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giovedì 11 settembre 2025

INSEGNANTE MARIONETTA?

 

L’insegnante ridotto a marionetta del sistema?

Oggi il senso della vocazione all’educare è offuscato da mille compiti stabiliti nel nome di performatività e misurabilità, come dice il concetto stesso di “credito” formativo Ma la voce di chi sta in cattedra non è ascoltata 

Un’ingiustizia che ne mina credibilità e dignità

Non più soggetti considerati capaci di contribuire al sapere, ma fonti di informazioni numeriche, grìglie di valutazione, indicatori di performance

 

-         di GIOVANNI  SCARAFILE

Come Marx ed Engels evocavano lo spettro del comunismo, oggi potremmo parlare di un altro fantasma che si aggira per le aule scolastiche europee: quello del Beruf, la vocazione-professione che un tempo costituiva l’essenza stessa dell’insegnare. Il termine tedesco, nella sua densità semantica che Weber ha magistralmente analizzato, indicava quella peculiare coincidenza tra chiamata interiore e funzione sociale, tra dedizione personale e servizio alla comunità. Oggi questa coincidenza appare sempre più remota, quasi archeologica. Le conseguenze sociali di questa perdita sono devastanti: quando l’insegnamento cessa di essere vissuto come vocazione per ridursi a mera prestazione, non è solo il docente a impoverirsi, ma l’intera comunità educativa. Per comprendere la situazione attuale della scuola, dobbiamo risalire a Frederick Winslow Taylor, l’ingegnere americano che nel 1911 pubblicò The Principles of Scientific Management, teorizzando la “gestione scientifica del lavoro”. Il taylorismo scomponeva ogni attività in unità minime, cronometrate e standardizzate, separando rigidamente chi pensava da chi eseguiva. Oggi assistiamo a un fenomeno analogo nelle aule: la frammentazione della funzione docente in compiti parcellizzati – compilatore di griglie, redattore di reportistica, esecutore di protocolli, verificatore di indicatori. L’insegnante non esercita più un ruolo unitario che tiene insieme elaborazione del sapere, trasmissione e cura della relazione educativa, ma viene ridotto a ingranaggio di una macchina che pretende di ottimizzare l’educazione come fosse una catena di montaggio. Come l’operaio taylorizzato perdeva la visione d’insieme del proprio lavoro, così il docente contemporaneo vede dissolversi l’unità di senso del proprio agire educativo. In questo scenario, la logica performativa trasforma la stessa nozione di controllo: non più soltanto centralizzato, esercitato dagli uffici scolastici regionali, dal ministero o dalle agenzie di valutazione, ma capillare e «subjectless», diffuso in ogni dettaglio della vita scolastica e interiorizzato dagli insegnanti come sorveglianza costante del proprio operato.

Diciamocelo francamente: chi mai potrebbe opporsi al miglioramento continuo, alla trasparenza, all’eccellenza? È questa la forza retorica della performatività: si presenta come l’evidenza stessa, l’incontestabile, il buon senso. Criticarla significa esporsi all’accusa di conservatorismo, di nostalgia per privilegi corporativi, di resistenza al cambiamento. Eppure, proprio questo carattere di ovvietà dovrebbe metterci in guardia. La performatività trasforma l’educazione in spettacolo documentabile, sostituisce la profondità della relazione educativa con la superficie misurabile degli indi riduce la complessità del sapere a punteggi e classifiche. In tal senso, la performatività non è neutra né innocente, come i più ingenui credono. Essa porta con sé un’antropologia precisa: quella dell’homo oeconomicus applicato al sapere. In questa visione, l’insegnante diventa un produttore di apprendimento misurabile, lo studente un consumatore di competenze certificate, l’istituzione educativa un’azienda in competizione sul mercato della formazione. Non è forse significativo che oggi il linguaggio corrente parli di “crediti” come se l’apprendimento fosse un conto in banca, da accumulare, spendere o trasferire da un’istituzione all’altra? Sono segnali, questi, di una trasformazione ontologica che ridefinisce la natura stessa dei soggetti e delle relazioni educative.

In linea con le ricerche di Miranda Fricker sull’ingiustizia epistemica, possiamo identificare una forma specifica di torto che colpisce gli insegnanti: la cosiddetta «ingiustizia testimoniale preventiva». Si tratta di quella situazione in cui la credibilità del soggetto è talmente compromessa da pregiudizi identitari che la sua voce non viene nemmeno richiesta. L’insegnante contemporaneo vive esattamente

questa condizione: quando si tratta di delineare politiche educative o di definire le finalità culturali della scuola, la sua testimonianza non viene sollecitata. Parlano le procedure, i regolamenti, gli algoritmi, ma non chi vive quotidianamente il rapporto educativo. È un’ingiustizia tanto più grave quanto più silenziosa: non lascia traccia del rifiuto perché semplicemente la voce del docente non viene contemplata come possibile fonte di conoscenza affidabile. La degradazione culmina nella oggettivazione epistemica: il docente non è più visto come informante – un soggetto capace di contribuire alla conoscenza con giudizio ed esperienza – ma come semplice fonte di informazione da cui estrarre dati. Si prelevano dalle sue pratiche numeri, indicatori di performance, griglie di valutazione. L’insegnante diventa oggetto osservabile, superficie da cui ricavare indizi statistici sul funzionamento della scuola.

