Oggi il senso della vocazione all’educare è offuscato da mille compiti stabiliti nel nome di performatività e misurabilità, come dice il concetto stesso di “credito” formativo Ma la voce di chi sta in cattedra non è ascoltata
Un’ingiustizia che ne mina credibilità e dignità
Non più soggetti considerati capaci di
contribuire al sapere, ma fonti di informazioni numeriche, grìglie di
valutazione, indicatori di performance
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di GIOVANNI SCARAFILE
Come Marx ed Engels
evocavano lo spettro del comunismo, oggi potremmo parlare di un altro fantasma
che si aggira per le aule scolastiche europee: quello del Beruf, la
vocazione-professione che un tempo costituiva l’essenza stessa dell’insegnare.
Il termine tedesco, nella sua densità semantica che Weber ha magistralmente
analizzato, indicava quella peculiare coincidenza tra chiamata interiore e
funzione sociale, tra dedizione personale e servizio alla comunità. Oggi questa
coincidenza appare sempre più remota, quasi archeologica. Le conseguenze
sociali di questa perdita sono devastanti: quando l’insegnamento cessa di
essere vissuto come vocazione per ridursi a mera prestazione, non è solo il
docente a impoverirsi, ma l’intera comunità educativa. Per
comprendere la situazione attuale della scuola, dobbiamo risalire a Frederick
Winslow Taylor, l’ingegnere americano che nel 1911 pubblicò The
Principles of Scientific Management, teorizzando la “gestione
scientifica del lavoro”. Il taylorismo scomponeva ogni attività in unità
minime, cronometrate e standardizzate, separando rigidamente chi pensava da chi
eseguiva. Oggi assistiamo a un fenomeno analogo nelle aule: la frammentazione
della funzione docente in compiti parcellizzati – compilatore di griglie,
redattore di reportistica, esecutore di protocolli, verificatore di indicatori.
L’insegnante non esercita più un ruolo unitario che tiene insieme elaborazione
del sapere, trasmissione e cura della relazione educativa, ma viene ridotto a
ingranaggio di una macchina che pretende di ottimizzare l’educazione come fosse
una catena di montaggio. Come l’operaio taylorizzato perdeva la visione
d’insieme del proprio lavoro, così il docente contemporaneo vede dissolversi
l’unità di senso del proprio agire educativo. In questo scenario, la logica
performativa trasforma la stessa nozione di controllo: non più soltanto
centralizzato, esercitato dagli uffici scolastici regionali, dal ministero o dalle
agenzie di valutazione, ma capillare e «subjectless», diffuso in ogni dettaglio
della vita scolastica e interiorizzato dagli insegnanti come sorveglianza
costante del proprio operato.
Diciamocelo francamente:
chi mai potrebbe opporsi al miglioramento continuo, alla trasparenza,
all’eccellenza? È questa la forza retorica della performatività: si presenta
come l’evidenza stessa, l’incontestabile, il buon senso. Criticarla significa
esporsi all’accusa di conservatorismo, di nostalgia per privilegi corporativi,
di resistenza al cambiamento. Eppure, proprio questo carattere di ovvietà
dovrebbe metterci in guardia. La performatività trasforma l’educazione in
spettacolo documentabile, sostituisce la profondità della relazione educativa
con la superficie misurabile degli indi riduce la complessità del sapere a
punteggi e classifiche. In tal senso, la performatività non è neutra né
innocente, come i più ingenui credono. Essa porta con sé un’antropologia
precisa: quella dell’homo oeconomicus applicato al sapere. In
questa visione, l’insegnante diventa un produttore di apprendimento misurabile,
lo studente un consumatore di competenze certificate, l’istituzione educativa
un’azienda in competizione sul mercato della formazione. Non è forse
significativo che oggi il linguaggio corrente parli di “crediti” come se
l’apprendimento fosse un conto in banca, da accumulare, spendere o trasferire
da un’istituzione all’altra? Sono segnali, questi, di una trasformazione
ontologica che ridefinisce la natura stessa dei soggetti e delle relazioni
educative.
In linea con le ricerche
di Miranda Fricker sull’ingiustizia epistemica, possiamo identificare una forma
specifica di torto che colpisce gli insegnanti: la cosiddetta «ingiustizia
testimoniale preventiva». Si tratta di quella situazione in cui la
credibilità del soggetto è talmente compromessa da
pregiudizi identitari che la sua voce non viene
nemmeno richiesta. L’insegnante contemporaneo vive esattamente
questa condizione: quando
si tratta di delineare politiche educative o di definire le finalità culturali
della scuola, la sua testimonianza non viene sollecitata. Parlano le procedure,
i regolamenti, gli algoritmi, ma non chi vive quotidianamente il rapporto
educativo. È un’ingiustizia tanto più grave quanto più silenziosa: non lascia
traccia del rifiuto perché semplicemente la voce del docente non viene
contemplata come possibile fonte di conoscenza affidabile. La degradazione
culmina nella oggettivazione epistemica: il docente non è più visto come informante –
un soggetto capace di contribuire alla conoscenza con giudizio ed esperienza –
ma come semplice fonte di informazione da cui estrarre dati.
Si prelevano dalle sue pratiche numeri, indicatori di performance, griglie di
valutazione. L’insegnante diventa oggetto osservabile, superficie da cui
ricavare indizi statistici sul funzionamento della scuola.
Tutto ciò produce una
frattura più profonda: priva il docente della possibilità di dire se stesso. Se
i dati parlano al suo posto, se gli indicatori diventano il vocabolario
ufficiale della sua esistenza profescatori, sionale, allora l’insegnante
non soltanto viene oggettivato, ma anche reso muto. È qui che la degradazione
epistemica incontra l’ingiustizia ermeneutica: ciò che non trova le parole per
essere nominato non può entrare nello spazio pubblico della conoscenza. In
questo modo, il docente è sospinto a parlare con la voce altrui, adottando il
linguaggio del sistema che lo ha ridotto a superficie misurabile.
Così il ventriloquio si
compie: non più soltanto come sostituzione della voce docente con procedure
esterne, ma come introiezione di quelle stesse procedure nel suo stesso
linguaggio. È qui che la figura dell’insegnante-ventriloquo mostra tutta la sua
drammaticità: privato della propria parola, costretto a esibirsi con la voce di
un altro, da soggetto che educa diventa marionetta che recita un copione
scritto altrove. Non si tratta di una semplice difficoltà professionale, ma di
una spoliazione radicale che lacera l’identità personale, svuota la dignità e
umilia la responsabilità istituzionale. In gioco non c’è solo la condizione di
una categoria, ma la qualità stessa della scuola come bene pubblico e
democratico, cioè come spazio comune in cui una comunità decide di investire
sul futuro riconoscendo a tutti il diritto a un sapere libero e critico.
Chi ascolta questo
silenzio coatto non può restare indifferente. Perché il ventriloquo non è solo
una figura concettuale: è il volto reale di uomini e donne che ogni giorno
entrano in aula portando con sé un sapere che non riescono più a esprimere con
libertà. È la voce soffocata di chi dovrebbe insegnare a pensare, ma si trova
costretto a compilare tabelle. È la dignità negata di chi non smette di credere
nel valore dell’educazione, ma non ha più un linguaggio per dirlo.
Immedesimarsi in questa condizione significa comprendere la violenza simbolica
che vi è all’opera e provare lo sdegno che essa merita: perché nulla è più
ingiusto che togliere la voce a chi ha scelto di vivere insegnando.