- - di Giuseppe Savagnone*
- Ha suscitato viva impressione nell’opinione pubblica la notizia che ben 46 agenti penitenziari del carcere di Trapani, di cui 11 sono già stati arrestati, da anni sistematicamente torturavano, umiliavano e picchiavano i detenuti.
Persone costrette a denudarsi e a camminare senza vestiti lungo i corridoi, sbeffeggiate con commenti sui genitali, percosse, oggetto di secchiate di acqua e urina mente dormivano nelle loro celle.
Ha colpito il fatto che non si sia trattato di un episodio isolato, attribuibile a uno squilibrato, ma di uno stile abituale che coinvolgeva un numero così rilevante di rappresentanti dello Stato. Così come è stato sconvolgente, per gli inquirenti, scoprire che da molto tempo nell’istituto di pena trapanese tutti sapevano di queste pratiche disumane e consideravano un inferno la “zona blu”, la parte dell’edificio priva di telecamere dove esse per lo più si svolgevano, ma nessuno interveniva.
Tutto questo viene alla luce pochi giorni dopo le parole del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, in occasione della presentazione della nuova vettura della Polizia penitenziaria per il trasporto dei detenuti in regime di 41 bis.
Riferendosi al fato che i vetri dei finestrini di questi veicoli sono affumicati, Delmastro aveva detto: «L’idea di veder sfilare questo potente mezzo (…) e far sapere ai cittadini chi sta dietro a quel vetro oscurato, come noi sappiamo trattare chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi incalziamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è per il sottoscritto una intima gioia».
Le espressioni usate dal rappresentante del governo avevano suscitato dure reazioni. In difesa di Delmastro era intervenuto l’on. Giovanni Donzelli, autorevole esponente di FdI, il quale aveva bollato queste proteste come «polemiche surreali». Per lui, le parole del sottosegretario «hanno il chiarissimo significato di non dare tregua e fiato ai mafiosi al 41 bis e quindi alla criminalità organizzata nel suo complesso».
Ma le persone si identificano con i loro crimini?
Secondo
questa lettura, dunque, Delmastro avrebbe scaricato il suo odio per la
criminalità organizzata sulle persone a bordo delle auto della Polizia
penitenziaria. Perché in ogni caso è evidente che «dietro quel vetro oscurato»
delle auto della Polizia non c’è la
presenza fisica della mafia, bensì quella dei
mafiosi detenuti.
Ma è proprio questo transfert, forse, la cosa più significativa ed inquietante nel discorso del sottosegretario (stando alla lettura benevola del suo compagno di partito). Nei confronti del delinquente, si ritiene legittima qualunque violenza – in questo caso solo verbale, ma potenzialmente anche fisica – perché in lui si vede l’incarnazione del male di cui si è reso colpevole, mettendo tra parentesi il fatto che si tratta comunque di un essere umano.
Se Donzelli ha ragione, questo è il corto-circuito sotteso dall’esternazione di Delmastro. «Incalzare», «non lasciare respirare» le persone dei criminali è il modo pratico di tradurre la determinazione delle istituzioni nel fronteggiare il crimine. Nessuna pietà per i colpevoli, perché essa sarebbe una sottile complicità con la loro colpa. È esattamente questa la logica in cui si sono mossi gli agenti penitenziari di Trapani.
Una logica, quella del nostro sottosegretario e degli agenti, che implica in realtà il misconoscimento del valore unico e irripetibile della persona umana, che nessun suo comportamento criminoso può mai cancellare. Non si può ridurre un uomo, una donna, alle sue colpe. Per quanto abbrutiti essi possano essere, per quanto gravi siano stati i loro atti, per quanta giusta compassione si possa provare per le loro vittime, quest’uomo, questa donna, sono molto più del male che c’è in loro e di quello che hanno causato.
Essi hanno una storia che nessuno, tranne loro, conoscerà mai e che forse aiuterebbe a capire, se non a giustificare, le loro scelte sbagliate. Senza cadere in un inaccettabile determinismo fatalistico, che farebbe attribuire la loro colpa a un inesorabile “destino”, è chiaro che un ruolo importante hanno avuto nella loro vita l’ambiente in cui sono cresciuti, le circostanze che hanno dovuto fronteggiare, le persone che hanno incontrato.
Tutto ciò non elimina il margine di libertà che giustifica la pena per i loro delitti, ma evidenzia i condizionamenti a cui questa libertà è stata soggetta e apre lo spazio per una riflessione su ciò che essa potrebbe fare se essi venissero meno.
La funzione rieducativa della pena
È
in questo spazio che si colloca l’idea, sostenuta dalla nostra Costituzione,
secondo cui il criminale può accedere a una vita diversa e può averla proprio
grazie alla pena inflittagli dalla società, che perciò non può avere solo una
funzione punitiva, ma deve privilegiare quella rieducativa.
Una funzione che trova il suo riconoscimento nel 3° comma dell’articolo 27 della Carta costituzionale, il quale sancisce che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
Tutto ciò suppone che, contrariamente a quanto appare dalle parole di Delmastro e del suo interprete Donzelli, il criminale non si identifichi col suo crimine, ma abbia una identità umana ben più ricca e complessa e possa perciò lasciarselo dietro le spalle restando se stesso, anzi diventandolo più pienamente.