Tutto ciò produce una frattura più profonda: priva il docente della possibilità di dire se stesso. Se i dati parlano al suo posto, se gli indicatori diventano il vocabolario ufficiale della sua esistenza profescatori, sionale, allora l’insegnante non soltanto viene oggettivato, ma anche reso muto. È qui che la degradazione epistemica incontra l’ingiustizia ermeneutica: ciò che non trova le parole per essere nominato non può entrare nello spazio pubblico della conoscenza. In questo modo, il docente è sospinto a parlare con la voce altrui, adottando il linguaggio del sistema che lo ha ridotto a superficie misurabile.

Così il ventriloquio si compie: non più soltanto come sostituzione della voce docente con procedure esterne, ma come introiezione di quelle stesse procedure nel suo stesso linguaggio. È qui che la figura dell’insegnante-ventriloquo mostra tutta la sua drammaticità: privato della propria parola, costretto a esibirsi con la voce di un altro, da soggetto che educa diventa marionetta che recita un copione scritto altrove. Non si tratta di una semplice difficoltà professionale, ma di una spoliazione radicale che lacera l’identità personale, svuota la dignità e umilia la responsabilità istituzionale. In gioco non c’è solo la condizione di una categoria, ma la qualità stessa della scuola come bene pubblico e democratico, cioè come spazio comune in cui una comunità decide di investire sul futuro riconoscendo a tutti il diritto a un sapere libero e critico.

Chi ascolta questo silenzio coatto non può restare indifferente. Perché il ventriloquo non è solo una figura concettuale: è il volto reale di uomini e donne che ogni giorno entrano in aula portando con sé un sapere che non riescono più a esprimere con libertà. È la voce soffocata di chi dovrebbe insegnare a pensare, ma si trova costretto a compilare tabelle. È la dignità negata di chi non smette di credere nel valore dell’educazione, ma non ha più un linguaggio per dirlo. Immedesimarsi in questa condizione significa comprendere la violenza simbolica che vi è all’opera e provare lo sdegno che essa merita: perché nulla è più ingiusto che togliere la voce a chi ha scelto di vivere insegnando.

www.avvenire.it

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mercoledì 10 settembre 2025

LA LUCE E L'ONDA


COSA SIGNIFICA INSEGNARE

 

Pubblichiamo un estratto (pag. 135-137) del libro “La luce e l’onda. Cosa significa insegnare” (Einaudi, 2025) di Massimo Recalcati, per gentile concessione dell’autore e dell’Editore.

 

Nella vita della Scuola la pluralità delle lingue non è solo tutelata dal lavoro degli insegnanti, ma informa anche il suo istituirsi come una comunità. È quello che è mancato di più ai nostri figli nel tempo della sua chiusura imposto dall’emergenza sanitaria: la possibilità dell’incontro con i propri pari, la vita insieme, la Scuola come soggetto collettivo. 

La vita del gruppo costituisce un tempo essenziale nella separazione necessaria della vita del figlio dalla vita della famiglia. Nella comunità della Scuola l’attivazione del codice fraterno o di sorellanza che integra il discorso del maestro come discorso che apre la vita alla esperienza del Due è una esperienza decisiva. Se, infatti, la vita del figlio resta imbozzolata nell’ordine della lingua della propria famiglia di origine, non c’è formazione, non c’è incontro possibile con la pluralità aperta delle altre lingue.

La vita in gruppo e di gruppo, la vita viva della comunità della Scuola, sostiene in modo decisivo questo processo di apertura rendendo possibile il passaggio dal codice privato della lingua materna a quello pubblico di tutte le altre lingue del mondo. Se per un verso l’esperienza traumatica del Covid aveva rafforzato i legami famigliari sottraendo ai nostri figli l’ossigeno a loro indispensabile della vita al di fuori dalla famiglia, la riapertura della Scuola ridona alla vita del figlio uno spazio aperto. Ancora una volta possiamo misurare la parzialità della visione foucaultiana della Scuola come dispositivo unicamente disciplinare o di controllo sociale.

