Visualizzazione post con etichetta paideia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta paideia. Mostra tutti i post

sabato 18 maggio 2024

ALLA RICERCA DI UNA NUOVA PAIDEIA


 Nel tempo 

della grande complessità



 Pubblichiamo ampi stralci della Lectio doctoralis del professor Mauro Ceruti pronunciata in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte dell’Università di Foggia il 16 maggio scorso.

 Per la prima volta la fraternità si definisce in un orizzonte “concretamente universale”. Nessuno si può salvare da solo Siamo tutti sulla stessa barca, la Terra

Stiamo scoprendo di abitare un mondo indisponibile, che resiste al nostro progetto di dominio. E che diventa sempre più incontrollabile

Dobbiamo indossare occhiali diversi e rigenerare il pensiero, oltre la crisi cognitiva: le conoscenze non possono più essere separate, c’è un legame irriducibile tra tutte le cose

 

-         di MAURO CERUTI

  Già negli anni Novanta del secolo scorso, a dispetto di chi profetizzava la fine della Storia, mi pareva urgente riconoscere che eravamo entrati in un’età di crisi, di rumore e furore, di progressi e di regressi, e anche, correlativamente, nel giro di boa dei cinque secoli di planetarizzazione dell’umanità, con la tessitura di una sempre più stretta interdipendenza. In modo ineludibile, la sfida della complessità emergeva dal passaggio d'Epoca che sconvolgeva il nostro tempo. Oggi sta emergendo una nuova condizione umana, attraverso un inedito e simultaneo aumento di potenza tecnologica e di interdipendenza planetaria. Nel mondo globale tutto è connesso, tutto è interdipendente con tutto. In una circolarità continua, in cui tutto è sia causa che effetto.

È ciò che stiamo vivendo attraverso le crisi globali (la pandemia, il riscaldamento globale, la guerra…), che ci rivelano la complessità del nostro mondo, in cui ogni evento locale può comportare conseguenze che si amplificano su scala globale, e in cui perciò tutto può cambiare in modi improvvisi, imprevedibili. Il “battito d’ali di una farfalla” nel cielo della regione di Wuhan, in Cina, può avere effetti importanti sul “tempo” che farà nel mondo intero, pochi giorni dopo… Un virus microscopico ha reso macroscopica la complessità, l’interdipendenza del mondo globale, la multidimensionalità, l’incertezza, l’intrico dei problemi. Il sipario sulla complessità si è rialzato. E, questa volta, non è stata solo l’esperienza di pochi scienziati in un laboratorio. La complessità traspare dall’esperienza delle faglie sistemiche del nostro mondo, che tutti stiamo facendo nella vita ordinaria e quotidiana. M a dobbiamo riconoscere qualcos’altro di ancora più radicalmente inedito. La rilevanza delle tecnologie aveva diffuso l’illusione che ci saremmo sempre più affrancati dalla natura. Non è stato così. Le società, certo, sono sempre più indipendenti dagli ecosistemi locali. Ma la sopravvivenza stessa dell’intera umanità rimane strettamente interdipendente all’interno di un “unico immenso ecosistema globale”. Nel momento della nostra massima potenza tecnologica, siamo portati a riconoscere che non siamo esterni al mondo che conosciamo, che abitiamo e su cui agiamo, ma che siamo una parte che interagisce con altre parti. Siamo entrati in una nuova era della storia della Terra, dai geologi definita Antropocene: la Terra è diventata un unico sistema dinamico complesso, autoregolato, con componenti fisiche, chimiche, biologiche e anche umane: perché l’umanità è diventata una grande forza della natura.

 A causa di questo “groviglio di inestricabile complessità”, è finita per sempre la possibilità di distinguere tra storia umana e storia naturale. E si riduce bruscamente la differenza di magnitudine tra la scala della storia umana e la scala temporale geochimica e geofisica, al punto di potersi invertire: il nostro ambiente potrebbe oggi cambiare più rapidamente della nostra cultura, peraltro proprio per l’impatto della nostra stessa cultura. Le “catastrofi” ricorrenti e improvvise legate al riscaldamento globale lo stanno manifestando. Scopriamo di abitare un mondo “indisponibile”, che inficia il progetto moderno di un dominio umano sempre maggiore: un mondo diventato indisponibile proprio per l’incremento esponenziale della quantità di informazioni prodotte e disponibili, nonché per l’intensificazione dei fenomeni di interazione e di retroazione, sul piano dei rapporti umani e sociali e sul piano dei nostri rapporti con la natura. Il progetto di controllo sul mondo ha incrementato l’incontrollabilità del mondo. Una possibilità segna oggi la nostra cultura: quella di riflettere sulla complessità dell’identità umana, composta di tante diversità, e sulla sua storia profonda. Non c’è stata “una” umanità. Ci sono state diverse umanità, diverse metamorfosi dell’umanità. La nostra umanità si trova nella soglia agonica di una nuova metamorfosi, resa necessaria dall’inedita possibilità di autosopprimersi. E la conoscenza delle metamorfosi passate ci è indispensabile per mettere a fuoco la metamorfosi presente. Oggi possiamo pensare che la chiave per comprendere e rigenerare la condizione umana è la sua incompiutezza. E incompiutezza significa che gli esiti futuri della condizione umana non sono inscritti di necessità in una qualche sua “essenza” definitiva. L’intero processo di ominazione, a partire dalle specie ominidi nostre antenate, si è compiuto in una specie incompiuta, Homo sapiens.

