconoscimento della comunicazione (e del giornalismo) come missione, come afferma il Messaggio del 2015: «In un mondo dove così spesso si maledice, si parla male, si semina zizzania, si inquina con le chiacchiere (…) benedire anziché maledire, visitare anziché respingere, accogliere anziché combattere è l’unico modo per spezzare la spirale del male, per testimoniare che il bene è sempre possibile».

 Sebbene conscio dello straordinario potere della tecnica, e anche della retorica, papa Francesco respinge entrambe le tentazioni: quella tecnocratica e quella propagandistica. «Non è la tecnologia che determina se la comunicazione è autentica o meno, ma il cuore dell’uomo e la sua capacità di usare bene i mezzi a sua disposizione» (Francesco, 8 9 Messaggio per la L Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2016).

 Non è il marketing il modello della buona comunicazione. Ma la testimonianza di chi sa vedere, di chi sa ascoltare, di chi sa farsi prossimo.

Questo è anche il modo migliore di combattere le fake news:

Il miglior antidoto contro le falsità non sono le strategie, ma le persone: persone che, libere dalla bramosia, sono pronte all’ascolto e attraverso la fatica di un dialogo sincero lasciano emergere la verità; persone che, attratte dal bene, si responsabilizzano nell’uso del linguaggio. Se la via d’uscita dal dilagare della disinformazione è la responsabilità, particolarmente coinvolto è chi per ufficio è tenuto ad essere responsabile nell’informare, ovvero il giornalista, custode delle notizie. Egli, nel mondo contemporaneo, non svolge solo un mestiere, ma una vera e propria missione. Ha il compito, nella frenesia delle notizie e nel vortice degli scoop, di ricordare che al centro della notizia non ci sono la velocità nel darla e l’impatto sull’audience, ma le persone. Informare è formare, è avere a che fare con la vita delle persone (Francesco, Messaggio per la LII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2018).

Una rete per condividere

Nel mondo iperconnesso e frammentato, è questa – secondo Francesco – la rete che dovrebbero tessere gli uomini e le donne di buona volontà impegnati nella comunicazione, «una rete fatta non per intrappolare, ma per liberare» (Francesco, Messaggio per la LIII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2019); per condividere storie che reclamano di essere condivise, raccontate, fatte 10 vivere in ogni tempo, con ogni linguaggio, con ogni mezzo (cfr. Francesco, Messaggio per la LIV Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2020).

 Tra le cose meravigliose di cui l’animo umano è capace, prima di ogni invenzione tecnica, c’è questo infatti: la capacità di condividere.

In un momento così buio per la storia della umanità è solo nella condivisione vera che possiamo trovare la strada per ridare l’anima ad ogni meravigliosa invenzione tecnica e al nostro comunicare.

Solo così la comunicazione diventa comunione e apre veri e propri processi di sviluppo del bene, di pace.

 Non si tratta – come ha detto papa Francesco – di promuovere un giornalismo «buonista» che nega l’esistenza di problemi gravi e assume toni sdolcinati. Ma al contrario, un giornalismo senza infingimenti, ostile alle falsità, a slogan ad effetto e a dichiarazioni roboanti; un giornalismo fatto da persone per le persone; un giornalismo che non brucia le notizie, ma si impegna nella ricerca delle cause reali dei conflitti, per favorirne la comprensione dalle radici e il superamento di un giornalismo impegnato a indicare soluzioni alternative alle escalation del clamore e della violenza verbale.

 Per questo, ispirandoci a una preghiera francescana, Francesco – nei Messaggi del 2018 e del 2021 – ha scritto due preghiere per il giornalismo che sfidano anche i non credenti a intraprendere un cammino e che sono la migliore conclusione di queste righe.

 Signore, fa’ di noi strumenti della tua pace.

Facci riconoscere il male che si insinua in una comunicazione che non crea comunione.

Rendici capaci di togliere il veleno dai nostri giudizi.

Aiutaci a parlare degli altri come di fratelli e sorelle.

Tu sei fedele e degno di fiducia; fa’ che le nostre parole siano semi di bene per il mondo:

dove c’è rumore, fa’ che pratichiamo l’ascolto;

dove c’è confusione, fa’ che ispiriamo armonia;

dove c’è ambiguità, fa’ che portiamo chiarezza;

dove c’è esclusione, fa’ che portiamo condivisione;

dove c’è sensazionalismo, fa’ che usiamo sobrietà;

dove c’è superficialità, fa’ che poniamo interrogativi veri;

dove c’è pregiudizio, fa’ che suscitiamo fiducia;

dove c’è aggressività, fa’ che portiamo rispetto;

dove c’è falsità, fa’ che portiamo verità.

(Francesco, Messaggio per la LII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2018)

 

Signore, insegnaci a uscire dai noi stessi,

e a incamminarci alla ricerca della verità.

Insegnaci ad andare e vedere,

insegnaci ad ascoltare,

a non coltivare pregiudizi,

a non trarre conclusioni affrettate.

Insegnaci ad andare là dove nessuno vuole andare,

a prenderci il tempo per capire,

a porre attenzione all’essenziale,

a non farci distrarre dal superfluo,

a distinguere l’apparenza ingannevole dalla verità.

Donaci la grazia di riconoscere le tue dimore nel mondo

e l’onestà di raccontare ciò che abbiamo visto.

(Francesco, Messaggio per la LV Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 23 gennaio 2021)

 Vatican News

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