La Scuola non ha come finalità quella di normalizzare la vita dei nostri figli attraverso una tecnica di dominio e di sorveglianza, ma quella di favorire l’apertura della loro vita all’orizzonte illimitato della vita. Un maestro non è un istruttore, né un governatore, non è un moralizzatore né un sorvegliante, ma la grazia di un incontro che apre la vita a mondi nuovi. Dunque, non agisce per imprimere la sua volontà sui suoi allievi, non impone un sapere già fatto. 

Come abbiamo visto, assomiglia piuttosto a una luce che allarga la visione, a un respiro che allarga la vita o a un’onda che ci costringe a soggettivare il sapere che abbiamo acquisito, a farlo diventare davvero nostro. Quando invece la sua presenza scivola via e al suo posto si impongono insegnanti distruttori sadici o burocrati senza desiderio o, ancora, soggetti frustrati che vivono solo per il loro stipendio, la vita scolastica diviene oppressiva e toglie il respiro. Non è un caso che un sintomo come quello degli attacchi di panico, che ha nella sensazione di mancanza d’aria una delle sue manifestazioni piú eloquenti, appaia come un sintomo ricorrente ed emblematico in molti giovani. Per questa ragione alcuni di loro hanno fatto fatica a ritornare a Scuola.

Ma andare a Scuola non significa entrare in un tunnel senza luce quanto entrare in una comunità aperta. Ed è proprio questa apertura a sottrarre alla vita dei nostri figli i suoi confini familisti costringendoli ad abbandonare il già saputo, ad aprirsi a un mare aperto.

 La Scuola, scriveva Freud, non solo non spinge i suoi allievi al suicidio ma ha il compito di «creare in loro il piacere di vivere e offrire appoggio e sostegno in un periodo della loro esistenza in cui sono necessitati dalle condizioni del proprio sviluppo ad allentare i loro legami con la casa paterna e la famiglia». 

 © 2025 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino



 

mercoledì 22 gennaio 2025

IMPARARE A VOLARE


 Schettini: "La vita è una sola e non dobbiamo avere paura ma dobbiamo imparare a volare. 

Gli insegnanti devono scoprire e tirar fuori le potenzialità di ogni studente"

 

La Redazione

 

Schettini: "Una vita abbiamo. È corta, è veloce, vola via. La dobbiamo sfruttare, non ci dobbiamo nascondere, non dobbiamo avere paura. Dobbiamo mostrarci e dobbiamo volare...

Non è semplice svolgere il proprio mestiere nel migliore dei modi e la funzione di educatore, in qualità di insegnante, è sicuramente una funzione importantissima ed imprescindibile per garantire una crescita consapevole dei giovanissimi.

Le nuove generazioni, alle prese con una società basata sul consumismo e sull'apparenza, spesso si ritrovano prive di una guida, di un punto di riferimento, ed appaiono così disorientare e senza alcuno stimolo.

Non è semplice vivere la propria vita pienamente, comprendendo sin da subito quale sia la strada giusta da percorrere ed ecco allora che la funzione svolta dagli educatori appare molto importante in tal senso.

A tal fine il professore Vincenzo Schettini esprime il suo pensiero in merito, sottolineando proprio l'importanza della vita, evidenziando il ruolo che dovrebbe essere svolto da ciascun insegnante.

"Non è mai troppo tardi per fare. Perché, se tu ti spegni, se a un certo punto ti spegni, ti cade nelle mani tutto quello che hai che si chiama vita.

E allora io dico: una vita abbiamo. È corta, è veloce, vola via. La dobbiamo sfruttare, non ci dobbiamo nascondere, non dobbiamo avere paura. Dobbiamo mostrarci e dobbiamo volare perché quel volare entusiasma gli altri, li coinvolge, li fa cambiare.

Se iniziano a volare i giovani, allora altri giovani voleranno. Questa è la cosa più bella. Quindi tutto può cambiare perché un ragazzo che fa, un ragazzo che si spinge oltre, un ragazzo che fa sempre di più contagia gli altri", queste le significative parole del professore.

Occorre, quindi, vivere ogni attimo, ogni istante della propria esistenza, con entusiasmo, positività, perché solo in tal modo potremo essere "contagiosi" e fungere da esempio, spronando sempre i giovanissimi ad andare oltre, a "volare", superando i propri limiti, senza mai voltarsi indietro ma volgendo sempre lo sguardo in avanti.

"Noi questo vogliamo come professori. Perché quello che trasmettiamo come materia, come nozione, sì, è vero, ci sta. La nozione ci sta, resterà, ma quello che resta ancora di più è il fatto di scoprire le potenzialità che abbiamo dentro. Che io sono convinto tutti possiamo tirar fuori. A qualsiasi età", così continua Schettini.

Il professore, da ultimo, sottolinea un aspetto fondamentale: gli insegnanti devono sicuramente dispensare sapere ma al contempo devono essere anche capaci di scoprire e tirar fuori le potenzialità di ciascuno studente, alla luce delle loro passiono, ambizioni ed inclinazioni personali.