Perciò la punizione di coloro che violano le leggi e tutte le misure necessarie per impedire a questo soggetti di fare ancora del male non hanno lo scopo di «non lasciarli respirare», bensì, al contrario, quello di permettere loro, finalmente, di tirare un sospiro di liberazione dalla vita sbagliata che hanno avuto e di intraprenderne un’altra diversa. E di potersi così reinserire, con uno stile nuovo, nella vita sociale.
Purtroppo, il nostro sistema penitenziario, in radicale contrasto con la Costituzione, non è impostato in modo da rendere possibile questa “seconda occasione”, a cui ogni essere umano dovrebbe avere diritto.
La rieducazione, sbandierata sulla carta, resta così una vetrina delle buone intenzioni, cui accedono solo pochi fortunati che per puro caso si sono trovati a scontare la loro pena in un istituto penale il cui direttore è particolarmente illuminato e può avvalersi di circostanze favorevoli sia all’interno del carcere – personale di custodia ed educatori disponibili – sia nell’ambiente esterno (che offra, per esempio, la possibilità di svolgere lavori socialmente utili). I detenuti del carcere di Trapani non hanno avuto questa fortuna. E non sono i soli, in Italia.
Il sovraffollamento delle carceri e i sucidi
Ma
il dettato costituzionale non viene clamorosamente violato solo per quanto
riguarda la funzione rieducativa della
pena: lo è anche là dove vieta «trattamenti contrari al senso di umanità». La
vicenda del carcere di Trapani rivela in tutta la sua terribile verità uno
stile che contraddice totalmente questa normativa. Ma è solo punta
dell’iceberg. Ci sono a monte problemi strutturali che la rendono
inapplicabile.
Emblematico è quello, drammatico, del sovraffollamento delle nostre carceri. Alla data del 16 settembre di quest’anno i detenuti presenti nei 192 istituti di pena italiani erano 61.840, a fronte di 46.929 posti disponibili: l’esubero, quindi, è di 14.911 persone, con un indice di sovraffollamento pari al 130,59%.
Da queste condizioni disumane di vita deriva ovviamente un malessere profondo, che si manifesta nel drammatico fenomeno dei suicidi. Il suicidio risulta essere di gran lunga la prima causa di morte negli istituti di pena in Italia. Nel quinquennio 2020-24, che si sta per concludere, degli 810 decessi registrati in tutti gli istituti penitenziari della Penisola, 340 sono di persone che si sono tolte volontariamente la vita (il 42% del totale). Nel solo 2024, fino a settembre, ci sono stati ben 72 casi di suicidio.
Guardando i singoli casi, risulta immediatamente evidente la forte relazione tra tassi di sovraffollamento e numero di eventi critici. Dei dieci penitenziari con maggior numero di suicidi, ben nove presentano tassi di affollamento effettivo di gran lunga superiori alla media nazionale, già di per sé inaccettabile, del 130%.
Erano comunque criminali… dirà cinicamente qualcuno. Non è vero: il 40% dei suicidi si è registrato tra detenuti in attesa di giudizio, costretti a vivere in un inferno senza neppure essere mai stati giudicati e tanto meno condannati, e spesso senza aver fatto nulla di male. Non c’è da stupirsi se il carcere, piuttosto che a rieducare i criminali, finisce per far diventare criminali coloro che non lo sono, capovolgendo paradossalmente la funzione assegnatagli dalla Costituzione.
Questa situazione è stata recentemente stigmatizzata nell’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa, (luglio 2024), aggiornato al 31 gennaio 2023, in cui si dipinge per l’Italia un quadro peggiore di quello ungherese, per il quale ci si è giustamente indignati in occasione delle detenzioni di Ilaria Salis. In Ungheria il tasso di sovraffollamento è del 111,5 per cento!
Per una giustizia che non assomigli alla vendetta
Emerge
in tutta la sua forza la necessità improcrastinabile di dare sempre maggiore
spazio alle pene alternative al carcere. È dimostrato che il detenuto a cui
viene concessa una misura alternativa al carcere ha una recidività minore
rispetto a chi sconta la propria pena all’interno di una cella.
Nello specifico, la recidiva, trascorsi sette anni dalla conclusione della pena, si colloca intorno al 19% in caso di pena alternativa, mentre raggiunge il 68,4% quando la stessa viene eseguita in carcere (ricerca del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria).
Da dove emerge che una radicale riforma del nostro sistema carcerario non è solo importante per garantire il rispetto delle persone dei detenuti e aprire loro la speranza di un futuro, ma anche per la nostra società, che dovrebbe essere interessata non a una giustizia punitiva, molto simile alla pura e semplice vendetta, ma al recupero di soggetti che non riproducano indefinitamente i loro comportamenti criminali.
Il punto è che una simile trasformazione richiede l’attenzione e il coinvolgimento di tanti onesti cittadini che del sistema carcerario conoscono a stento l’esistenza e che non sanno, né vogliono sapere nulla dei problemi di coloro che vi sono rinchiusi. Molti di loro non provano, come l’on. Delmastro, un’«intima gioia», ma semplicemente sono del tutto indifferenti a ciò che accade all’interno delle mura dei penitenziari. Possiamo solo sperare che la vicenda di quello di Trapani porti qualcuna di queste brave persone a riflettere sul fatto che i detenuti, oltre che criminali, sono prima di tutto delle persone. E a fare lo sforzo di vedere, oltre i vetri oscurati, i volti degli uomini e delle donne che stanno dietro di essi.
*Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo
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