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domenica 6 luglio 2025

UMANESIMO DELL'INCERTEZZA

 


 Per un umanesimo

 dell’incertezza,


 un sapere 


che non consola



In un’epoca di risposte rapide e manuali di benessere, una riflessione sulla perdita di valore della domanda come spazio del pensiero. Un invito a riscoprire un’intelligenza di attesa e complessità

- di Giovanni Scarafile 

Entrare oggi in una libreria, anche solo per ripararsi dalla pioggia o per ingannare l’attesa di un appuntamento, significa imbattersi in scaffali sempre più affollati di volumi che promettono benessere, equilibrio, chiarezza: manuali di crescita personale, ricettari dell’anima, guide rapide alla realizzazione di sé occupano ormai intere sezioni, come se l’esperienza dell’umano si lasciasse distillare in protocolli replicabili e in formule precostituite. Non si tratta più, in effetti, di orientare una vita nella sua singolarità irriducibile, ma di proporre percorsi di efficientamento psicologico, in cui le emozioni devono trovare una direzione, le fragilità una correzione, le domande una rapida archiviazione.

Questo stesso paradigma, se lo si osserva negli spazi digitali, assume tratti ancora più accentuati e talora grotteschi, moltiplicando contenuti motivazionali, tecniche di automiglioramento, percorsi di crescita rapida che si contendono l’attenzione di un pubblico sempre più dipendente dalla promessa — tanto rassicurante quanto illusoria — che tutto sia affrontabile e, soprattutto, superabile. Ma sotto questa superficie di immediatezza e chiarezza, che sembra offrire risposte pronte a ogni possibile incertezza, si avverte con crescente evidenza una tensione silenziosa, una stanchezza non detta, un’inquietudine che nessuna strategia sembra davvero dissipare: come se la sovrabbondanza di soluzioni producesse, paradossalmente, un nuovo tipo di solitudine, quella di chi ha perso familiarità con il tempo lungo dell’attesa.

Siamo divenuti — senza quasi rendercene conto — collezionisti di risposte, e intanto smarriamo, con una certa indifferenza, il gesto più originario e fecondo: il domandare. Ogni esitazione viene trattata come un ritardo da colmare, ogni incertezza come un’anomalia da correggere, ogni interrogazione come un momento transitorio da oltrepassare nel più breve tempo possibile. Eppure, non tutte le domande sono fatte per ricevere risposta; alcune esistono per restare aperte, per accompagnarci nel tempo e attraverso i mutamenti, per trasformarci nel modo in cui ci trasformano le attese più vere. Ma il nostro tempo, così intimamente legato al culto della prestazione, fatica a riconoscere che l’intelligenza non si misura solo nella rapidità della soluzione, bensì nella capacità di restare dentro una domanda senza cedere all’impazienza di chiudere.

Tuttavia, la resistenza a questo tipo di postura non è soltanto culturale o legata all’egemonia del paradigma tecnico-scientifico: essa affonda le radici in una forma più sottile di disagio, che rende sempre più difficile tollerare ciò che non produce immediatamente un risultato tangibile. Chi sceglie di non rispondere in fretta, chi si sottrae alla coazione a concludere, rischia oggi di essere percepito come indeciso, inefficiente, persino colpevole. Il pensatore stesso — colui che abita le domande — viene talvolta ridotto alla figura di un titubante cronico, di un soggetto incapace di azione, inchiodato a un’attitudine sterile. Così, si finisce per screditare non soltanto chi non ha ancora trovato una risposta, ma anche chi ritiene che non tutto debba essere immediatamente risolto.

In questa deriva, l’imperativo silenzioso ma pervasivo secondo cui ogni problema — sia esso esistenziale, relazionale o professionale — dovrebbe poter essere trattato come una disfunzione da correggere, trova la sua massima espressione nella colonizzazione tecnico-scientifica della soggettività. Anche le dimensioni più intime dell’esistenza, come la sofferenza, il desiderio, la perdita, vengono affrontate mediante strumenti di codifica e ottimizzazione, con l’effetto collaterale, tutt’altro che secondario, di ridurre la complessità dell’umano a un insieme di funzioni da regolare. Ma l’esistenza non è un software difettoso da aggiornare; essa si dà nell’opacità, nella discontinuità, nella possibilità di non coincidere mai pienamente con se stessi.

In questo scenario, è forse opportuno riconoscere che una certa responsabilità appartiene anche a chi fa ricerca e produce sapere: non è del tutto infondata l’impressione, largamente diffusa nell’immaginario collettivo, che gli studiosi parlino una lingua separata, spesso impenetrabile, come se la distanza dal vissuto fosse una garanzia di autorevolezza. È accaduto, talvolta, che il pensiero si chiudesse in forme di autoreferenzialità che hanno finito per rafforzare il sospetto che la riflessione sia una pratica astrusa, riservata a pochi iniziati. Anche per questo, forse, si è aperto lo spazio pubblico dei divulgatori-sanitari dell’anima, che si propongono come antidoto accessibile a ciò che viene percepito come un pensiero impraticabile. Ma la semplificazione, quando si fa sistematica, diventa impoverimento.