 

Scuola Oggi

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mercoledì 22 marzo 2023

L'INSEGNANTE IN AGIO NEL DISAGIO

Lavorare con le fragilità dei più giovani mi offre l’opportunità di sfidare l’indecenza di un sistema che non ha a cuore il benessere della comunità.

 

- di Gilda Sciortino

 Si definisce lei stessa un caterpillar e i fatti le danno ragione perché Esmeralda Prinzivalli è la dimostrazione che la determinazione fa la differenza. Originaria di Trapani, la vita l’ha portata per caso a Palermo dove insegna in una scuola elementare di Borgo Nuovo, quartiere della periferia cittadina, nel quale il disagio é presente a causa della mancanza di servizi per la persona. Grazie a Fqts, la Formazione Quadri del Terzo Settore, ha messo in atto un processo di conoscenza agita e attiva che coinvolge la comunità.

«Quando affermo "la dispersione prima di tutto" voglio dire che lavorare con le fragilità dei più giovani mi offre l’opportunità di sfidare l’indecenza di un sistema che non ha a cuore il benessere della comunità.

È indecente, lo ripeto e sottolineo, che nel 2023 si assista a quello che ci circonda.

Io sono di Trapani, ma insegno a Palermo in una scuola elementare di Borgo Nuovo, una delle periferie della città. Mi occupo di dispersione e di quartieri difficili.

Lo faccio in una realtà dove c’è di tutto, il bianco, il nero, il grigio, un vero e proprio arcobaleno di colori, ma io vivo bene qui.

Quando mi suggeriscono altre scuole perché pensano che sia una quotidianità pesante da vivere, io dico che non farei mai a cambio».

Esmeralda Prinzivalli ti trasmette subito il senso di un impegno concreto che fonde l’amore per i più giovani con la consapevolezza che essere insegnanti ha oggi un valore che non sempre è ben compreso.

In lei questo impegno è declinato attraverso le sue tante vite, da volontaria, progettista sociale, educatrice, portavoce del Forum Terzo settore di Trapani, presidente dell’APS “Al Plurale” che ha sede a Erice, in provincia di Trapani, ma soprattutto grazie alla sua capacità di cogliere il senso profondo dell’essere comunità educante.

«Tutto questo l’ho imparato sul campo.

Provengo da una famiglia abbiente, con genitori professori che non mi hanno mai fatto mancare niente. Non vi dico che tutto quello di cui mi occupo oggi lo vedevo solo in televisione, ma quasi.

Quando mi sono scontrata con le realtà in cui il disagio è alla base, ci ho messo un po’ a metabolizzare; all’inizio mi appariva come un’immagine sbiadita molto lontana da me.

Ero anche una ragazzina e non avevo la consapevolezza, ma poi si è aperto un mondo davanti a me che mi ha reso consapevole e responsabile.

Oggi mi occupo quasi esclusivamente di minori e giovani adulti nelle loro varie sfaccettature: migranti, in percorso penale, in fragilità, ma solo per fare qualche esempio».

Un mondo, quello del disagio, nel quale dici di sentirti a tuo agio. Cosa vuol dire?

«Qualcuno potrebbe prendermi per folle, ma credo faccia parte del mio Dna.

Lavorare nelle situazioni in cui la fragilità è presente e parla attraverso i ragazzi, le famiglie, mi fa scoprire anche le mie di fragilità e con loro, attraverso loro, le combatto.

Purtroppo sento molto la solitudine perché, per esempio, con le istituzioni non ci sono relazioni.

Qui la resistenza è di territorio.

La tocchi con mano al bar in cui prendi il caffè, nella bottega dove vai a fare acquisti.

Ho così cercato di creare maggiore connessione con la scuola, come anche con il neuropsichiatra privato che mi fa cortesie personali perchè l’Asp è oberata e non può seguire tutti.

Ho creato una rete, ma continuo a sentimi sola perché l’azione non è sistemica.

Sono tutti bravissimi presi singolarmente, ma manca il sistema di supporto».

Ma quando sei arrivata a Palermo da Trapani in qualità di progettista sociale, consulente per le scuole, sembrava che il sistema funzionasse.

«Allora portavo con me la voglia di condividere, ma lo facevo da tecnico, anche se con una declinazione che, nel mio caso, era quella del condividere per fare insieme “perché così viene meglio”. Io sono montessoriana, quindi questo concetto mi viene facile da esportare.

C’è stato un periodo di grande fermento a Palermo, poi il declino, forse l’ho percepito io nelle associazioni che frequentavo; è seguito il Covid e, successivamente, la riforma del Terzo Settore che ha destabilizzato parecchie realtà.

Oggi ritengo che stiamo tutti vivendo un momento di ristrutturazione».

