La “questione ebraica”
tra antisemitismo e pulizia etnica
·
di Giuseppe Savagnone*
Gli Ebrei e Israele
È
apparsa in questi giorni su tutti i quotidiani una notizia che rinfocola ancora
di più – dopo la vicenda delle violenze contro i tifosi del Maccabi Tel Aviv,
ad Amsterdam – i timori di una rinascita dell’antisemitismo: un albergo di
Selva di Cadore ha respinto una coppia di turisti israeliani accusandoli di
essere «responsabili di un genocidio».
Quando
sembrava che le millenaria “questione ebraica” fosse ormai per sempre
consegnata alla storia – sotto il tragico segno dell’Olocausto e col giusto
senso di colpa di un mondo che l’aveva provocato o comunque non aveva saputo
impedirlo – , l’attacco di Hamas del 7 ottobre e la successiva reazione di
Israele, ancora in corso, l’hanno drammaticamente riaperta e riportata di
attualità.
Solo
che ora essa è complicata dal fatto che ormai si intreccia inevitabilmente con
quella delle sorti e della politica dello Stato di Israele, come l’episodio di
Selva di Cadore evidenzia.
Sono
gli stessi ebrei, peraltro, a vivere dolorosamente questo intreccio. Diceva in
un’intervista un rappresentante del movimento ebraico liberale in Francia, il
rabbino David Meyer: «Per la stragrande maggioranza degli ebrei, siano essi
israeliani o meno, penso che si abbia la sensazione che, dopo il 7 ottobre, il
mondo sia cambiato. Credo che ciò che è cambiato sia innanzitutto la percezione
che la sicurezza che pensavamo che lo Stato di Israele offrisse a sé stesso e
all’ebraismo, ebbene, quella sicurezza, è andata in frantumi. Per questo
abbiamo parlato di pogrom, perché ha rimandato gli ebrei a una realtà del
passato che pensavamo fosse abolita da qualche parte dalla storia e dalla
creazione dello Stato di Israele (…). La realtà è che ci sentiamo estremamente
soli ed estremamente odiati».
Si
spiega così l’incondizionata solidarietà data dalle organizzazioni ebraiche
alla guerra condotta da Tel Aviv nella Striscia di Gaza, che tante dure
critiche ha suscitato nell’opinione pubblica mondiale.
Il
fatto è che, come osservava ancora il rabbino Meyer, se è vero che non sempre
gli ebrei condividono la politica israeliana, «allo stesso tempo, non può
esserci nemmeno una disconnessione tra ebraismo e Stato di Israele. Il popolo
ebraico non è solo una religione, non è solo l’ebraismo, è anche una nazione,
un’etnia, una storia. In qualche modo, non possiamo separare i due». E di
questa nazione Israele è, dopo quasi duemila anni, la prima espressione
politica.
Tutto
questo merita una comprensione che purtroppo non sempre si manifesta nelle
proteste di piazza in cui sono contestati, a colpi di slogan, lo Stato ebraico
e gli ebrei che lo sostengono.
Ma
si può, per rispetto agli ebrei, limitarsi a condannare la ferocia di Hamas,
tacendo su ciò che gli israeliani stanno facendo a Gaza e in Cisgiordania? Non
c’è il rischio che l’antisemitismo diventi, come ha detto qualcuno, «un’arma di
guerra» per coprire e giustificare atteggiamenti e comportamenti inaccettabili
da parte di Israele e dei suoi sostenitori?
I
fatti di Amsterdam
Emblematica,
in questo senso, è stata la rappresentazione che i media e la politica hanno
dato degli avvenimenti di Amsterdam. Un grido unanime di sdegno si è levato per
esecrare la «caccia all’ebreo», si evocata la “notte dei cristalli” (l’ondata
di pogrom scatenatasi nella Germania nazista tra il 9 e il 10 novembre 1938),
si sono perfino paragonate le vittime dei pestaggi ad Anna Frank, la mite
fanciulla ebrea vissuta proprio ad Amsterdam e morta in un lager.
I
primi a dare questa versione, naturalmente, sono stati il premier Benjamin
Netanyahu – che ha condannato l’aggressione come «un attacco antisemita premeditato»
e ha inviato due aerei per soccorrere i suoi cittadini – e il presidente israeliano,
Yitzhak Herzog, il quale su X ha scritto: «Dopo il 7 ottobre speravamo di non
vedere mai più le immagini e i video con cui ci siamo svegliati stamattina: le
immagini di un pogrom antisemita».
Ma
molti, anche al di fuori del mondo ebraico, hanno provato «vergogna» di fronte
all’accaduto. Per citare solo due voci particolarmente autorevoli, il re
d’Olanda Willem-Alexander ha riconosciuto amaramente: «Abbiamo fallito come ai
tempi della Shoah»; e il presidente francese Emmanuel Macron ha scritto su X che
gli avvenimenti di Amsterdam ricordano «le ore più buie della Storia»,
promettendo che «la Francia continuerà a lottare contro l’odioso antisemitismo
senza tregua».
Solo
a fatica è emersa, successivamente, una visione più complessa e articolata di
ciò che è effettivamente accaduto. Le violenze sui tifosi israeliani ci sono
state davvero e sono inaccettabili. Ma quelli presenti ad Amsterdam erano in
gran prevalenza membri dei Maccabi Fanatics (significativo il nome), un gruppo
ultras di estrema destra, vicini al Likud del premier Benjamin Netanyahu,
conosciuti per la loro predisposizione alla violenza, che lo scorso 7 marzo, ad
Atene – dove il club israeliano era andato in trasferta in casa dell’Olympiakos
-, avevano aggredito in gruppo una persona di origini egiziane.
