venerdì 15 novembre 2024

A PROPOSITO DI DISABILITA'


 Vietate le parole «handicappato» e «diversamente abile» 

nei documenti ufficiali: 

perché il governo Meloni sceglie

 un linguaggio inclusivo 

per la disabilità

-          

-         di Ygnazia Cigna

 

Tutte le amministrazioni pubbliche dovranno adottare una nuova terminologia per le persone con disabilità: ecco quali parole devono cambiare e come mai

Addio ai termini «handicappato» o «diversamente abile». È tempo di adottare un linguaggio rispettoso e inclusivo quando si parla e si scrive di persone con disabilità, affinché vengano evitate espressioni considerate obsolete o stigmatizzanti, a favore di altre che rispecchino il valore della dignità e della diversità umana. È l’invito contenuto in una recente nota dell’ufficio di gabinetto del ministero per le Disabilità, che sollecita ad aggiornare e uniformare la terminologia ufficiale delle amministrazioni pubbliche. Si tratta di un aggiornamento che fa capo all’articolo 4 del Decreto legislativo n. 62 del 2024 (entrato in vigore il 30 giugno) e interessa sia la comunicazione istituzionale (comunicati stampa, siti web, documentazione informativa) sia l’attività amministrativa vera e propria, come decreti, provvedimenti o modulistica.

I termini da cambiare

Nella nota vengono indicate le seguenti modifiche:

  • «Handicap» viene sostituito da «condizione di disabilità» in tutti i documenti ufficiali.
  • Termini come «persona handicappata», «portatore di handicap», «persona affetta da disabilità», «disabile» e «diversamente abile» vengono unificati in «persona con disabilità».
  • Le espressioni «con connotazione di gravità» e «in situazione di gravità» sono sostituite da «con necessità di sostegno elevato o molto elevato».
  • Infine, «disabile grave» diventa «persona con necessità di sostegno intensivo».

 

Perché usare «persona con disabilità» invece di «disabile»

Perché usare l’espressione «persona con disabilità» invece di «disabile» o «handicappato»? La differenza principale sta nel fatto che, nel primo caso, si mette al centro la persona, mentre negli altri due si rischia di ridurre l’individuo alla sua disabilità. L’obiettivo di queste modifiche linguistiche è quindi di spostare l’attenzione sulla persona, piuttosto che sulla sua condizione, per evitare che venga etichettata unicamente in base alla disabilità. Si tratta di un approccio che promuove un linguaggio che rispetta e valorizza la dignità e la complessità di ogni individuo. Sebbene la modifica del linguaggio possa sembrare un cambiamento puramente formale, in realtà riflette una visione più moderna e inclusiva della società, che ora sta trovando spazio anche negli ambienti istituzionali.

Un cambio di rotta del governo?

Si tratta di una mossa apparentemente dissonante nella linea adottata finora dalla maggioranza di governo, che alle sollecitazioni sulla necessità di utilizzare un linguaggio più inclusivo, ha più volte risposto in modo respingente. La premier stessa ha scelto di farsi chiamare «Il presidente», rifiutando l’utilizzo di «la presidente». La scorsa estate, il senatore della Lega Manfredi Potenti ha presentato un disegno di legge per vietare l’uso di termini femminili come «sindaca», «questora», «avvocatessa» e «rettrice» negli atti pubblici, sostenendo che il maschile universale dovesse prevalere in tutti i contesti ufficiali, pena sanzioni. E, solo pochi giorni fa, Meloni ha dichiarato: «Alcune femministe credono che la parità di genere si realizzi declinando titoli al femminile». Eppure, quando si parla di disabilità, il governo sceglie una strada diversa, più soft e meno controversa.

Forse un cambio di rotta o, più probabilmente, una mossa dettata dal fatto che il tema della disabilità è percepito come meno divisivo e, ad esempio, meno polarizzante rispetto alla questione di genere. In altre parole, parlare di linguaggio inclusivo per le persone con disabilità non solleva le stesse tensioni politiche e culturali che, invece, si accendono quando si discute della parità di genere. La disabilità continua ad essere erroneamente vista come una questione semplicemente di rispetto, mentre il tema della parità di genere sfida direttamente gli equilibri di potere esistenti. Sorge dunque spontaneo chiedersi se questo intervento faccia parte di un reale cambiamento di paradigma, o se si tratti semplicemente di un tentativo di presentarsi come inclusivi su un tema che, al momento, non scotta come altri. Ciò non toglie, che la revisione della terminologia sui temi della disabilità rappresenti un passo avanti e un segno di civiltà.

 

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