Un impegno che fa parte del suo Dna e che porta avanti con grande passione, ma soprattutto e lucidità. Una consapevolezza cresciuta grazie all’incontro con Fqts, all’interno del quale Esmeralda ha seguito diversi percorsi.

«Il mio rapporto con Fqts comincia per caso nel lontano 2011, credo alla seconda edizione.

In Sicilia non arrivavano tante informazioni su questa esperienza. mentre amiche mie di altre regioni mi raccontavano meraviglie.

Mi informo e, facendo mille peripezie, riesco a iscrivermi.

Da lì comincia una viaggio bellissimo, del quale porto con me ricordi meravigliosi anche in relazione alle persone che ho conosciuto e con cui continuo a mantenere rapporti solidi, professionali e amicali».

La formazione continua come mantra della tua vita.

«L’ultima scommessa è stata quella con Leonardo Becchetti. Mi è stato chiesto di partecipare al suo corso perchè quello che avevo scelto era pieno.

Sono entrata nel panico perché ho allergia ai numeri e, occupandosi lui di economia, pensavo di fare brutta figura. È stata, invece, l’apertura a un nuovo mondo.

Il suo è un approccio a un’economia diversa, generativa, sociale, solidale, che parte dal basso.

Mi ricordo che uno dei primi compiti che diede è stato su come poter cambiare la dinamica del mio quartiere, San Giuliano, a Erice.

Un quartiere a rischio, di periferia, nel quale ci siamo inventati una piccola biblioteca, il giornalaio che non c’era, due o tre panchine posizionate a quadrato per creare una zona di chiacchiera.

Lui ci spiegava come l’urbanistica e un’economia diversa possono cambiare l’aspetto di un territorio. Grazie anche al contributo del Comune che ha trovato dei fondi, abbiamo installato delle lampade particolari, posizionato libri, scelto delle panchine dalla forma che ti faceva pensare a un’isola dove potersi sedere e raccontare.

Per il quartiere è stato un trauma: “Cosa sono queste cose? 

Non ne abbiamo bisogno”.

Le hanno, infatti, distrutte. Abbiamo così cominciato a lavorare con le scuole realizzando un’indagine bellissima per capire cosa dicevano le famiglie che, non sapendo scrivere, utilizzavano disegni.

Ne sono arrivati di significativi su come avrebbero voluto il loro quartiere.

Un lavoro dal basso che ha dato i suoi frutti, infatti le panchine sono state ripristinate.

È successo circa 4 anni fa e ancora sono in buono stato.

Grazie a Becchetti che mi ha aperto un mondo che non conoscevo».

Fqts ha migliorato in modo significativo non solo le tue competenze...

«lo dico sempre che non ha migliorato solo le mie conoscenze e competenze, le high skills come anche le soft skill, ma è mutato il paradigma di un processo di conoscenza agita e attiva.

Io sono sempre stata una in perenne movimento, ma ho acquisito una forma di consapevolezza capace di mettere in relazione nuovi saperi.

La mia esperienza è, poi, quella di una persona che dal collegio è passata all’ educativa con le famiglie degli allievi.

Da lì è cominciato il mio impegno sociale, che passa anche dalla Chiesa, per poi uscirne mantenendo buoni rapporti anche se non strutturati.

Io a Fqts ci credo follemente e fortemente.

Ti fa indossare degli occhiali che ti fanno accorgere delle cose che stanno davanti il tuo naso e che guardavi diversamente; sembra una cosa banalissima, ma non lo è. Il mio primo giorno del laboratorio con Becchetti mi sentivo come se fossi al primo superiore, chissà cosa mi doveva accadere.

Avevo un’ansia, avrei dovuto avere a che fare con un grande economista; sono andata anche a leggere "Il Sole 24 Ore".

Poi lui ha cominciato a fare lezione e, quasi come per magia, il numero era inesistente tra le sue parole. C’erano, invece, i numeri che ci servivano per fare statistica, per il range, per creare indicatori, per tutto.

Così la mia agitazione è andata scemando anche grazie al suo “Algoritmo della Felicità” applicato alla nostra vita con la declinazione del benessere, ma quello individuale e di comunità.

Ho anche fatto un progetto dal titolo “Ben-Essere”.

Se, poi, penso a Palermo mi accorgo che quello che è manca la comunità educante.

Ci sono libri, scritti, ma la comunità?

Io non la vedo, almeno non a Borgo Nuovo.

Qui di associazioni ce ne sono 3 e sono solo sportive.

O fai attività sportiva o non hai scelta.

Nel frattempo, però, le famiglie hanno bisogno».

Palermo e Trapani possono dirsi connesse almeno idealmente?

«Nel fine settimana rientro a Trapani che non ho mai lasciato, ma dove al momento non tornerei a lavorare stabilmente.

