UN COLTELLO
A
PORTATA DI MANO
Nei
fatti di cronaca attuali, tormenta il ripetuto e cruento brillare di lame:
forbici, cacciaviti, coltelli, in mano a giovanissimi.
Possiamo fare qualcosa?
-di Alessandro D’Avenia
Mi
tormenta, nella cronaca recente, il ripetuto e cruento brillare di lame che
tagliano e forano corpi innocenti. Forbici, cacciaviti, coltelli che tolgono la
vita con crudeltà incomprensibile in mano a giovani che tutto sembrano tranne
che assassini spietati, eppure infieriscono sulla vita indifesa con
furore.
Se
fosse follia saremmo impauriti ma un po' sollevati (lo è il nostro cervello
quando cerca consolazione davanti all'ignoto), ma non è follia, queste lame non
rivelano casi psichiatrici ma una parte trascurata se non rimossa nella vita
personale e sociale.
Quando
un simbolo si impone all'attenzione generale è per rivelarci qualcosa di noi
stessi e del nostro rapporto con il mondo, dalle manifestazioni di finzione
come il Trono di spade, titolo dato proprio in Italia ai libri e alla serie tv
(Game of Thrones), in cui la spada è il segno di un mondo in cui tutto è
sottomesso alla sete di potere e alla violenza, per arrivare alla perturbante
realtà delle onnipresenti lame usate nei recenti assassinii perpetrati
soprattutto da giovani.
Viviamo
tempi taglienti, e a farne le spese sono spesso donne e bambini, vittime
sacrificali di Paura e Rabbia (di esistere senza un perché e un per chi), due
sentimenti che, in giovani incapaci di maneggiarli e disattivarli, producono un
feroce Risentimento contro la vita stessa. Schiere di risentiti non possono che
affilare le lame. Possiamo fare qualcosa? Vedo questo risentimento nei ragazzi.
La rabbia e la paura non accolte dagli adulti, fanno scivolare i ragazzi
nell'odio contro una vita in cui non ci si sente amati e chiamati, ma stretti e
costretti.
Non
abbiamo tempo e strumenti per ascoltare e disattivare il risentimento, e
tagliamo (altra lama) corto sulle questioni di fondo, non abbiamo quasi nulla
da dire sul perché valga la pena essere qui che non sia, di fatto, godere a
spese degli altri e del mondo. Non c'è gioia, non c'è tenerezza, tutto è
orrendo (dal latino «appuntito») e pauroso come l'estetica di Halloween. Di
fronte all'indifferenza, all'ipocrisia e al moralismo degli adulti, la rabbia e
la paura crescono, ed esplodono in risentimento (il genere musicale più diffuso
tra i ragazzi ne è la coerente colonna sonora). La mano impugna una lama e
perfora la vita innocente e, a caso o con premeditazione non importa, la fa a
pezzi, perché la vita è orrenda e l'altro una sua incarnazione.
Ho
notato che non sempre la lama si rivolge fuori ma volte si ripiega sul proprio
corpo auto-sacrificato e ferito per il senso di colpa («orrendo» sono io) o per
sentire il dolore in un punto anziché nell'anima, cioè dappertutto. Non è
l'arrotino ad affilare le lame ma il risentimento, lame forgiate da ciò che
dilania dentro.
Come
disarmare il risentimento? «Affilando» il pensiero, e il pensiero si affila
solo sulla mola del cuore, cioè quando pensare è «farsi carico», come quando
diciamo «ti penso».
Pensare
viene infatti dal latino «pesare»: pensare è soppesare, cioè sollevare ciò che
pesa sull'altro fino a schiacciarlo. E sull'altro pesano domande inespresse o
inascoltate, rabbia e paura. «Nessuno mi ascolta», «Ho questa rabbia che mi
divora», «Ho questa paura che mi paralizza» sento dire spesso ai ragazzi. Frasi
che traduco così: «Tu, adulto, non mi pensi. Non ami le mie ombre e io non
riesco a vedere la luce che le ha proiettate e che tu forse vedi».