Abitare una domanda non equivale, perciò, a indulgere in un culto dell’indecisione o a glorificare l’inerzia, quanto piuttosto a riconoscere che alcune forme di sapere maturano nel tempo, che non tutto è traducibile in metodo, che la verità stessa non si manifesta se non nella forma dell’attesa, della parola esitante, della sospensione feconda. Difendere la possibilità della domanda significa allora anche difendere una temporalità altra, non scandita dal successo o dalla prestazione, ma da una misura interiore in cui le trasformazioni avvengono secondo un ritmo che non si lascia pianificare.

In questo senso, forse, ciò che occorre oggi non è tanto un nuovo sapere, quanto un nuovo modo di restare: un umanesimo dell’incertezza, che accolga il dubbio non come un vuoto da riempire, ma come un invito a pensare diversamente, a sentire diversamente, a lasciarsi attraversare da ciò che non si domina.

Qualche giorno fa, in una piccola libreria di provincia, ho visto una ragazza sui vent’anni restare ferma a lungo davanti a uno scaffale. Aveva i capelli tagliati corti e asimmetrici, un piercing sottile al naso. Teneva in mano un libro voluminoso, privo di titolo accattivante, senza promesse evidenti né copertina seduttiva. Non sembrava in cerca di una formula risolutiva, né appariva preoccupata di trovare conferme o consigli. Leggeva assorta, con un’espressione quasi di riconoscimento, come se quel libro stesse parlando una lingua che non sentiva da tempo. Mi sono avvicinato, con discrezione, mosso da una curiosità che non saprei spiegare: volevo capire cosa la tenesse lì, così immobile. Non era un manuale, non era un prontuario: era un saggio filosofico. Dopo qualche minuto, con un gesto quieto e quasi affettuoso, lo ha rimesso al suo posto, poi è uscita. Forse quella ragazza non cercava una soluzione: stava solo accompagnando una domanda, in silenzio, per non perderla del tutto.

 www.avvenire.it


 

 

giovedì 26 maggio 2022

STUPIDI o PIU' LIBERI?

Siamo entrati 

nella Supersocietà 

 

Una riflessione sul passaggio dal modello della globalizzazione a un’integrazione che non è lineare


Gli choc che si ripetono dicono che la libertà consumeristica non basta più, si deve andare oltre. Dopo gli anni dell'io e della concorrenza, è il tempo del noi e della collaborazione.

Il superamento di quello che per decenni è stato il modello culturale egemone richiede un massiccio investimento nell’educazione, nelle organizzazioni, nei territori È necessario uno sguardo 'farmacologico' nei confronti della leva tecnologica, senza mai dimenticare che è curativa e tossica allo stesso tempo.

Dopo la pandemia, la guerra. La serie ormai nutrita di shock globali – siamo al quarto in ventuno anni (Torri Gemelle, Lehman Brothers, coronavirus, Ucraina-Russia) – dovrebbe convincerci che la stagione della globalizzazione, inaugurata dalla caduta del muro di Berlino, è definitivamente tramontata. Siamo oltre la modernità liquida: è arrivato il momento di fare i conti con gli effetti entropici del modello di sviluppo che ha dominato il passaggio di secolo. Il cambiamento è accelerato: la questione della transizione ecologica – percepita finalmente come rilevante da larga parte dell’opinione pubblica – si incrocia con una digitalizzazione ormai già avanzata, mentre è l’intero quadro geopolitico planetario a essere in fibrillazione. Così oggi si deve far quadrare il cerchio: governare gli esiti di una pandemia che non si lascia debellare e allo stesso tempo ripensare il senso dello sviluppo, nel quadro del paradigma tecnico digitale e del delicato processo di costruzione di un nuovo ordine mondiale. Un attraversamento per nulla sicuro: aperto nella direzione, incerto nei risultati, difficile nei passaggi. Con opportunità straordinarie e rischi altrettanto ingenti.

Di fronte ai nuovi, ardui problemi da risolvere, l’organizzazione sociale, ormai planetaria, è chiamata a rispondere con un aumento di complessità. Stiamo entrando nella super società, un inedito intreccio tra processi già in corso da tempo, che si caratterizza per la convergenza di tre dimensioni: la stringente interdipendenza tecno-economica su scala globale; il nesso inestricabile tra azione umana e biosfera; l’assorbimento sempre più spinto della soggettività nel processo di autoproduzione sociale.

A differenza della globalizzazione (e delle sue narrazioni), la super società non origina un processo uniforme, bensì una integrazione non lineare che, mentre spinge verso una maggiore verticalizzazione, aumenta le disuguaglianze e apre nuovi conflitti. Non un assetto univoco né rigido, ma una nuova cornice per interpretare le dinamiche del tempo che stiamo cominciando a vivere. Superata la fase dell’espansione planetaria, ci troviamo davanti a una biforcazione. I due principali vettori del cambiamento, sostenibilità e digitalizzazione, ruotano infatti attorno a un’ambivalenza di fondo: ci porteranno verso un mondo distopico, centralizzato e burocratizzato, verso una 'stupidità di massa' dove la libertà personale è confinata al puro spazio del divertimento? Oppure apriranno la via per una società più desiderabile, dove la libertà sarà ancora l’elemento cardine per tenere insieme sviluppo economico e democrazia?