A Erice, però, lo la ,mia associazione “Al Plurale” che si occupa da sempre di giovani. Nasciamo, infatti, nel 2009 grazie a un Apq e, da allora, la nostra progettazione è sempre stata rivolta a giovani, ai bambini in dispersione scolastica.

Poi è arrivato un bando per la valorizzazione dei beni pubblici, che abbiamo vinto, realizzando a Prizzi, in provincia di Palermo, l'ostello "Terra Terra" gestito da disabili perché l’avviso prevedeva l’impiego di risorse in fragilità o di disabili abili al lavoro.

Un progetto che funziona perché frutto della sinergia tra diverse realtà.

Come associazione, anche su Erice lavoriamo molto co-progettando e co-programmando con gli enti locali.

Ci credo tantissimo, da sempre, anche senza la sussidiarietà che si dovrebbe tenere».

Che risposta dare alla dispersione?

«Per combatterla devi offrire continuità e attuare la presa in carico dei soggetti.

Bisogna offrire sempre il modello giusto, andare in punta di piedi, comprendere quello che si anima attorno a te.

Quando mi parlano di legalità o di antimafia chiedo sempre in cosa consiste per loro essere mafioso e antimafioso.

Non sempre le risposte sono adeguate.

Ho lavorato per 20 anni nel mio quartiere, a San Giuliano, a Erice, e quello che conta è ciò che offri alle persone.

Devi calarti nella loro vita.

Chi vive in contesti difficili, come quelli in cui mi trovo a operare, ha molto rispetto di chi si prende cura dei loro figli senza fare pensare loro che vuoi cambiare le loro vite. La contaminazione fa tanto.

Noi, per esempio, a Borgo Nuovo abbiamo la biblioteca in classe dove ognuno è libero di prendere libri e leggerli come e quando vuole.

Ieri ho portato un libro su Frida Kahlo e ne sono rimasti entusiasti».

Esmeralda sprizza energia da tutti i pori.

Questo forse anche grazie, più che a causa, di un incidente di percorso, se cosi vogliamo chiamarlo, che a molti avrebbe impedito di andare avanti.

Per lei una sfida.

«La mia è una battaglia che combatto quotidianamente.

A chi mi chiede perché il giorno dopo avere fatto la chemio vengo a scuola, rispondo che non c’è motivo per stare a casa.

Certo, non sono in forma smagliante, accuso un po’ di stanchezza, ma ammortizzo.

Se sono qua è per quella parolina, benessere, che mi dice che devo esserci.

Ho una visione olistica della vita il mio corpo sta bene se sta bene la mia testa; quindi, anche la scommessa mi aiuta ad attraversare meglio questa tempesta.

Voglio vivere mangiandomi i giorni, voglio vivere attimo per attimo, non con le poesie che scriviamo, e io sono una che ama la poesia, la filosofia e il jazz.

Non ho intenzione di andare via così facilmente.

Quando ho saputo quel che avrei dovuto affrontare, ho respirato, ci ho pensato bene e poi mi sono detta che le soluzioni erano due: farla finita o lottare senza sosta. Una decisione che dovevo prendere subito, senza farmi venire attacchi di panico o depressione. Ho così deciso che declinazione dare a questa mia esperienza: esserci e fare a differenza, ogni ora, ogni giorno, per me, per tutti».

 VITA

martedì 1 settembre 2020

PARLARE SOTTOVOCE OSTACOLA LA DIFFUSIONE DEL VIRUS


Scuola, il Cts:

 «Urlare in classe aumenta il rischio contagio,

Urlare in classe moltiplica il rischio di contagio da coronavirus
Quella che era una buona norma di educazione per studenti e docenti sarà quasi un obbligo dal 14 settembre, quando milioni di ragazzi e ragazze torneranno tra i banchi, visto che chi alza la voce aumenta esponenzialmente il rischio di contagiare chi gli sta intorno. 
A dirlo è Kyriakoula Petropulacos, componente del comitato tecnico scientifico per l’emergenza Covid, il Cts, e direttrice della sanità in Emilia-Romagna.
«Urlare aumenta lo spargimento di goccioline che, se infette, hanno la capacità di contagiare» spiega l'esperta in un'intervista al Corriere della Sera. 
Meglio evitare anche le lezioni di canto durante le ore di musica: «Meglio  soprassedere – afferma – a meno di non essere dovutamente distanziati. È difficile pensare che tutti in una classe si ricordino che è saggio non alzare la voce o restare in silenzio ma se lo facesse la maggioranza sarebbe sufficiente”. 
Nel mezzo delle tante criticità che il mondo della scuola sta affrontando a pochi giorni dalla riapertura, quello di dover gestire anche le urla di studenti indisciplinati o di insegnanti poco carismatici, è l'ennesima difficoltà da gestire: «Sarà molto importante la sensibilizzazione degli studenti - continua Petropulacos -. Ci vorrà  attenzione nell’evitare comportamenti finora considerati innocui, tipici degli alunni specie durante la ricreazione, e che oggi  potrebbero essere un rischio».