 La storia umana non è stata il dispiegamento di un destino già dato, bensì il teatro in cui si è svolta una creazione di possibilità, una creazione di nuove forme di umanità. Nella storia si sono succedute e intrecciate diverse forme di umanità.

 Abitare la complessità richiede la capacità di indossare “occhiali diversi”. Ed è sul terreno cruciale dell’educazione che si giocherà la partita per realizzare il cambiamento di paradigma che il nuovo tempo esige. È la sfida di una nuova Paideia. Dobbiamo innanzitutto prendere consapevolezza di una profonda crisi cognitiva. Questa crisi concerne la difficoltà di pensare la complessità del nostro mondo e del nostro tempo, in cui tutto è connesso. Infatti, viviamo un paradosso. Lo rivelano drammaticamente le crisi globali che stiamo vivendo. Più aumenta la complessità del nostro mondo, più aumenta la tentazione della semplificazione. Più la complessità si impone come sfida ineludibile alla nostra esperienza e alla nostra conoscenza, più essa tende a essere negata e rimossa. L a tendenza alla semplificazione ha radici storiche e culturali profonde nella nostra tradizione culturale. Questa tradizione ha cercato di conoscere le cose nella loro separazione: innanzitutto la separazione fra ciò che è umano e ciò che è naturale, tra noi e le cose che conosciamo, tra il soggetto e l’oggetto; poi la separazione delle cose dal loro contesto e la scomposizione delle cose in tante parti elementari, “semplici”; e infine la separazione del sapere stesso in tante discipline, sempre più chiuse ciascuna in se stessa e fra loro lontane. C osì, l’ostacolo alla formulazione stessa dei problemi complessi del nostro tempo si annida proprio nel modo in cui la conoscenza è prodotta, organizzata e trasmessa. Continuano a essere separate conoscenze che dovrebbero essere interconnesse, perché interconnessi e non separabili sono i molteplici aspetti dei problemi da formulare e da affrontare. Si isolano singoli aspetti di un problema complesso, e si conferma l’illusione di poterli affrontare separatamente con semplici soluzioni tecniche. Le soluzioni cercate e proposte sono dunque il più delle volte, esse stesse, parte e causa del problema. I modi di pensare che utilizziamo per trovare soluzioni alle crisi, come ai problemi più gravi della nostra età globale, costituiscono, essi stessi, uno dei problemi più gravi che dobbiamo affrontare. Perché sono modi di pensare che frazionano ciò che nella realtà è intimamente connesso. P erciò, una nuova Paideia deve volgersi a rigenerare il pensiero, laddove il progresso delle conoscenze nei binari della parcellizzazione suscita una regressione del pensiero stesso, che rischia di fossilizzarsi nell’esercizio “automatico” delle mansioni o delle tecniche di gestione. Ed ecco perché è ancora più preoccupante che da questa regressione e semplificazione del pensiero oggi possano essere investite proprio la scuola, e proprio la pedagogia. La complessità della condizione umana globale ci sfida a generare una Paideia che contenga in sé il senso dell’irriducibile legame di ogni cosa con ogni cosa. Una Paideia che aiuti a comprendere che sapere è entrare nel movimento delle cose, nel gioco dei vincoli e delle possibilità che le generano e le trasformano; che sapere non è tenersi a distanza da ciò che si sa e scomporre ciò che si sa, ma preservare ciò che si sa nei suoi intrecci multipli; che sapere è favorire la presa di coscienza dell’irriducibile interconnessione dei saperi, interconnessione che corrisponde già alla complessità del mondo. Una Paideia coerente con la visione della relazione cosmo- antropologica in cui l’uomo non è separabile dalla natura, ma riconosciuto come parte integrante di un processo complesso di co-evoluzione. Una Paideia che fornisca la consapevolezza adeguata a concepire la scienza e la tecnica non come gli strumenti “prometeici” per un progresso meramente quantitativo, ma come gli strumenti per costruire un’alleanza con la natura, nella natura, e favorire il miglioramento sostenibile ed equo della condizione umana. Una Paideia che riconosca che la ricerca di un nostro rapporto coevolutivo con tutti gli attori del mondo, viventi e non viventi, è la precondizione per la nostra stessa sopravvivenza, e per la possibilità di delineare un futuro vivibile e fecondo. Una Paideia che riconosca l’indivisibilità della vita umana, da intendersi, allo stesso tempo, terrestre, biologica, psichica, sociale, culturale, spirituale. Una Paideia, infine, che riconosca l’indivisibilità e nello stesso tempo la pluralità dell’umanità.

