venerdì 15 novembre 2024

LA QUESTIONE EBRAICA

 

La “questione ebraica” 

tra antisemitismo e pulizia etnica


 

·        di Giuseppe Savagnone*

Gli Ebrei e Israele 

È apparsa in questi giorni su tutti i quotidiani una notizia che rinfocola ancora di più – dopo la vicenda delle violenze contro i tifosi del Maccabi Tel Aviv, ad Amsterdam – i timori di una rinascita dell’antisemitismo: un albergo di Selva di Cadore ha respinto una coppia di turisti israeliani accusandoli di essere «responsabili di un genocidio».

Quando sembrava che le millenaria “questione ebraica” fosse ormai per sempre consegnata alla storia – sotto il tragico segno dell’Olocausto e col giusto senso di colpa di un mondo che l’aveva provocato o comunque non aveva saputo impedirlo – , l’attacco di Hamas del 7 ottobre e la successiva reazione di Israele, ancora in corso, l’hanno drammaticamente riaperta e riportata di attualità.

Solo che ora essa è complicata dal fatto che ormai si intreccia inevitabilmente con quella delle sorti e della politica dello Stato di Israele, come l’episodio di Selva di Cadore evidenzia.

Sono gli stessi ebrei, peraltro, a vivere dolorosamente questo intreccio. Diceva in un’intervista un rappresentante del movimento ebraico liberale in Francia, il rabbino David Meyer: «Per la stragrande maggioranza degli ebrei, siano essi israeliani o meno, penso che si abbia la sensazione che, dopo il 7 ottobre, il mondo sia cambiato. Credo che ciò che è cambiato sia innanzitutto la percezione che la sicurezza che pensavamo che lo Stato di Israele offrisse a sé stesso e all’ebraismo, ebbene, quella sicurezza, è andata in frantumi. Per questo abbiamo parlato di pogrom, perché ha rimandato gli ebrei a una realtà del passato che pensavamo fosse abolita da qualche parte dalla storia e dalla creazione dello Stato di Israele (…). La realtà è che ci sentiamo estremamente soli ed estremamente odiati».

Si spiega così l’incondizionata solidarietà data dalle organizzazioni ebraiche alla guerra condotta da Tel Aviv nella Striscia di Gaza, che tante dure critiche ha suscitato nell’opinione pubblica mondiale.

Il fatto è che, come osservava ancora il rabbino Meyer, se è vero che non sempre gli ebrei condividono la politica israeliana, «allo stesso tempo, non può esserci nemmeno una disconnessione tra ebraismo e Stato di Israele. Il popolo ebraico non è solo una religione, non è solo l’ebraismo, è anche una nazione, un’etnia, una storia. In qualche modo, non possiamo separare i due». E di questa nazione Israele è, dopo quasi duemila anni, la prima espressione politica.

Tutto questo merita una comprensione che purtroppo non sempre si manifesta nelle proteste di piazza in cui sono contestati, a colpi di slogan, lo Stato ebraico e gli ebrei che lo sostengono.

Ma si può, per rispetto agli ebrei, limitarsi a condannare la ferocia di Hamas, tacendo su ciò che gli israeliani stanno facendo a Gaza e in Cisgiordania? Non c’è il rischio che l’antisemitismo diventi, come ha detto qualcuno, «un’arma di guerra» per coprire e giustificare atteggiamenti e comportamenti inaccettabili da parte di Israele e dei suoi sostenitori?

I fatti di Amsterdam

Emblematica, in questo senso, è stata la rappresentazione che i media e la politica hanno dato degli avvenimenti di Amsterdam. Un grido unanime di sdegno si è levato per esecrare la «caccia all’ebreo», si evocata la “notte dei cristalli” (l’ondata di pogrom scatenatasi nella Germania nazista tra il 9 e il 10 novembre 1938), si sono perfino paragonate le vittime dei pestaggi ad Anna Frank, la mite fanciulla ebrea vissuta proprio ad Amsterdam e morta in un lager.

I primi a dare questa versione, naturalmente, sono stati il premier Benjamin Netanyahu – che ha condannato l’aggressione come «un attacco antisemita premeditato» e ha inviato due aerei per soccorrere i suoi cittadini – e il presidente israeliano, Yitzhak Herzog, il quale su X ha scritto: «Dopo il 7 ottobre speravamo di non vedere mai più le immagini e i video con cui ci siamo svegliati stamattina: le immagini di un pogrom antisemita».

Ma molti, anche al di fuori del mondo ebraico, hanno provato «vergogna» di fronte all’accaduto. Per citare solo due voci particolarmente autorevoli, il re d’Olanda Willem-Alexander ha riconosciuto amaramente: «Abbiamo fallito come ai tempi della Shoah»; e il presidente francese Emmanuel Macron ha scritto su X che gli avvenimenti di Amsterdam ricordano «le ore più buie della Storia», promettendo che «la Francia continuerà a lottare contro l’odioso antisemitismo senza tregua».

Solo a fatica è emersa, successivamente, una visione più complessa e articolata di ciò che è effettivamente accaduto. Le violenze sui tifosi israeliani ci sono state davvero e sono inaccettabili. Ma quelli presenti ad Amsterdam erano in gran prevalenza membri dei Maccabi Fanatics (significativo il nome), un gruppo ultras di estrema destra, vicini al Likud del premier Benjamin Netanyahu, conosciuti per la loro predisposizione alla violenza, che lo scorso 7 marzo, ad Atene – dove il club israeliano era andato in trasferta in casa dell’Olympiakos -, avevano aggredito in gruppo una persona di origini egiziane.