Una domanda che diventa ancora più pressante se si allarga lo sguardo alla situazione mondiale, dove gli equilibri tra democrazia e autocrazia, che dopo il 1989 tendevano decisamente verso il primo polo, oggi sembrano subire l’attrazione fatale dei modelli che non amano la libertà. Il destino della super-società è dunque apertissimo: occasione per un passo in avanti, a partire dal riconoscimento della costitutiva relazionalità della vita o per una regressione dentro una spirale di verticalizzazione, conflitto, esclusione? Per l’Occidente, in particolare, si prospetta una vera e propria scelta di civiltà: decidere, ancora una volta, che è la libertà – e con essa la democrazia e l’iniziativa personale, il pluralismo, la sussidiarietà, la solidarietà, la pace – la carta vincente per affrontare le nuove sfide della fase post-pandemica. Una scelta tutt’altro che scontata e a costo zero: solo sovrainvestendo sulle persone e la qualità delle nostre relazioni personali e istituzionali possiamo pensare di farcela. Non in astratto, ma molto concretamente, con un massiccio e consapevole investimento nell’educazione, nelle organizzazioni, nei territori.

La successione degli shock sollecita il superamento dell’'individualismo dell’individualizzazione' che per diversi decenni è stato il modello culturale egemone. Che vogliamo riconoscerlo o no, la libertà consumeristica non basta più. La super società ci chiede di andare oltre. Semplicemente perché, nel bene e nel male, siamo tutti legati: tra di noi e con l’ambiente, a livello planetario. Non è affatto detto che ce la faremo. Ma risultati arriveranno se torneremo a interrogarci su quel bene inestimabile che è la libertà. Dopo gli anni dell’io e della concorrenza, per sfuggire alla rabbia e all’aggressività crescenti, viene il tempo del noi e della collaborazione. O meglio, di quello che Alexis de Tocqueville chiamava 'l’interesse bene inteso'. Dentro ogni singolo Paese e a livello internazionale. Proprio perché è una relazione, la libertà vive infatti di alleanze, legami, riconoscimenti: pubblico e privato, imprese e territorio, scuola e mondo del lavoro, innovazione e tradizione, scienza e religione, Occidente e Oriente.

Nel comune sforzo di aprire varchi nel 'tutto pieno' delle procedure, dei protocolli, delle regolazioni. Di contrastare le nuove forme di dominio e di odio violento. Di comprendere meglio l’intreccio delle interdipendenze entro cui si dà la vita sul pianeta. Di combattere le fratture sociali e le disuguaglianze. Di prevenire, o almeno contenere, i potenti venti di guerra che soffiano in tante parti del mondo, e che oggi investono pericolosamente la stessa Europa. Di allestire spazi contributivi non ancora saturi e capaci di ospitare azioni capaci di dialogo con la realtà che cambia in continuazione. P er procedere in questa direzione occorre uno sguardo 'farmacologico' nei confronti di quella leva straordinaria che è la tecnologia, necessaria per ogni realistico percorso di transizione. Senza mai dimenticare, però, che la tecnologia è curativa e tossica allo stesso tempo. Mentre potenzia, indebolisce. Per quanto essenziale, la tecnologia da sola non ci salverà. Quanto mai necessaria, essa non è però sufficiente per realizzare i cambiamenti che ci servono. E tantomeno per costituire un orizzonte di senso condiviso che li renda possibili. Per scongiurare le spinte distopiche che la attraversano, la super società ha dunque bisogno di una nuova epistemologia, che la liberi dal mantello di ferro di una ragione ridotta a calcolo. Accanto ai superpoteri dell’intelligenza artificiale serve potenziare il sapere concreto dell’intelligenza umana diffusa: fatta di errori e fallimenti, ma anche di comprensione dei problemi, di condivisione delle prospettive, di concretezza delle soluzioni. Un’intelligenza vivente, non sclerotica, dialogante, non ingabbiata dalle procedure e invece capace di orientarle e sottoporle a critica. Un’intelligenza libera. E cioè in relazione. Nella rete di una responsabilità condivisa, nella direzione di un avvenire che ancora non c’è ma verso cui possiamo tendere insieme.