 Oggi, per la prima volta nella storia dell’umanità, la fraternità si definisce in un orizzonte “concretamente universale”. Nessuno si può salvare da solo. Il progetto moderno di dominio della Terra e di emancipazione dalla Terra, per una eterogenesi dei fini, ci ha fatto tutti insieme riatterrare… Siamo sulla stessa barca, la Terra.

 www.avvenire.it

 

 

 

mercoledì 18 gennaio 2023

L'UMANESIMO, ANELITO UNIVERSALE

 È integrale e tomista l’umanesimo di Jaeger

 Conservare all’Umanesimo un anelito universale - come in san Tommaso e Dante - più ancora che una sollecitudine testuale, è compito primario, perché nessuna diligenza filologica invera da sola la dignitas del «te sovra te» sancito da Virgilio nella Commedia.

Con l’“Aquinas Lecture” del 1943 il classicista tedesco inaugurò l’interpretazione della lunga durata della “paideia” greca nel mondo cristiano. La tesi ribalta come aprioristica l’avversione alla Scolastica E trova consonanze in Maritain nell’idea della tragedia del pensiero moderno antropocentrico.

 La teologia platonica, rivolta al bene e al Tutto, dovrebbe sfociare nel riferimento a Ficino.  Lo studioso la riporta invece a san Tommaso

 - di CARLO OSSOLA

 L’Umanesimo nella Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis nasce su quella che fu la Waste Land della Teologia, esemplarmente illustrata nel Poliziano: «Nel Poliziano tutto è concorde e deciso; non ci è più lotta. Teologia, scolasticismo, simbolismo, il medio evo nelle sue forme e nel suo contenuto, di cui vedevi ancora la memoria prosaica nella laude e nei misteri, è un mondo in tutto estraneo alla sua cultura e al suo sentire. Quello è per lui la barbarie. E non ha bisogno di cacciarlo dalla sua anima: non ve lo trova» (capitolo XI: Le «Stanze» ). La nascita dell’Umanesimo per sottrazione alla teologia domina naturalmente anche la storiografia del mondo riformato, sin da Jacob Burckhardt, che osservava: «Lo scriver trattati sull’educazione dei principi, fin qui compito dei teologi, diventa ora naturalmente anche loro (degli umanisti nda) dominio. Enea Silvio, per esempio, stese per due giovani principi della casa d’Asburgo diffusi trattati sulla loro educazione ulteriore» (La civiltà del Rinascimento in Italia, 1860).

In un panorama storiografico così uniforme giunge come freccia acuminata l’Aquinas Lecture, nel 1943, di Werner Jaeger; iniziate nel 1937 su impulso dell’Aristotelian Society della Marquette University, queste lezioni avevano subito avuto un rilievo internazionale. Werner Jaeger (Lobberich, Renania, 1888 – Boston 1961) era allora professore a Harvard e direttore dell’Harvard Institute for classical Studies. Il suo immenso affresco Paideia. Die Formung des griechischen Menschen (19341945) si stava imponendo anche nel mondo anglosassone. Ma quella lezione, Humanism and Theology, non è ricapitolativa, bensì fondativa di una nuova visione sulla “lunga durata” della “paideia” greca nel mondo cristiano, che sarà coronata – più tardi – da due importanti volumi: The Theology of the early Greek philosophers (1948) e soprattutto: Early Christianity and Greek Paideia (1961), volume che si pone accanto al grande affresco di Hugo Rahner, Griechische Mythen in Christlicher Deutung (1945) quale segnale della profonda continuità “umanistica” tra mondo greco e mondo cristiano, tanto nella fioritura patristica che nelle reviviscenze medievali.