Ed
anche ad Amsterdam i Maccabi Fanatics si sono comportati da pari loro. Già al
loro arrivo nella capitale olandese, mercoledì, il giorno prima della partita,
dei video li hanno ripresi mentre strappavano delle bandiere della Palestina
esposte alle finestre, tirando sassi contro le case a cui erano appese e
bruciandone una in una piazza della città.
Altri
video li hanno ritratti mentre cantavano per le strade slogan irridenti nei
confronti dei palestinesi, come «Non ci sono più scuole a Gaza perché i bambini
sono tutti morti» e «Israele distruggerà gli arabi». Quanto basta per essere
certi che Anna Frank con loro non c’entra proprio.
Sempre
mercoledì un tassista di origine marocchina, era stato aggredito all’interno
della sua auto, e il taxi era stato vandalizzato, suscitando la reazione dei
numerosi tassisti arabi della città, che a quanto risulta, hanno attivamente
collaborato, la sera dopo, con coloro che hanno a loro volta aggredito i tifosi
del Maccabi, gridando “Free Palestine” o “Fuck Israel”, picchiandoli
selvaggiamente e costringendo i passanti a mostrare i passaporti per verificare
se fossero israeliani.
Comportamenti
che, opponendo violenza a violenza, finiscono per legittimare proprio la
disumanità che si vorrebbe combattere. Ma è chiaro che l’equiparazione
dell’accaduto a un pogrom è stata una pura e semplice falsificazione.
Più
in generale, il grande pericolo che in questo momento si corre è che il
fantasma dell’antisemitismo mascheri ciò che realmente sta accadendo a Gaza.
Un
progetto di pulizia etnica
Nel
marzo scorso l’alto rappresentante Josep Borrell, intervenendo allo European
Humanitarian Forum 2024, ha denunciato: «La fame a Gaza è usata come arma di
guerra, diciamolo chiaro. Ci sono sette mesi di derrate alimentari bloccate.
Israele deve aprire i cancelli e fare entrare gli aiuti».
Ma
non si tratta solo di fame. Negli scorsi giorni alcuni giornalisti
di Haaretz – un giornale israeliano – sono potuti entrare nel Nord
della Striscia e hanno riferito che l’esercito sta portando avanti in
tutta la zona una sistematica «distruzione di massa delle case e delle
infrastrutture, alcune delle quali non sembrano essere coinvolte nei
combattimenti (…). Ad al Attar e Beit Lahia non c’è più nemmeno una casa in cui
le persone potrebbero tornare ad abitare.
Sembra
che l’area sia stata colpita da un disastro naturale. Ci sono civili in mezzo
alle rovine e, nel tentativo di farli andare via, di notte l’esercito spara
colpi di artiglieria».
È la
messa in atto del cosiddetto “piano Eiland”, dal nome dal suo ideatore, il
generale maggiore in pensione Giora Eiland. Intervistato qualche giorno fa da
Franccsca Mannocchi , il generale Eiland ha spiegato che puntare, a Gaza, sul
successo militare, è stato fallimentare e ha portato l’esercito
israeliano solo a impantanarsi in un territorio ostile, senza
speranza di vittoria.
In
effetti, è quello che tutti abbiamo sotto gli occhi. Israele vince le
battaglie, ma, dopo più di un anno di sforzi immensi, la guerra non ha
raggiunto nessuno dei due obiettivi che si proponeva, lo sradicamento di Hamas
e la liberazione degli ostaggi.
E
allora? Allora, sostiene Eiland, «se quello che abbiamo fatto finora non
ha funzionato, serve l’assedio. E se le persone scelgono di restare e morire, è
una loro scelta». A Gaza, «l’unico modo per vincere è affamarla», finché tutta
la popolazione civile non sarà stata costretta ad andarsene.
E
poi? Nel maggio scorso a una manifestazione il potente ministro della Sicurezza
del governo di Tel Aviv Ben-Gvir, parlando a una manifestazione di coloni, ha
detto: «Dobbiamo tornare a Gaza adesso! Stiamo tornando a casa in Terra Santa!
E dobbiamo incoraggiare l’emigrazione. Incoraggiare l’emigrazione volontaria
dei residenti di Gaza. È un’azione morale! È etico! È razionale! È giusto! È la
verità! È la Torah ed è l’unico modo! E sì, è umano! È la vera soluzione».
Corrisponde
a questo la dichiarazione di un alto ufficale israeliano, il brigadiere
generale Itzik Cohen, il quale, parlando con i giornalisti, ha detto che «non
c’è intenzione di consentire ai residenti del nord della Striscia di Gaza di
tornare alle proprie case».
Siamo
davanti a una operazione consapevole e sistematica di pulizia etnica,
considerata universalmente dal diritto internazionale un crimine gravissimo. Ma
nessun governo occidentale lo denunzia e tanto meno propone sanzioni per
impedirlo. Ora, peraltro, l’avvento di Trump alla presidenza degli Stati Uniti
potrà solo portare a legittimare esplicitamente quello che già di fatto stava
accadendo.
E
così c’è il pericolo non immaginario che la questione ebraica resti segnata,
nella storia, da un secondo Olocausto, anche se di proporzioni numeriche
più limitate, in cui questa volta – con la complicità delle grandi democrazie
occidentali – gli ebrei non sono le vittime, ma i carnefici.
*Scrittore
ed editorialista. Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo
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