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 www.avvenire.it


Giaccardi e Magatti, SUPERSOCIETA' - Il Mulino, pagg. 240, 16 euro




 

 

giovedì 17 marzo 2022

FARE INSIEME PER FARE MEGLIO

  


LA RIVINCITA DEL FARE INSIEME

 

In un contesto in grande evoluzione gli schemi individualisti del passato creano incertezze incolmabili. Quest’epoca ci chiede di tornare a camminare includendo

 

-         di GABRIELE GABRIELLI

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Il tempo che viviamo ha diverse sfaccettature, dipende dalle prospettive e dalle sensibilità con le quali lo si guarda. Ce n’è una, forse, più prepotente delle altre: è quella che guarda al tempo come dimensione nella quale tutto ci sfugge di mano, non riuscendo a star dietro alla velocità dei cambiamenti che ci propone. Ogni cosa ci appare fragile e al tempo stesso sproporzionata rispetto alle nostre capacità. Tutta la società così diventa accelerata, popolata da donne e uomini che corrono, si incrociano senza toccarsi, procedono con lo sguardo rivolto a terra. È il tempo in cui le relazioni diventano altro: si digitalizzano, perdono sostanza preferendo una leggerezza senza responsabilità. Un contesto nel quale la solitudine irrompe, senza fare distinzioni, nella vita rumorosa dei più giovani e in quella silenziosa e ritirata degli anziani.

Nel cuore delle persone, allora, pulsano con forza domande come queste: dove sto correndo? Che senso ha questo vivere affaticato e triste? Come stanno i miei figli e cosa pensano? Sono felici? E gli altri dove sono finiti? Quando li ho persi di vista? Tutto prende il colore dell’incertezza con le sue variegate tonalità: paura, ansia, solitudine, pessimismo, apatia, immobilismo, chiusura, depressione. Nel lavoro poi il senso di incertezza causato da fattori come riorganizzazioni repentine, modelli di leadership che tengono costantemente sotto pressione le persone, ruoli che frantumano i contenuti del lavoro rendendoli elementi da ricomporre flessibilmente, diventa fonte di disadattamento. Le implicazioni sulla salute sono numerose.

L’incertezza è categoria complessa e multidimensionale. Quando la viviamo percepiamo un senso di sbandamento perché tutto si muove, si alimenta un senso di instabilità che crea quel profondo disagio che si prova quando tutto sembra fuori controllo e dalla nostra portata. Ci strattona violentemente inducendo a pensare che non possiamo fare niente. Però, come dimensione dell’umano, l’incertezza è anche straordinaria occasione generativa di consapevolezza e crescita individuale e collettiva.

Da questa prospettiva essa apre alla ricerca, sollecita l’immaginazione di opzioni, esplora nuove possibilità. Mettersi in spalla il suo zaino per attraversarla e farne esperienza può essere vitale. Riacquistare fiducia in sé stessi e negli altri, rimettendo al centro il senso della vita come scoperta e ragione del nostro esistere, può rappresentare l’agenda di un rinnovato impegno di ricerca personale, comunitario, sociale. Decidere con consapevolezza gli attrezzi che vogliamo mettere nello zaino può essere metafora utile per riflettere sull’incertezza come tratto significativo di questo tempo.

Possiamo farci guidare da tre criteri che individuano altrettanti livelli di analisi: l’individuo, gli altri, la società con le sue istituzioni. Questi quasi due anni di socialità intermittente hanno generato in molti casi il potenziamento di un dialogo interiore che frettolosamente avevamo messo a tacere. Abbiamo rispolverato il perché della nostra vita e il senso della nostra presenza. La sponda del dialogo interiore ha consentito a molti di mettersi in sicurezza e di sollevare lo sguardo, alzandolo dalla ristretta vista

dei propri passi per allargarlo e per condividere le orme degli altri. Ascoltarsi in profondità costituisce un’àncora di salvezza, non c’è appiglio più necessario e sicuro del dialogo con sé stessi per ritrovare le coordinate della vita.

Il cammino per attraversare l’incertezza e farne esperienza, però, ha bisogno anche di altre risorse perché non viaggiamo da soli, siamo in compagnia. Nello zaino che portiamo sulle spalle ci sono gli altri, il cammino si fa insieme. Questa è la seconda sponda a cui aggrapparci. Qui l’immagine è ben diversa da quella da cui siamo partiti. Camminare insieme significa volgere lo sguardo verso una direzione comune; vuol dire aiutarsi reciprocamente in una sorta di grande laboratorio di ascolto orizzontale. Occorre un’altra sponda per completare il piano del viaggio perché sia sicuro. Il cammino, infatti, deve essere inclusivo perché sono in tanti a compierlo. Occorre sviluppare quel senso di un destino comune che unisce con legami invisibili tutti gli esseri. È questa interdipendenza concreta fra tutti gli esseri umani che sarà capace di svelarci nuove possibilità per affrontare i rischi e le incertezze di quest’epoca.

