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lunedì 12 febbraio 2024

COS''E' IL CRISTIANESIMO ?

 I risultati della sesta Ricerca sull’appartenenza ecclesiale in Germania hanno suscitato un’accesissima discussione. Alcuni ritengono che non solo l’appartenenza ecclesiale, bensì la “religione” in quanto tale sia in caduta libera; altri sostengono invece che non è vero che la religione regredisce: essa modifica, invece, le proprie forme di manifestazione. Ma dunque, in questo dibattito, che cos’è (e cosa non è) il Cristianesimo?

-di Fulvio Ferrario*

I risultati della sesta Ricerca sull’appartenenza ecclesiale (Kirchenmitglieds chaftsuntersuchung, in sigla Kmu) in Germania hanno suscitato un’accesissima discussione. La cosa potrebbe stupire, visto che il dato principale non è certo nuovo: crollo verticale del numero dei membri della chiesa cattolica e di quella evangelica.

 Addirittura, una percentuale consistente di quanti risultano ancora appartenere a una Chiesa, e pagano le relative tasse (che in Germania costituiscono il canale di finanziamento delle due chiese maggiori), esprime un marcato disinteresse per la dimensione della fede e dunque è praticamente sicuro che gli elenchi ufficiali dimagriranno ancora.

Religione o religiosità ?

Allora, il dibattito riguarda un ulteriore esito dell’inchiesta: sembra cioè che non solo l’appartenenza ecclesiale, bensì la “religione” in quanto tale, intesa come interesse per la dimensione della trascendenza, sia in caduta libera. La famosa secolarizzazione, insomma, lungi dall’essere tramontata, come sostengono i profeti e le profetesse della “postsecolarità”, sarebbe, almeno in Europa, in impetuosa avanzata.

 Tale diagnosi è tuttavia contestata con veemenza da quanti sostengono che la ricerca utilizza i termini “religione” e “religiosità” in senso troppo angusto ed ecclesiastico. Non è vero, affermano costoro, che la religione regredisce: essa modifica, invece, le proprie forme di manifestazione.

 Se prima si esprimeva andando in chiesa, oggi può farlo mediante una passeggiata nel bosco alla ricerca dell’armonia cosmica o di un semplice star bene con sé stessi, oppure nel sorseggiare una tisana in una stanza illuminata da candele e profumata mediante qualche essenza. Alla teoria della secolarizzazione si oppone quella dell’“individualizzazione” delle modalità espressive della religione.

 La domanda, però, resta: come mai una discussione socio-religiosa, per quanto interessante, agita gli animi? Perché ognuna delle due tesi determina un’idea di riforma della chiesa, almeno di quella evangelica (quella cattolica celebra sinodi ma, com’è noto, decide in altra sede).

Secolarizzazione o individualizzazione ?

Semplificando, la situazione è la seguente: chi sostiene la tesi della secolarizzazione immagina per il futuro una chiesa fortemente minoritaria, più consapevole, in grado di rendere una testimonianza in controtendenza nella società. Dunque formazione, catechesi, enfasi sulla liturgia, per quanto rinnovata, impegno sociale eccetera.

 Chi, invece, sostiene la teoria dell’individualizzazione vorrebbe una chiesa che sappia interpretare e custodire la “nuova” religiosità: se la predicazione non comunica più, passiamo alla seduta di autocoscienza, alla composizione di poesie in gruppo, magari anche al canto gregoriano, inteso in senso terapeutico.

 Qualcuno ha osservato che la fede cristiana e i suoi contenuti sono definiti dalla Scrittura, così com’è letta nella Chiesa, e non dalle inchieste sociologiche, ma altri obiettano che questo è un modo di ragionare dottrinario e di solito lo qualificano come «ennesima riedizione della teologia dialettica» (cioè derivata da Karl Barth) o simili. A dire il vero, un tipo come Adolf von Harnack, non esattamente “barthiano”, poteva iniziare un suo fortunato libretto con la domanda: «Che cos’è [e dunque: che cosa non è] il Cristianesimo?». Ciò però non sembra impressionare i fautori e le fautrici di un cristianesimo “liquido” o addirittura nebulizzato.