Ed anche ad Amsterdam i Maccabi Fanatics si sono comportati da pari loro. Già al loro arrivo nella capitale olandese, mercoledì, il giorno prima della partita, dei video li hanno ripresi mentre strappavano delle bandiere della Palestina esposte alle finestre, tirando sassi contro le case a cui erano appese e bruciandone una in una piazza della città.

Altri video li hanno ritratti mentre cantavano per le strade slogan irridenti nei confronti dei palestinesi, come «Non ci sono più scuole a Gaza perché i bambini sono tutti morti» e «Israele distruggerà gli arabi». Quanto basta per essere certi che Anna Frank con loro non c’entra proprio.

Sempre mercoledì un tassista di origine marocchina, era stato aggredito all’interno della sua auto, e il taxi era stato vandalizzato, suscitando la reazione dei numerosi tassisti arabi della città, che a quanto risulta, hanno attivamente collaborato, la sera dopo, con coloro che hanno a loro volta aggredito i tifosi del Maccabi, gridando “Free Palestine” o “Fuck Israel”, picchiandoli selvaggiamente e costringendo i passanti a mostrare i passaporti per verificare se fossero israeliani.

Comportamenti che, opponendo violenza a violenza, finiscono per legittimare proprio la disumanità che si vorrebbe combattere. Ma è chiaro che l’equiparazione dell’accaduto a un pogrom è stata una pura e semplice falsificazione.

Più in generale, il grande pericolo che in questo momento si corre è che il fantasma dell’antisemitismo mascheri ciò che realmente sta accadendo a Gaza.

Un progetto di pulizia etnica

Nel marzo scorso l’alto rappresentante Josep Borrell, intervenendo allo European Humanitarian Forum 2024, ha denunciato: «La fame a Gaza è usata come arma di guerra, diciamolo chiaro. Ci sono sette mesi di derrate alimentari bloccate. Israele deve aprire i cancelli e fare entrare gli aiuti».

Ma non si tratta solo di fame. Negli scorsi giorni alcuni giornalisti di Haaretz – un giornale israeliano – sono potuti entrare nel Nord della Striscia e hanno riferito che l’esercito sta portando avanti in tutta la zona una sistematica «distruzione di massa delle case e delle infrastrutture, alcune delle quali non sembrano essere coinvolte nei combattimenti (…). Ad al Attar e Beit Lahia non c’è più nemmeno una casa in cui le persone potrebbero tornare ad abitare.

Sembra che l’area sia stata colpita da un disastro naturale. Ci sono civili in mezzo alle rovine e, nel tentativo di farli andare via, di notte l’esercito spara colpi di artiglieria».

È la messa in atto del cosiddetto “piano Eiland”, dal nome dal suo ideatore, il generale maggiore in pensione Giora Eiland. Intervistato qualche giorno fa da Franccsca Mannocchi , il generale Eiland ha spiegato che puntare, a Gaza, sul successo militare, è stato fallimentare e ha portato l’esercito israeliano  solo a impantanarsi  in un territorio ostile, senza speranza di vittoria.

In effetti, è quello che tutti abbiamo sotto gli occhi. Israele vince le battaglie, ma, dopo più di un anno di sforzi immensi, la guerra non ha raggiunto nessuno dei due obiettivi che si proponeva, lo sradicamento di Hamas e la liberazione degli ostaggi.

E allora? Allora, sostiene Eiland, «se quello che abbiamo fatto finora non ha funzionato, serve l’assedio. E se le persone scelgono di restare e morire, è una loro scelta». A Gaza, «l’unico modo per vincere è affamarla», finché tutta la popolazione civile non sarà stata costretta ad andarsene.

E poi? Nel maggio scorso a una manifestazione il potente ministro della Sicurezza del governo di Tel Aviv Ben-Gvir, parlando a una manifestazione di coloni, ha detto: «Dobbiamo tornare a Gaza adesso! Stiamo tornando a casa in Terra Santa! E dobbiamo incoraggiare l’emigrazione. Incoraggiare l’emigrazione volontaria dei residenti di Gaza. È un’azione morale! È etico! È razionale! È giusto! È la verità! È la Torah ed è l’unico modo! E sì, è umano! È la vera soluzione».

Corrisponde a questo la dichiarazione di un alto ufficale israeliano, il brigadiere generale Itzik Cohen, il quale, parlando con i giornalisti, ha detto che «non c’è intenzione di consentire ai residenti del nord della Striscia di Gaza di tornare alle proprie case».

Siamo davanti a una operazione consapevole e sistematica di pulizia etnica, considerata universalmente dal diritto internazionale un crimine gravissimo. Ma nessun governo occidentale lo denunzia e tanto meno propone sanzioni per impedirlo. Ora, peraltro, l’avvento di Trump alla presidenza degli Stati Uniti potrà solo portare a legittimare esplicitamente quello che già di fatto stava accadendo.

E così c’è il pericolo non immaginario che la questione ebraica resti segnata, nella storia, da un secondo Olocausto, anche se di proporzioni numeriche più limitate, in cui questa volta – con la complicità delle grandi democrazie occidentali – gli ebrei non sono le vittime, ma i carnefici.

 

www.tuttavia.eu

*Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo

 

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