 

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mercoledì 25 agosto 2021

VIVERE SENZA PAURA NELL'ETA' DELL'INCERTEZZA


 

È possibile solo se il nostro cuor è pieno di qualcuno

L’autore commenta il dialogo tra J. Carrón, C. Taylor e R. Williams avvenuto  al Meeting

 - di Eugenio Mazzarella 

 “Vivere senza paura nell’età dell’incertezza” è stato il tema e il titolo del coinvolgente dialogo, moderato da Monica Maggioni, cui hanno dato vita, nella cornice del Meeting, Julián Carrón, docente di teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione; Charles Taylor, professore emerito di filosofia alla McGill University, Montreal, vincitore del Premio Ratzinger 2019; e Rowan Williams, professore emerito di pensiero cristiano contemporaneo, alla University of Cambridge, già arcivescovo di Canterbury. Ma più che tre illustri pensatori, come ci dicono queste note biografiche, chi li ha ascoltati ha ascoltato tre uomini, che, senza conoscersi, hanno speso una vita a sforzarsi di non sbagliare le domande: su sé stessi, sulla vita, sul loro tempo. 
A non mettere da parte, nel mondo conclamato dell’homo faber che è il nostro mondo, la domanda di senso dell’umano e sull’umano. In buona sostanza il filo conduttore della domanda religiosa, del senso religioso, che come ha insegnato don Giussani, intride l’anima, la coscienza di ogni uomo, anche di chi quella domanda fugge. A loro che a questa domanda – che è una domanda non facile: chi si fa abitare da questa domanda, deve accettare di fare entrare in casa sua, dentro di sé, avere sul tavolo di gioco di ogni giorno lo scacco del male e della morte, e tuttavia continuare a dare le carte del gioco della vita – non sono fuggiti, Monica Maggioni ha chiesto se innanzi tutto si può davvero vivere senza paura nell’età dell’incertezza che viviamo. 
Un’incertezza che in un mondo scristianizzato, secolarizzato, dove non siamo più “educati”, cioè tirati fuori da noi, alla fiducia in Dio (Taylor), dove il nemico che ci disarma prima ancora di ogni difficoltà è la “divisione” da Dio (Williams), tanto da mettere a repentaglio la stessa lealtà dell’umano verso se stesso, la lealtà di accettare la sfida dell’irriducibilità ultima della persona (Carrón), ci mette di fronte a una scelta: o la “paralisi” difensiva nell’io, che arma (spesso tragicamente anche in senso letterale) ogni egoismo (singolo e collettivo), ovvero scegliere le reti fiduciali della relazione umana a reggere le sfide ineludibili dell’evidenza – nella paura – dell’insufficienza del Sapiens alle sfide del mondo; che “il sapere (la techne) è di molto più debole della necessità” (Eschilo, Prometeo; detto attribuito dalla tradizione a Prometeo, che fa di lui il primo filosofo, e non solo il primo tecnologo). Di questa “debolezza” strutturale dell’umano, abbiamo capito ancora qualcosa nell’ultima sua “congiuntura” storica ed esistenziale: la pandemia. Ma a queste reti fiduciali è fondamentalmente affidarsi, sul modello di un bambino impaurito che si rifugia tra le braccia della madre, al maternage creaturale del divino “sentito” dalla coscienza religiosa. Alla fede in Qualcosa che è più forte di noi che ci sta accanto. Per i cristiani questo maternage divino ha il volto e la parola rasserenanti di Cristo che ci parla nella barca in tempesta della vita (Carrón). 
 In buona sostanza alla domanda della Maggioni, Carron, Taylor, Williams, hanno risposto nello stesso senso: nell’età dell’incertezza si può vivere senza paura, senza paralizzarsi nella paura (che è un frenetico attivismo difensivo di sé, che ci rende ciechi alle ragioni degli altri), se ci affidiamo a una certezza creduta: credere non riempie la testa, ma il cuore sì, e solo un cuore pieno della fede in qualcosa o qualcuno ti fa reggere anche una testa piena di dubbi. È un’evidenza elementare dell’esperienza. I cristiani l’hanno declinata credendo in Qualcuno (Cristo) in cui si raccoglie ogni qualcosa del mondo, anche quel qualcosa che noi siamo. Una declinazione antropologica dell’esperienza che noi cristiani dovremmo saper vedere, e forse rivendicare, come la scelta migliore, perché è la scelta dell’inclusione di tutti e tutto nel Cuore divino che regge il mondo. Una scelta che fondamentalmente resta l’unica alternativa allo scambio proposto e perorato dal Grande Inquisitore tra le sicurezze del Potere e l’esposizione alla pienezza della vita, nel suo bene e nel suo male, della “libertà” del cristiano, sostenibile solo in Cristo e con Cristo. Una seduzione, però insincera, perché il Potere è sempre in sé un abbandono della tua verità. Nella “libertà” cristiana è antropologicamente cifrata la barca del principium individuationis, ciò che fa umano l’umano. 
Una barca che per tenere il mare ha bisogno del governo del Maestro interiore; e non può essere tirata a secco sulla riva, perché significa tirarla fuori dalla vita, dalla sua vera libertà di navigarsi, di liberare nel mondo, nell’essere, qualcosa o qualcuno che continui la creazione iniziata da un Altro. In questo dialogo che si è potuto ascoltare il punto che non rasserena è proprio la scristianizzazione in essere nell’età dell’incertezza. Per due motivi: perché riguarda noi, la civilizzazione cristiana, e minando il fondamento creduto della nostra fede, Cristo, e quel che ci ha detto, ci rende i più incerti tra gli incerti nel mondo della globalizzazione che avanza; e perché riguarda gli altri, cioè la debolezza della nostra testimonianza alle altre civilizzazioni, per quel che potremmo dare come seme, se non di fede, di riflessività umana alla loro (a noi comune) umanità. Ma questo chiederebbe un altro dialogo.

