Essere
“un mondo a parte”
-di
Giuseppe Moscato
Su
VITA, nella veste di genitore di un ragazzo con sindrome di Down, ho già
riflettuto sulla “pratica dell’inclusione”, ovvero sull’efficacia
dell’apprendimento che si realizza attraverso l’esperienza concreta e
condivisa. Questo tipo di approccio non riguarda solo le persone con disabilità
intellettiva, ma anche moltissime ragazze e ragazzi che semplicemente fanno
fatica a stare sui banchi di scuola.
Partiamo
da un presupposto: la scuola non è scuola se ciò che si impara dentro le sue
mura non è collegato con il mondo che è fuori.
All’inizio
della mia carriera come docente della scuola primaria, verso la fine degli anni
Ottanta, scoprii l’esistenza di tutto un filone di sperimentazione didattica
basata su modelli collaborativi, un filone nato in Italia attorno agli anni
Sessanta e che conta nomi prestigiosi come don Lorenzo Milani, Mario Lodi,
Loris Malaguzzi e prima ancora Maria Montessori. In quegli anni, durante
l’esperienza di ricerca con il professor Roberto Maragliano dell’allora
Laboratorio Tecnologie Audiovisive dell’Università Roma 3, insegnavo come
maestro nel quartiere di Tor Bella Monaca a Roma e il mantra era proprio
questo: i contenuti della scuola devono essere trattati attraverso una
didattica che consenta di relazionarsi col mondo di fuori, per poterci stare
dentro. All’epoca le tecnologie digitali iniziavano a entrare tra le nostre
abitudini quotidiane ed eravamo convinti che anche la scuola doveva rinnovarsi.
La
scuola non è scuola se ciò che si impara dentro le sue mura non è collegato con
il mondo che è fuori. Ancora oggi non siamo riusciti a colmare quella distanza
Nonostante
gli sforzi di tutto un movimento di docenti della scuola e delle università,
ancora oggi non siamo riusciti a colmare quella distanza tra la scuola e il
mondo che la circonda. Ci sono studenti che soffrono in modo particolare questa
distanza, al punto tale da ritenere inutile frequentare la scuola: ecco il
drop-out.
Questi
studenti spesso finiscono nel “paese dei dimenticati”, catalogati nel macro-contenitore
della “dispersione scolastica”. Spesso sono ragazzi che non essendo stati
accompagnati in modo adeguato dalla famiglia, vivono la scuola come mondo
“altro” dal loro quotidiano. In molti casi la scuola definisce inadeguati
questi ragazzi, spesso addossando le colpe ai loro genitori. Ed è qui a mio
parere che il ragionamento deve prendere un’altra piega: invece di cercare la
colpa dovremmo cercare la causa che alla fine dei conti condanna questi
ragazzi.
Fra
i giovani, specialmente nelle periferie delle grandi città, compaiono ogni
giorno nuove manifestazioni di insofferenza che non trovano ancora un nome nel
mare delle neuroscienze. Ragazzi e ragazze che non hanno riferimenti, che
ricercano comunque e come possono un’identità dentro e fuori la scuola. Tra le
varie problematiche comportamentali un esempio ormai diffuso è il disturbo
oppositivo provocatorio, che si riferisce a coloro che si oppongono a quasi
tutte le attività proposte dagli insegnanti. Ma non ci sono solo comportamenti
definiti aggressivi: ci sono anche ragazzi, specialmente tra gli adolescenti,
che non parlano mai, si isolano e per questo sono anche soggetti a fenomeni di
bullismo. Fino a qualche tempo fa i ragazzi o le ragazze per cui veniva
richiesto un insegnante di sostegno avevano una diagnosi, ma oggi le
segnalazioni e le richieste aumentano anche in relazione a casi difficili, casi
che spesso hanno a che fare con un comportamento che non si allinea con quello
della maggior parte degli alunni della classe. Davvero non c’è nulla da fare
per questi ragazzi?
Ci
sono studenti che soffrono in modo particolare questa distanza, al punto tale
da ritenere inutile frequentare la scuola: ecco il drop-out. Davvero non c’è
nulla da fare?
Quanto
può essere vera la famosa frase di don Milani quando definisce la scuola come
«un ospedale che cura i sani e respinge i malati»? Ma poi sono davvero malati
questi studenti?
Al
di là degli studi che vengono fatti per identificare le cause di tali
comportamenti, vorrei porre l’attenzione innanzitutto sui modelli didattici
proposti e che almeno in parte potrebbero avere un effetto benefico su tutti i
ragazzi, sia per quelli definiti bravi, sia per quelli definiti meno bravi.
Cosa
differenzia la didattica moderna da quella del passato? Detta in modo semplice,
nel passato l’apprendimento si sviluppa quasi esclusivamente attraverso azioni
esecutive e ripetitive. C’è un’immagine sintetizza quel modello: l’insegnante
in cattedra che spiega, indica gli esercizi da fare e gli studenti che possono
intervenire solo se interpellati (le interrogazioni). Nella didattica moderna
al centro della classe sono gli studenti che in piccoli gruppi studiano e
ricercano secondo modalità collaborative, soluzioni ai problemi (problem
solving) che il docente pone loro. Lavorare per piccoli gruppi vuol dire anche
mettere insieme studenti e studentesse con caratteristiche e capacità di
apprendimento diverse: in questo modo non solo si impara a studiare insieme, ma
si mette in pratica un atteggiamento fortemente inclusivo.
Nel
nostro paese però la scuola è per lo più ancorata al passato e la conferma più
evidente l’abbiamo nelle strutture edilizie fatiscenti: scuole vecchie per una
didattica vecchia. Avere davanti i nostri occhi lo stesso scenario, lo stesso
ambiente, la stessa aula di cento anni fa ci fa credere che l’unica immutabile
realtà della scuola sia quella. Moltissimi dei nostri figli frequentano nel
2024 una scuola di cento anni fa. Come è possibile che un ragazzo o una ragazza
possano vivano quotidianamente in due dimensioni temporali distinte? È lecito
supporre che non tutti gli studenti riescano a governare agevolmente questa
doppia dimensione?
Dei
tanti studi statistici che vengono fatti e portati all’attenzione pubblica,
mancano numeri aggiornati dei ragazzi che abbandonano la scuola. Mancano i
numeri dei risultati ottenuti nelle poche scuole dove invece viene praticata
una didattica moderna verso le scuole che sono ancorate ad una didattica
tradizionale. Mancano a livello nazionale i numeri collocati nel tempo di
studenti e studentesse con problemi che usufruiscono di un insegnante di
sostegno e dell’evoluzione del loro percorso. La comunicazione di massa si
occupa di altro. Domandarsi cosa fanno i più giovani non è considerato tema di
interesse. I giovani non sono valorizzati e i più capaci, con le idee chiare,
sono costretti ad andare fuori dall’Italia. Non mi stupisco se i più giovani
hanno una bassa considerazione degli adulti, d’altra parte loro imparano dagli
adulti: gli adulti per primi non “ascoltano” i più giovani. Fare autocritica
non va più di moda, eppure l’autocritica è il passpartout per entrare in
contatto con un mondo diverso da quello che conosciamo oggi.
Nessun commento:
Posta un commento