 Naturalmente, né la teoria della secolarizzazione, né quella dell’individualizzazione sussistono allo stato puro, ognuna di esse non potrà non tener conto di elementi di verità presenti nell’altra e lo stesso vale per la visione della chiesa e della pastorale che ne deriva. Nell’insieme, però, si tratta di una vera e propria alternativa, apparentemente sociologica, ma che in realtà oppone due modi di comprendere la Chiesa, la pastorale e, in ultima analisi, la fede stessa.

 

Alzogliocchiversoilcielo

giovedì 26 maggio 2022

STUPIDI o PIU' LIBERI?

Siamo entrati 

nella Supersocietà 

 

Una riflessione sul passaggio dal modello della globalizzazione a un’integrazione che non è lineare


Gli choc che si ripetono dicono che la libertà consumeristica non basta più, si deve andare oltre. Dopo gli anni dell'io e della concorrenza, è il tempo del noi e della collaborazione.

Il superamento di quello che per decenni è stato il modello culturale egemone richiede un massiccio investimento nell’educazione, nelle organizzazioni, nei territori È necessario uno sguardo 'farmacologico' nei confronti della leva tecnologica, senza mai dimenticare che è curativa e tossica allo stesso tempo.

Dopo la pandemia, la guerra. La serie ormai nutrita di shock globali – siamo al quarto in ventuno anni (Torri Gemelle, Lehman Brothers, coronavirus, Ucraina-Russia) – dovrebbe convincerci che la stagione della globalizzazione, inaugurata dalla caduta del muro di Berlino, è definitivamente tramontata. Siamo oltre la modernità liquida: è arrivato il momento di fare i conti con gli effetti entropici del modello di sviluppo che ha dominato il passaggio di secolo. Il cambiamento è accelerato: la questione della transizione ecologica – percepita finalmente come rilevante da larga parte dell’opinione pubblica – si incrocia con una digitalizzazione ormai già avanzata, mentre è l’intero quadro geopolitico planetario a essere in fibrillazione. Così oggi si deve far quadrare il cerchio: governare gli esiti di una pandemia che non si lascia debellare e allo stesso tempo ripensare il senso dello sviluppo, nel quadro del paradigma tecnico digitale e del delicato processo di costruzione di un nuovo ordine mondiale. Un attraversamento per nulla sicuro: aperto nella direzione, incerto nei risultati, difficile nei passaggi. Con opportunità straordinarie e rischi altrettanto ingenti.

Di fronte ai nuovi, ardui problemi da risolvere, l’organizzazione sociale, ormai planetaria, è chiamata a rispondere con un aumento di complessità. Stiamo entrando nella super società, un inedito intreccio tra processi già in corso da tempo, che si caratterizza per la convergenza di tre dimensioni: la stringente interdipendenza tecno-economica su scala globale; il nesso inestricabile tra azione umana e biosfera; l’assorbimento sempre più spinto della soggettività nel processo di autoproduzione sociale.

A differenza della globalizzazione (e delle sue narrazioni), la super società non origina un processo uniforme, bensì una integrazione non lineare che, mentre spinge verso una maggiore verticalizzazione, aumenta le disuguaglianze e apre nuovi conflitti. Non un assetto univoco né rigido, ma una nuova cornice per interpretare le dinamiche del tempo che stiamo cominciando a vivere. Superata la fase dell’espansione planetaria, ci troviamo davanti a una biforcazione. I due principali vettori del cambiamento, sostenibilità e digitalizzazione, ruotano infatti attorno a un’ambivalenza di fondo: ci porteranno verso un mondo distopico, centralizzato e burocratizzato, verso una 'stupidità di massa' dove la libertà personale è confinata al puro spazio del divertimento? Oppure apriranno la via per una società più desiderabile, dove la libertà sarà ancora l’elemento cardine per tenere insieme sviluppo economico e democrazia?