giovedì 27 agosto 2020

SCUOLA. PRECARIETÀ PERMANENTE


INCERTEZZA 

CHE VIENE DA LONTANO

di ALESSANDRO ZACCURI

Passano i giorni, la data del 14 settembre si avvicina, non diminuisce l’incertezza su quello che, da qui a qualche settimana, avverrà o non avverrà nelle scuole italiane. Si tratta di una sensazione ben nota a studenti e famiglie, a insegnanti e dirigenti. Non da oggi, e neppure da ieri, da quando cioè l’emergenza sanitaria scatenata dal Covid-19 ha fatto spuntare le ruote ai banchi, reso dinamiche le unità di misura e aperto il dibattito sull’obbligo di indossare le mascherine chirurgiche in classe. Sono almeno vent’anni, infatti, che la scuola italiana è diventata imprevedibile e non di rado imperscrutabile, inducendo un’assuefazione al contrordine che dispensa ormai dalla conoscenza dell’ordine in via di smentita.
Si cambia di continuo e sempre per un buon motivo, d’accordo: sempre per tenersi al passo con i tempi, per accettare una sfida, per essere competitivi e aggiornati. È una frenesia forse indotta dal passaggio di millennio, è il rincorrersi di riforme che ogni volta sembrano prescindere dalle decisioni prese solo qualche anno prima. Una colossale impresa bipartisan, nel senso che ognuno dei Governi succedutisi negli ultimi due decenni l’ha rivendicata e fatta propria, poco o nulla recependo di quanto era stato stabilito dal Governo precedente.
Quante volte, per esempio, è cambiato l’esame di maturità? Anche ad anno scolastico già avviato, come sappiamo, con il conseguente riconteggio dei crediti scolastici, con le ambiguità pressoché inestricabili nel rapporto con il mondo del lavoro (lo stage, l’alternanza), con le stesse prove d’esame continuamente rimesse a punto, rimodulate e sempre migliorate, si capisce. Perché ogni riformina è la migliore possibile, guardiamo avanti e non pensiamoci più. Fino alla prossima correzione di rotta, fino al prossimo provvedimento quasi definitivo. C’è poco da fare gli spiritosi, si dirà: la scuola è una priorità, va presa seriamente. Ora, 'priorità' è parola impegnativa, la si sente ripetere spesso anche in questi giorni, con il rischio che da una ripetizione all’altra della parola resti solo il suono e vada perduto il significato.
Così come è accaduto dal 2000 in poi, o da un po’ prima, in realtà, se si considera che le basi della poi riformatissima riforma Berlinguer risalgono al 1997. Appena insediato, ogni esecutivo annunciava l’intenzione irrevocabile di mettere mano alla scuola e, il più delle volte, si affrettava a mantenere la promessa. Fatte salve le motivazioni ideali, non era difficile intuire l’ombra di una qualche opportunità politica, magari nella direzione del rafforzamento o allargamento del bacino elettorale.
Niente di male, se tutti questi entusiasmi prioritari avessero prodotto un’edilizia scolastica più sicura o un precariato meno umiliante e aleatorio (la formazione dei docenti, com’è noto, è stata a sua volta caratterizzata da norme e procedure contraddittorie).
Purtroppo, però, non sono questi i risultati ottenuti. Per riassumere la situazione in un’immagine, basta considerare un semplice dato di fatto: non esiste oggi un cittadino italiano ventenne – poco più o poco meno – che abbia concluso il suo iter formativo così come lo aveva intrapreso al momento dell’ingresso nella scuola primaria. Non era una pretesa eccessiva, nonostante molto là fuori stesse cambiando. Anzi, la radicalità stessa delle trasformazioni in atto avrebbe dovuto indurre ad adottare una strategia il più possibile condivisa, alla quale si è preferito un tatticismo estemporaneo la cui estrema conseguenza è rappresentata dalla confusione di cui siamo spettatori in questi giorni.
L e responsabilità dell’attuale Governo sono fuori discussione e non risultano affatto attenuate dal senso di abnegazione abbondantemente dimostrato dalla stragrande maggioranza degli insegnanti già durante i mesi del lockdown. A loro, così come alle famiglie e – in primo luogo – agli studenti, adesso vanno date risposte chiare e indicazioni certe. Questa non è più una priorità: questo è un allarme.