Il
Joker del recente film mostra un doloroso autoritratto del giovane risentito
che spera di guarire da paura e rabbia grazie al fatto che qualcuno,
finalmente, sembra amarlo. Solo così può smettere di fingersi Joker, e
ritrovare il suo vero nome, che nessuno ricorda, Arthur.
In
questi anni ho conosciuto ragazzi senza nome, il cui risentimento, covato a
lungo, esplodeva poi in violenza verbale e psicologica: ferivano qualcuno in
maniera proporzionale a quanto erano feriti dentro. Ma perché rabbia e paura
non ristagnino nel cuore, bisogna aprire un varco, serve che qualcuno le pesi e
le pensi, perché il risentimento è relazione primaria con la vita, ci lega
(cioè può essere legame o catena) tutti, perché tutti siamo stati messi nella
vita senza permesso e la vita schiaccia chi non ci si sente voluto.
L'educazione se non parte dal dolore dell'altro, aiutandolo ad accogliere
rabbia e paura, diventa un insopportabile paternalismo o moralismo.
La
prima libertà da conquistare è quella dalla rabbia e dalla paura di vivere. Il
risentimento, non riconciliato, fa da coltello più o meno mortale (senso di
colpa, sarcasmo, invidia, violenza...), ma accolto, fa da aratro (apre un solco
fecondo, diventa richiesta d'amore). Solo chi impara a perdonare la vita, per
come è, può amarla. E l'amore permette a chi si sente impotente di non
scegliere la violenza come via per potere qualcosa sulla vita, come accade a
Raskol'nikov, il protagonista di Delitto e castigo, il cui nome significa
appunto «tagliato», «diviso», «separato». Il risentimento lo porta ad
«accettare» (scure non amore) due donne, giustificando con lucidità il delitto.
Ma proprio quel delitto lo costringerà a fare i conti con ciò che non ha mai voluto
affrontare: la sua divisione interna.
Abbiamo
noi oggi la cultura per curare queste scissioni interiori?
Non
lo so, ma se la lama rivela la ferita interna di chi la usa, possiamo provare a
immaginare il suo contrario simbolico. Il contrario di tagliare è unire,
congiungere, stringere... Il contrario è allora il filo. Non più il filo della
lama, ma il filo che cuce, lega, sutura. All'opposto del filo della lama c'è il
filo del discorso, del pensiero, del racconto: nessi, legami, nodi. Tessere la
vita. Dal trono di spade al filo di Arianna: tenere il filo per chi, all'altro
capo, combatte il mostro nel suo labirinto personale, perché sappia, in mezzo
al buio e alla solitudine che tutti sperimentiamo, che potrà sempre tornare
alla luce.
Così
accade anche a Raskol'nikov in prigione, dopo aver ricevuto l'inattesa visita
dell'amata Sonia: «Era risuscitato, e lo sapeva, lo sentiva pienamente con
tutto il suo essere... La sera di quello stesso giorno Raskol'nikov giaceva sul
tavolaccio e pensava a lei. Quel giorno gli era sembrato che tutti i forzati,
prima suoi nemici, lo guardassero altrimenti. Egli stesso si metteva perfino a
parlar con loro, e gli rispondevano affabilmente. Forse che ora non doveva
mutare tutto quanto?».
Il
«tagliato» da sé e dagli altri diventa «unito» a sé e agli altri. Basta che un
filo ci leghi alla vita, ci faccia sentire voluti: che io sappia e senta che
fuori dal labirinto o dalla prigione c'è un amore che mi vuole, che mi chiama.
Solo allora troverò il coraggio di affrontare i mostri che ho dentro e non
trasformerò gli altri in quei mostri.
Spero
che anche gli autori dei delitti possano trovare questo filo.
Alzogliocchiversoilcielo
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