Una domanda che diventa ancora più pressante se si allarga lo sguardo alla situazione mondiale, dove gli equilibri tra democrazia e autocrazia, che dopo il 1989 tendevano decisamente verso il primo polo, oggi sembrano subire l’attrazione fatale dei modelli che non amano la libertà. Il destino della super-società è dunque apertissimo: occasione per un passo in avanti, a partire dal riconoscimento della costitutiva relazionalità della vita o per una regressione dentro una spirale di verticalizzazione, conflitto, esclusione? Per l’Occidente, in particolare, si prospetta una vera e propria scelta di civiltà: decidere, ancora una volta, che è la libertà – e con essa la democrazia e l’iniziativa personale, il pluralismo, la sussidiarietà, la solidarietà, la pace – la carta vincente per affrontare le nuove sfide della fase post-pandemica. Una scelta tutt’altro che scontata e a costo zero: solo sovrainvestendo sulle persone e la qualità delle nostre relazioni personali e istituzionali possiamo pensare di farcela. Non in astratto, ma molto concretamente, con un massiccio e consapevole investimento nell’educazione, nelle organizzazioni, nei territori.

La successione degli shock sollecita il superamento dell’'individualismo dell’individualizzazione' che per diversi decenni è stato il modello culturale egemone. Che vogliamo riconoscerlo o no, la libertà consumeristica non basta più. La super società ci chiede di andare oltre. Semplicemente perché, nel bene e nel male, siamo tutti legati: tra di noi e con l’ambiente, a livello planetario. Non è affatto detto che ce la faremo. Ma risultati arriveranno se torneremo a interrogarci su quel bene inestimabile che è la libertà. Dopo gli anni dell’io e della concorrenza, per sfuggire alla rabbia e all’aggressività crescenti, viene il tempo del noi e della collaborazione. O meglio, di quello che Alexis de Tocqueville chiamava 'l’interesse bene inteso'. Dentro ogni singolo Paese e a livello internazionale. Proprio perché è una relazione, la libertà vive infatti di alleanze, legami, riconoscimenti: pubblico e privato, imprese e territorio, scuola e mondo del lavoro, innovazione e tradizione, scienza e religione, Occidente e Oriente.

Nel comune sforzo di aprire varchi nel 'tutto pieno' delle procedure, dei protocolli, delle regolazioni. Di contrastare le nuove forme di dominio e di odio violento. Di comprendere meglio l’intreccio delle interdipendenze entro cui si dà la vita sul pianeta. Di combattere le fratture sociali e le disuguaglianze. Di prevenire, o almeno contenere, i potenti venti di guerra che soffiano in tante parti del mondo, e che oggi investono pericolosamente la stessa Europa. Di allestire spazi contributivi non ancora saturi e capaci di ospitare azioni capaci di dialogo con la realtà che cambia in continuazione. P er procedere in questa direzione occorre uno sguardo 'farmacologico' nei confronti di quella leva straordinaria che è la tecnologia, necessaria per ogni realistico percorso di transizione. Senza mai dimenticare, però, che la tecnologia è curativa e tossica allo stesso tempo. Mentre potenzia, indebolisce. Per quanto essenziale, la tecnologia da sola non ci salverà. Quanto mai necessaria, essa non è però sufficiente per realizzare i cambiamenti che ci servono. E tantomeno per costituire un orizzonte di senso condiviso che li renda possibili. Per scongiurare le spinte distopiche che la attraversano, la super società ha dunque bisogno di una nuova epistemologia, che la liberi dal mantello di ferro di una ragione ridotta a calcolo. Accanto ai superpoteri dell’intelligenza artificiale serve potenziare il sapere concreto dell’intelligenza umana diffusa: fatta di errori e fallimenti, ma anche di comprensione dei problemi, di condivisione delle prospettive, di concretezza delle soluzioni. Un’intelligenza vivente, non sclerotica, dialogante, non ingabbiata dalle procedure e invece capace di orientarle e sottoporle a critica. Un’intelligenza libera. E cioè in relazione. Nella rete di una responsabilità condivisa, nella direzione di un avvenire che ancora non c’è ma verso cui possiamo tendere insieme.

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 www.avvenire.it


Giaccardi e Magatti, SUPERSOCIETA' - Il Mulino, pagg. 240, 16 euro