sabato 14 dicembre 2019

ITALIANI, OLTRE IL VITTIMISMO

L’analisi del Censis,

 i punti di ripartenza
È utile tornare sul Rapporto Censis 2019, dossier che ci aiuta a leggere l’evolu zione del nostro Paese. Di fronte alla crisi economica, ma non solo, di questi anni gli italiani – come ha sottolineato su 'Avvenire' Alessia Guerrieri – hanno messo in campo «una risposta individuale». È a tutti evidente che tra gli italiani, incerti sul futuro, delusi dalla politica, consapevoli della crisi demografica, intossicati dalle percezioni che diventano verità sui social e sui mass media, presi da un’ansia spesso senza nome, si è rafforzata l’antica tendenza a guardare al proprio 'particulare', a puntare – per usare le parole del Rapporto – alla «solitaria difesa di se stessi».
L’Italia del 2019 appare sfiduciata sulla possibilità di un miglioramento per sé e per la società nel suo complesso: «Il 69% degli italiani è convinto che la mobilità sociale sia bloccata». Secondo il 74% «l’economia continuerà a oscillare tra mini-crescita e stagnazione», mentre il restante 26% è certo che sia in arrivo «una nuova recessione». Davanti a un tale scenario, forte è la tentazione di contare solo «sulle proprie forze», di architettare «stratagemmi individuali per difendersi dalla scomparsa del futuro». Eppure, una tale narrazione non spiega del tutto alcuni dati in controtendenza. E non mi riferisco soltanto alle «piastre di sostegno» e ai «muretti di pietra a secco» che, per il Rapporto, permettono di puntellare il terreno del benessere
e preservare la tenuta della convivenza sociale.
È interessante sottolineare il tentativo di ricostruzione del tessuto connettivo a partire da una nuova relazionalità, nonché da un più marcato investimento sulla cultura: gli italiani che hanno visitato monumenti o siti archeologici sono aumentati del 31,1% negli ultimi dieci anni, quelli che sono entrati in un museo del 14%, quelli che prestano «attività gratuite in associazioni di volontariato» del 19,7%.
C’è anche una success story: quella dell’integrazione in Italia dei non italiani di nascita. Le imprese straniere «sono enormemente cresciute anche negli anni della crisi», e mentre gli imprenditori nostrani «diminuivano del 16,3%, quelli stranieri sono aumentati del 48,4% (quelli extracomunitari del 57,6%)». E ancora: se nelle nostre scuole gli alunni di origine straniera non sono certo pochi (857.729, dato 2018), gli strumenti messi in campo in questi anni si sono rivelati tanto utili «che si registra un miglioramento dei tassi di scolarità, regolarità negli studi e successo formativo». Il dato è ancora più interessante se si pensa al ritardo con cui si aspetta una legge sulla cittadinanza basata sullo ius culturae e la retorica negativa, rivendicativa, repulsiva e vittimistica con cui viene avvolto deliberatamente quasi ogni discorso sull’immigrazione-invasione e sul ruolo degli immigrati in Italia.
Viviamo insomma – ma ormai dovremmo esserci abituati – in un Paese complesso e contraddittorio, in cui il «furore di vivere» di cui parla il Rapporto è insieme fattore d’ordine e di disordine. Disordine che è prima di tutto nell’umore, nei comportamenti. Il segretario generale del Censis Giorgio De Rita, dice che «l’errore della politica è stato quello di non essere stata capace di decidere». Ma gli italiani lo sono stati in questi anni? Ci sono segnali allarmanti: il dilagare di disturbi di varia natura, la crescita della sfiducia e del contenzioso, la ricerca di una compensazione emotiva in quello specchio di sé che è lo smartphone: «Il 74% degli italiani si è sentito molto stressato per questioni familiari, per il lavoro o senza un motivo preciso; nel giro di tre anni il consumo di ansiolitici e sedativi è aumentato del 23%; il 75% non si fida più degli altri; il 49% ha subito nel corso dell’anno insulti o spintoni in un luogo pubblico; il 26% ha litigato con qualcuno
per strada; più di un italiano su due controlla il telefono come primo gesto al mattino o l’ultima attività della sera».
Il quadro Censis è, così, in chiaroscuro. E riflette il nostro disordine, o forse meglio il nostro spaesamento nel mondo globale. Vi è raffigurato un Paese che ha vissuto delle difficoltà e si è ritratto in sé stesso, finendo così per aggravare le proprie condizioni. Le potenzialità che comunque l’Italia esprime – e in questo i 'nuovi italiani' sono generalmente un fattore positivo – potrebbero incamminarla verso un futuro differente. Se solo accettasse di fare i conti con il proprio vittimismo e riconoscesse che esso è il grande freno a ogni scatto verso un orizzonte meno incerto o meno cupo.




