“In classe non può esserci solo la lezione frontale, i docenti devono stare più vicini agli studenti.
Il voto? A volte viene usato come un’arma impropria”.
INTERVISTA con Maurizio Parodi
Imparare ad imparare insieme. E’ questo quanto si prefigge il metodo “Studenti in cattedra”, ideato da Maurizio Parodi, già dirigente scolastico, ricercatore e formatore in ambito socio-pedagogico. Quello di Parodi è un metodo innovativo sull’apprendimento a scuola, dedicato ai ragazzi delle scuole superiori, che punta a coinvolgere attivamente i protagonisti, ovvero gli studenti, in ogni passaggio: dall’individuazione dei temi da studiare alla valutazione. Il metodo è stato sperimentato per due anni scolastici presso il liceo Newton di Brescia, esperienza che Parodi ha di fatto condensato all’interno del volume “Sic – Studenti in Cattedra” edito da Erikson.
Intervistato
da Orizzonte Scuola, l’ideatore del metodo ci spiega in modo più
approfondito gli aspetti di Sic, riflettendo contemporaneamente sullo stato
dell’apprendimento della scuola italiana, sulla lezione frontale e sulla
valutazione.
Qual
è l’obiettivo che si vuole raggiungere con il metodo “Studenti in cattedra”?
Il
metodo SiC si rivolge alle classi degli istituti di scuola secondaria di
secondo grado ed è pensato per consentire agli studenti e alle studentesse di
imparare a imparare insieme, a scuola, valorizzando, arricchendo e potenziando
le strategie cognitive di ciascuno, responsabilizzando tutti gli attori,
docenti compresi, rispetto al conseguimento degli obiettivi didattici
programmati. Il riferimento, dichiarato, è alle competenze di cittadinanza già
enunciate nella “Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18
dicembre 2006″: Imparare a imparare è l’abilità di perseverare
nell’apprendimento, di organizzare il proprio apprendimento anche mediante una
gestione efficace del tempo e delle informazioni, sia a livello individuale che
in gruppo.
Ci
spiega il ruolo degli insegnanti in questa prospettiva di apprendimento?
In
fase di programmazione didattica, l’insegnante deve individuare i contenuti
essenziali della propria disciplina, ovvero stabilire priorità, scegliere a
cosa dedicare maggiore attenzione rispetto sia al piano di lavoro previsto per
l’anno in corso, sia allo sviluppo verticale e orizzontale del curricolo, e
quantificare l’impegno richiesto in rapporto al tempo effettivamente
disponibile, stabilendo la possibile ripartizione degli argomenti. Non meno
importante la declinazione operativa degli obiettivi, in termini di sapere e
saper fare che sposta l’attenzione dell’insegnante dal contenuto al processo,
dalla nozione alla competenza. Insomma un bagno di realtà che mette al riparo
dal rischio di “rimanere indietro” nello svolgimento del famigerato “programma”
troppo spesso licenziato senza considerare adeguatamente, realisticamente i
limiti dati, come se si operasse al di fuori delle umane coordinate di spazio e
tempo, salvo poi appaltare parti sempre più consistenti del curricolo
all’autonoma gestione degli studenti, dei loro genitori o di “privati”
insegnanti (aggravando le diseguaglianze), e imporre estenuanti tour de force a
ridosso delle scadenze istituzionali.
E
poi? Cosa fa un docente in questo contesto del SIC?
In
fase di svolgimento dell’attività, deve organizzare correttamente il lavoro di
riflessione e rielaborazione da parte degli studenti, abituando al rispetto dei
tempi e delle procedure, sollecitando il contributo individuale e del gruppo,
favorendo l’interazione tra i pari, evitando di dare risposte immediate e
dirette in caso di dubbi e incomprensioni, così da valorizzare il confronto e
la partecipazione. L’insegnante ha dunque un ruolo di regia organizzativa e
didattica, e non di protagonista, perciò interviene quando necessario, per
stimolare, integrare, correggere, e solo se necessario, interrogandosi
costantemente sulla misura di tale necessità. Deve, inoltre, sostenere
l’impegno degli studenti nella progressiva acquisizione delle tecniche di
studio previste dal “protocollo”: prendere appunti, selezionare i punti
essenziali, riformulare sinteticamente i contenuti, elaborare la sintesi
condivisa. Proprio l’elaborazione della sintesi condivisa costituisce il
passaggio di maggior pregio metacognitivo.
Cioè?
Non
si tratta, infatti, di condividere un elenco di punti individuati sulla base
delle sintesi formulate grazie al lavoro individuale e di coppia, attività
tutt’altro che banale, ma di procedere alla strutturazione lessicale,
sintattica, grafica di uno “schema”, necessariamente articolato e complesso;
operazione delicata rispetto alla quale l’intervento maieutico del docente è
fondamentale.