martedì 12 maggio 2020

INSEGNARE NEL TEMPO DELLA PANDEMIA. CONFRONTO DI ESPERIENZE E UNO SGUARDO AL FUTURO

INVITATION AU WEBINAIR

ENSEIGNER AU TEMPS DU CORONAVIRUS.
 COMPARER LES EXPÉRIENCES, UN REGARD SUR L’AVENIR


Webinaire international -  Vendredi 22 mai 2020 de 17h00 à 19h00 (Roma)

Ce webinair de l’UMEC-WUCT vise à réfléchir et à échanger sur des expériences et compétences relatives aux problèmes de l’éducation et de l’enseignement face aux multiples crises provoquées par la pandémie du COVID-19, et sur les perspectives, aux niveaux mondial et local.

Langue de l’événement : français

Intervenant.e.s

Introduction et salutations :   Guy Bourdeaud’hui, Président UMEC-WUCT
Emmanuel Banywesize, Professeur à l’Université de Lubumbashi et Directeur Gén. de l’EcoPo - RD Congo
Elizabeth Boddens  Hosang, Identity Advisor at St. Confessioneel Onderwijs Leiden - NL
Elena Rodica Miron, Directrice du Licée  Sf Iosif – Bucuresti – Ro
Pasquale Moliterni, Professeur à l’Université de  Roma 4 - I -
Conclusions : Msg  Vincent Dollmann, Archevêque de Cambrai, A.E. UMEC-WUCT
Coordination : Giovanni Perrone, secrétaire général de l'UMEC-WUCT

Le webinaire est réservé à un maximum de 500 personnes, selon l'ordre de réservation.
Avant le webinaire, les informations nécessaires à la connexion (via Zoom) seront envoyées  .




A webinar on the same theme will be held in June

Courriel /Mail: Umec.wuct@gmail.com

SVP, veuillez diffuser l'invitation

lunedì 6 gennaio 2020

INSEGNANTE O IMPIEGATO? UNA SCELTA QUOTIDIANA.

Quella scelta tra insegnare
 e fare l’impiegato 
che si pone ogni mattina

 di Cinzia Billa

La demotivazione degli insegnanti italiani è legata allo stipendio? I dati internazionali smentiscono questo assunto. Il nodo è la passione ideale
Archiviato il caso Fioramonti, torno indietro a un articolo del Messaggero di inizio dicembre su Ocse-Pisa e demotivazione degli insegnanti italiani. L’articolo sosteneva che il motivo per cui una larga percentuale di 15enni italiani del campione di indagine avrebbe risposto “no” alla domanda se i propri docenti in classe si mostrassero entusiasti e divertiti del loro lavoro, risiederebbe nel fatto che questi sono precari e mal pagati. Non è chiaro allora il motivo per cui, come peraltro riportato dallo stesso articolo, ancor più demotivati degli insegnanti italiani vi siano, ad esempio, gli insegnanti della Germania che guadagnano quasi il doppio. Quelli che paiono più motivati ai propri studenti sono i colleghi dell’Albania e del Kosovo.
Ora, volendo tralasciare le molte differenze amministrativo-organizzative che il sistema di istruzione tedesco presenta rispetto a quello italiano o a quello dell’Albania, sembra interessante non lasciare passare questa stranezza: è possibile che dove guadagnano di più, gli insegnanti sembrino meno entusiasti del loro lavoro.
I dati, si sa, possiamo farli parlare come vogliamo. Ma la stranezza, in questo caso, impone una domanda: cosa motiva veramente un insegnante, così che i suoi alunni ne percepiscano l’entusiasmo per il lavoro che fa?
Non è solo lo stipendio o il posto fisso. Altrimenti non si spiega come non siano rari i casi, tra gli insegnanti italiani, di precari con il minimo dello stipendio che fanno “riaccendere” l’interesse di una classe. Perché sono più giovani, spiega l’articolo già citato, ed è minore il gap generazionale, per cui c’è maggiore empatia tra docente e discente. Forse. Perché se così fosse, allora fare l’insegnante e fare il calciatore sarebbe uguale: a 40 anni sei già fuori uso. Cioè l’esperienza non conta. Io ricordo che al mio primo anno di insegnamento, quando avevo 29 anni, non ero così capace di empatia. Anzi. Ero tesa come chi sa che ha molto da imparare sul campo. E l’autorevolezza verso i miei studenti e le mie studentesse me la sono dovuta sudare, sfida dopo sfida. L’esperienza conta, eccome.
Quando un insegnante appare motivato ai suoi studenti? Quando ha il gusto di riscoprire la propria materia con loro fino al punto di sfidarli dentro un lavoro di studio e scoperta, per una stima verso di loro e il loro destino. Appare motivato l’insegnante che non molla lo studente, che le studia tutte, che al suono della campana non scappa, che a ricreazione alza gli occhi dal registro per chiedere a un giovane come sta, che lo rimprovera e l’attimo dopo si riparte. Che non gli mette 7 o 4 senza dirgli perché. Appare motivato l’insegnante che non ha la preoccupazione di apparire motivato, ma che è “preso” da qualcosa (la materia) e da qualcuno (l’alunno, il suo bene), anche a costo di essere talvolta poco empatico.
Cosa lo rende così? Non è lo stipendio. Questa è una categoria che applichiamo quando guardiamo alla scuola e all’istruzione come a un settore del pubblico impiego, ossia esito di una cultura che considera insegnare come “avere il posto statale”. Equivoco per cui non si considera il sistema di istruzione e formazione come il motore dello sviluppo del paese, la formazione iniziale dei docenti è considerata una perdita di tempo e il carico burocratico che grava sugli insegnanti tende a portare sullo sfondo l’essenziale del lavoro dell’insegnante – educare insegnando –. Questo è un equivoco de-motivante in partenza. Perché fa fuori la natura dell’insegnante.
Cosa lo motiva, allora? Una meta preziosa. Per cui insegnare. Che significa, oggi, insegnare? Oggi più che mai significa imparare e seguire. Lasciare spazio alle sfide sempre nuove e alle domande che ogni giorno sorgono nell’affronto della disciplina con gli studenti, facendo insieme a loro un cammino di conoscenza autentico, mai scontato, umile, possibilmente chiedendo aiuto a un collega più bravo o che rischia lo stesso desiderio.
Muove e motiva me e gli studenti scoprire che posso verificare se il pezzo di realtà che sto incontrando adesso ha un significato che può  riguardare me, con la mia attesa di bellezza, col mio bisogno di scoprire la verità di me, ciò per cui sono al mondo, che mi fa dire “questo sì e questo no”, che mi fa scoprire che io non sono il mio fallimento, ma il mio ragionevole desiderio di compimento.