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giovedì 16 agosto 2018

"SE DIO VORRA'! LA LAMA AGUZZA (PADRONI DI NIENTE)

La tragedia di Genova. 
La prospettiva degli uomini

«Oddio, oddio, oddio, Dio santo... ». La voce registrata in un video di un uomo che vedeva crollare davanti a sé il Ponte Morandi sale a ogni sillaba di tono, inorridita e incredula. Non è possibile – pare di sentire i pensieri dell’uomo – deve essere un incubo. Non può, un colosso di cemento armato e acciaio come quello, spezzarsi come un pezzo di gesso su una lavagna e lasciare due monconi sospesi sul vuoto, e, sotto, macerie immani, su cui i soccorritori si arrampicano, affannate febbrili formiche.
Genova, l’apocalisse sull’autostrada, almeno ventisei morti alle undici e trentasette di una vigilia di Ferragosto.
A pochi giorni dalla terribile esplosione di un’autocisterna sulla A14, nei pressi di Bologna, dal divampare violentissimo e improvviso di fiamme che solo per una grazia non hanno mietuto molte vittime. L’apocalisse su strade familiari, che tante volte abbiamo percorso con il solo fastidio del traffico intenso, o della coda alla cassa all’autogrill; e non si tratta, poi, di attentati, ma di un attimo appena di distrazione di un autista, forse, a Bologna, o, a Genova, dell’incredibile cedimento di un pilastro di cemento armato che era lì, apparentemente indistruttibile, da decenni.
Allora in noi che stiamo a guardare può sorgere interiormente un oscuro spavento. Perché ogni giorno progettiamo, disponiamo, parliamo come fossimo i sicuri padroni della nostra vita. Ma in un momento simili eventi – così vicini, così tragici – ci contraddicono duramente.
Forse in verità noi non ci apparteniamo. Come non ci appartengono i nostri figli, su cui vegliamo, che in ogni modo vorremmo proteggere. Nulla è nostro davvero.
In questi giorni d’estate proprio quei figli sono in viaggio tra autostrade e ferrovie. Li salutano i genitori alla partenza, e quasi sempre c’è nel cuore delle madri un angolo segreto di trepidazione. I padri, che sono uomini, ne sorridono. Ma forse nella natura femminile c’è un’intuizione vera, nel saperci in fondo fragili e inermi – e garantiti, in realtà, di niente.
Ritorneremo, fra pochi giorni, dalle vacanze. E magari nel superare un’autocisterna carica di infiammabili una ruga sottile ci incresperà la fronte; e magari dall’alto di un viadotto vertiginoso sull’Appennino ci torneranno negli occhi le immagini di Genova, e noi a scacciarle, rapidi, ad alzare lesti il volume di una radio che discorre di rassicuranti banalità. Nella lingua che molti di noi sono abituati a parlare: vacanze, soldi, star, tv, pallone. Quasi non volendo sentire altro.
L’incidente di Bologna, la strage di Genova sono come una lama aguzza nel nostro quieto vivere, proprio perché così prossime, domestiche, eppure imprevedibili. Evocano il timore di un caso maligno che ci stia a spiare e faccia scattare la sua tagliola; mentre quel camion bianco sul Ponte Morandi si è fermato a trenta centimetri dal baratro, intatto, chissà perché.
Riscoprirsi cristiani davanti alle immagini di Genova devastata – e al commovente spettacolo dei soccorritori tesi a cogliere ogni fiato di voce delle vittime dalle macerie – è anche fermarsi e ricordarsi che non siamo in un labirinto cieco, ma dentro un disegno, anche se spesso quel disegno ci risulta profondamente misterioso, o addirittura intollerabile.
Riscoprirsi cristiani davanti a una sciagura come questa è anche far memoria ogni mattina che questa vita ci è stata data, non è nostra, e la renderemo. Una consapevolezza ferma e in pace che non sempre cancella, ma doma almeno la paura dell’imprevedibile, del Caso, delle Parche che secondo gli antichi capricciosamente traevano il filo della umana esistenza.
Ricordo un’anziana albergatrice sarda – ormai quasi solo i vecchi sanno parlare in un certo modo – che al mio saluto, a settembre: «Arrivederci all’anno prossimo», rispose con un sorriso mite: «Se Dio vuole, ci rivedremo». Se Dio vuole. Occorre fidarsi di un Dio che ci conosce, uno per uno. E non dar retta a chi invece ci millanta padroni e signori del nostro destino. Perché, in realtà, non siamo padroni di niente.

da "  www.avvenire.it  " 


venerdì 7 aprile 2017

NATI LIQUIDI - Bauman dialoga con un giovane



L'ultima opera del più grande pensatore contemporaneo, il testo a cui stava lavorando prima della morte. Un dialogo con un giovane e sui giovani che appartengono a una società in continuo mutamento.


Questa è l'ultima opera di un'icona della cultura che ha goduto di un'immensa popolarità, grazie alla sua capacità di parlare a tutti con un linguaggio comprensibile e al tempo stesso mai riduttivo.

 Lo studioso che ha spiegato la postmodernità attraverso l'illuminante immagine di una «società liquida» che ha abbandonato la comunità per l'individualismo, convinta che il cambiamento è l'unica cosa permanente e che l'incertezza è l'unica certezza. 

Queste sono le pagine a cui al momento della morte Zygmunt Bauman stava lavorando. 

Un dialogo con un giovane che ha esattamente sessant'anni meno di lui...

Ed. Sperling & Kupfer  - 108 p., rilegato
Prezzo di copertina: 14,00 €