Perché
la lezione frontale viene messa continuamente in discussione? Ha formato
generazioni intere in passato…
Il
metodo Sic non bandisce la lezione frontale che però non può essere la modalità
prevalente o la sola praticata da una didattica verbosa e cattedratica;
l’insegnante deve comunque predisporre i materiali tenendo conto del tempo
effettivamente disponibile, sapendo che ogni somministrazione avrà la durata di
circa 10 minuti, sforzandosi di utilizzare i mediatori didattici più diversi e
consoni, i più stimolanti, coinvolgenti, suggestivi, meglio se opportunamente
integrati così da intercettare le dominanze cognitive, le intelligenze, le
sensibilità percettive dei destinatari, tenendo conto di bisogni speciali,
disturbi specifici o necessità particolari. In tal modo si forniscono,
direttamente e implicitamente, tecniche espositive delle quali gli studenti
possano avvalersi per le loro presentazioni. Va detto, al riguardo, che la
diversificazione degli stimoli e la minore esposizione diretta dell’insegnante,
consente di affrontare più attentamente e naturalmente eventuali problemi
individuali, meno considerati laddove prevalgano didattiche uniformi,
unidirezionali. Se il docente scende dalla cattedra privilegiando un
insegnamento indiretto e l’uso di supporti e dispositivi tecnologici e
audiovisivi, può stare più vicino agli studenti, in particolare a chi sia più
bisognoso.
Il
metodo da lei proposto tende a responsabilizzare in qualche modo i ragazzi.
Eppure da più parti si cerca quasi di screditarne il valore delle nuove
generazioni, definendoli “vuoti” e “sbandati”. Cosa ne pensa?
Se
anche lo fossero, dovremmo domandarci perché lo siano. Si tratta di ragazzi che
hanno trascorso “gli anni migliori della loro vita” a scuola e a svolgere
compiti scolastici, ci si dovrebbe perciò interrogare sulla responsabilità di
cotanta irresponsabilità. Dovremmo, intanto, domandarci quando gli studenti
facciano esercizio di responsabilità reali, quando ricoprano ruoli
autenticamente facoltosi: mai o quasi mai; oppure quali siano gli spazi di
negoziazione reale loro riconosciuti: pochi o del tutto inesistenti. Sono
costretti in una condizione di minorità prolungata a dismisura da una
“pedagogia della dipendenza” che li appiattisce nello svolgimento di compiti
meramente esecutivi.
Lei
è stato il principale promotore di “Basta Compiti!”, che vuole in questo caso,
oltre far risparmiare ore di esercizi e compiti a casa o durante le vacanze,
responsabilizzare gli studenti con maggiori attività in classe. Si può dire che
c’è una continuità fra “Basta Compiti!” e “Studenti in cattedra”, seppur
minima?
C’è,
eccome! È ampiamente noto che per accrescere le facoltà mentali bisogna
disporre delle nozioni basilari, occorre cioè sapere, ma ben più rilevanti sono
le modalità di trattamento e uso delle informazioni e, più in generale, la
capacità di mobilitare strategicamente le abilità acquisite, di trasferirle in
contesti nuovi e diversi. Dunque è necessario imparare, ma è fondamentale
imparare a imparare. E la scuola cosa fa? Gli insegnanti danno i compiti a
casa, perché gli studenti imparino, memorizzando le nozioni, e imparino a
imparare, acquisiscano, cioè, il metodo di studio. Gli insegnanti spiegano a
scuola e gli alunni studiano a casa. In altre parole, a scuola s’insegna e a
casa s’impara. Uno stupefacente paradosso. Se la capacità di imparare è per gli
individui la risorsa più preziosa, allora la scuola dovrebbe considerarla una
priorità istituzionale, dovrebbe collocarla al centro della propria riflessione
pedagogica, dovrebbe concentrare su di essa il massimo impegno, dispiegare
tutti i mezzi disponibili e profondere le migliori energie, dovrebbe farne il
cuore della propria mission.
Cosa
ne pensa della riforma sulla valutazione e la condotta approvata recentemente
dal Governo?
Credo
che la scuola debba, innanzitutto “disarmarsi” rispetto alla valutazione,
smettere di usare il voto, alla stregua di un’“arma” spesso “impropria” e non
di rado letale, nel senso della mortalità scolastica, emendandone la pratica
dagli elementi di arbitrio che ne fanno lo strumento principe di un potere
esercitato anche abusivamente, con chiaro intento vessatorio. Altro è
condividere con gli studenti la valutazione delle conoscenze e delle
competenze, ma anche dei processi di apprendimento, dell’efficacia dell’azione
didattica, esplicitando e, laddove possibile, discutendo, concordando criteri e
strumenti, con il duplice risultato di sollecitare una maggiore attenzione,
quando non l’impegno diretto, da parte degli studenti, e di limitarne
l’esercizio arbitrario, umorale per non dire ideologico.
Perché
quindi condividere la valutazione con gli studenti?
Condividere
l’impegno della valutazione può aiutare gli studenti ad acquisire una maggiore
consapevolezza di sé e degli altri, un controllo più consapevole del proprio
agire, sostenendo gli stessi meccanismi di metacognizione, alla efficace
gestione dei quali è per molta parte affidato il successo non solo scolastico.
L’autorità della scuola e del docente è in primo luogo un riflesso
dell’autorità della cultura; non quella immediata che si respira negli ambienti
di vita o attraverso i social, bensì quella elaborata o rielaborata
incessantemente dall’educatore, affrontando le sfide del presente anche con gli
strumenti offerti dalla grande tradizione del passato. L’autorità affidata al
mero esercizio del potere impedisce la crescita, blocca le energie, spegne la
vita.
Nessun commento:
Posta un commento