lunedì 14 settembre 2015

INIZIA UN NUOVO ANNO SCOLASTICO! L'AUGURIO DELL'AIMC

ASSOCIAZIONE   ITALIANA   MAESTRI   CATTOLICI


Comunicato stampa
                     

Che sia realmente buona scuola per tutti!

L’inizio di un nuovo anno scolastico: ritrovarsi, ripartire, un certo entusiasmo, variegate attese, molte speranze,… La scuola di oggi è, forse, soffocata da complessità, difficoltà, disagi, disorientamento, caratteristiche del nostro tempo che si riverberano anche fra le pareti dell’aula.
          L’Associazione Italiana Maestri Cattolici (AIMC) è convinta che sia urgente recuperare il senso della bellezza dell’educare, dell’insegnare, dell’apprendere. Perché educare è investire nel futuro del Paese. Perché insegnare è un modo per concorrere alla costruzione del tessuto sociale. Perché apprendere codici culturali e umani è farsi consapevoli e liberi. Perché il quotidiano della scuola è scrivere, con gli altri, frammenti di storia. Perché interagire con la scuola è valorizzare una risorsa per il bene comune. Perché nell’aula, giorno dopo giorno, si costruiscono le biografie personali e la biografia collettiva di un popolo.
Solo il recupero di senso può costituire il bagaglio necessario per ripartire nonostante tutto. Nonostante le delusioni, nonostante i ritardi, nonostante le incomprensioni, facendo tesoro, invece, di esperienze di reale “buona scuola” che, certamente, si sono realizzate e sono ancora possibili.
          Allora gli auguri si sostanziano, diventano autentici e si declinano. Auguri agli studenti, bambini e giovani, perché raggiungano nella bellezza dell’imparare risposte significative alle loro attese di crescita; auguri ai professionisti perché trovino nella bellezza dell’insegnare il sostegno della comunità scolastica e del territorio, ma anche dei corpi intermedi quali l’associazionismo, superando l’amaro senso di solitudine in un ambiente, quello scolastico appunto, che è per sua natura luogo di profonda relazionalità; auguri ai genitori perché nella bellezza educativa trovino condivisione nell’azione della scuola; auguri all’Amministrazione, alla società civile, ai politici, ...
Solo dalla concertazione di tutti intorno a questo bene – la scuola – immateriale, ma fondativo della convivenza civile e democratica di un Paese gli auguri di inizio d’anno scolastico potranno essere tradotti in obiettivi all’altezza di un popolo che vive responsabilmente quest’inizio di millennio.
                                                                               La presidenza nazionale AIMC
Roma, 14 settembre 2015