La forza della tesi di Jaeger risiede nel fatto che, sin da Paideia, il percorso dell’educazione filosofica si risolve in una «conversione» che l’autore non esita a marcare semanticamente in modo più netto che gli usi ordinari del termine: « La natura, dunque, dell’educazione filosofica è veramente “conversione” nel significato spaziale (“volgersi”, “voltarsi”) di “tutta l’anima” alla luce dell’idea del bene, cioè all’origine del Tutto». Ci aspetteremmo dunque, secondo tradizione, che tale riferimento alla «teologia platonica» trovi il suo naturale compimento nella tesi umanistica di Marsilio Ficino, Theologia Platonica de animorum immortalitate. Jaeger invece nella sua luminosa Aquinas Lecture punta decisamente su san Tommaso e sulla sintesi ch’egli produsse del pensiero aristotelico e platonico, ribaltando come aprioristica l’avversione degli umanisti alla Scolastica e alla teologia medievale. Eugenio Garin, un decennio più tardi, riprenderà quelle posizioni, citando spesso Jaeger, anche se non mostra di essere a conoscenza del saggio Umanesimo e teologia: « Il Medioevo amava i classici non meno del Rinascimento; Aristotele era sulla bocca di tutti, e forse meglio che nel Quattrocento; […] la valorizzazione dell’uomo era più potente e meditata in san Tommaso che non in Ficino; mentre naturalismo ed empietà - Machiavelli, Pomponazzi, Bruno - proprio là dove sembrano più arditi e più nuovi sono più vecchi e lontani: eredi più o meno consapevoli dell’alessandrinismo medievale» ( Medioevo e Rinascimento, 1954).

 La storia delle traduzioni di Humanism and Theology è un capitolo alto dell’itinerario delle meditazioni umanistiche del XX secolo: in Italia apparve nel 1958 per Corsia dei Servi, nella traduzione di Luciana Bulgheroni. Corsia dei Servi era un’associazione fondata da David M. Turoldo e Camillo De Piaz, Servi di Maria, poeta il primo, il cui Udii una voce: poesie era uscito con una Premessa di Giuseppe Un-garetti. Le edizioni Corsia dei Servi ebbero un ruolo importante di aggiornamento, impegnato, del cristianesimo lombardo e italiano e non stupisce trovarvi la conferenza di Jaeger, la quale – tuttavia – non sarebbe tornata all’attenzione europea, senza la traduzione, di un biennio precedente, del père Saffrey. L’opera dello studioso domenicano Henri-Dominique Saffrey (19212021) è imponente tanto sul versante critico che su quello delle traduzioni e edizioni di classici greci commentate, e continua l’alta lezione dell’altro Maestro domenicano di studi greci, André- Jean Festugière (1898-1982). La traduzione italiana di Humanism and Theology passò quasi inosservata, salvo un caldo elogio di Giuseppe Toffanin; e una non meno attenta lettura di don Giuseppe De Luca; egli si manifesta in un punto nodale degli studi sull’Umanesimo italiano. Carlo Dionisotti aveva appena pubblicato il Discorso sull’Umanesimo italiano, opuscolo ch’egli invia a Giuseppe De Luca, ricevendo una risposta tiepida: «ho letto due volte le tue pagine sull’umanesimo italiano – gli scriveva nel maggio del ’58 - ma, dovessi dire, non ti ci trovo. Tu sei altro uomo, ormai, da sostare su quei temi, anche per dirli superati. Conosci la conferenza di Jaeger tenuta nel 1943, su “Umanesimo e teologia”?» Quell’interrogativo: « Conosci la conferenza di Jaeger ?» vale ancor oggi, è anzi divenuto più urgente nell’isterilirsi delle ipotesi intorno a «una sintesi della cultura antica e dello spirito cristiano ». Citando nella parte finale del suo saggio l’Humanisme intégral di Jacques Maritain (1936), Jaeger sembra aderirvi, trovando in esso ciò ch’egli aveva cercato di definire come «terzo Umanesimo». Meditando sulla «tragedia dell’Umanesimo » moderno e antropocentrico, Maritain gli aveva infatti opposto la tradizione aristotelica e tomista, su un punto essenziale che rimarrà inalterato da Dante a Pico, il destino dell’uomo sovra- eminente la propria umanità: « Non proporre all’uomo che l’umano – osservava Aristotele – è tradire l’uomo e volere la sua sventura, perché attraverso la sua principale natura, che è lo spirito, l’uomo è chiamato a un destino più alto che una vita puramente umana» (Umanesimo integrale, Introduzione).

 Werner Jaeger Umanesimo e teologia , ed. Vita e Pensiero, pagine 112, euro 13,00),

www.avvenire.it