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di Alessandro D’Avenia
A
casa si torna, a scuola si va. La lingua, quando è madre, non mente. C’è casa
infatti (anche a casa) dove e quando facciamo esperienza di appartenere alla
vita senza dover dimostrare nulla (avere, fare, apparire).
La
vita è infatti un’odissea perché, come nel poema omerico, è un lungo ritorno a
casa, dove chi ti ama ti riconosce mentre il mondo ti crede nessuno. A scuola
invece si va, perché c’è scuola (anche a scuola) dove e quando scopriamo il
modo che ciascuno ha di guardare e prendersi cura del mondo (campetto,
oratorio, pianoforte, parco, bar... e tutte le altre scuole possibili). Casa
non è «appartamento» (appartarsi) ma «appartenenza» (sentirsi voluti), scuola
non è «edificio» (il muro dei Pink Floyd) ma «auspicio» (il futuro, la parola
in latino indicava l’osservare il cielo per cogliere il volere divino nelle
decisioni da prendere).
Insomma,
casa è dove sempre posso essere, mi sento voluto nella vita, quindi ci torno;
scuola è dove sempre posso incontrare la vita, mi sento chiamato, quindi ci
vado. Dove al crescere dell’appartenenza cresce la libertà, è casa. Dove al
crescere dell’incontro cresce l’individuazione, è scuola. Tornare a casa,
essere, andare a scuola, crescere, sono i due movimenti dell’esistenza, a ogni
età. Dove torniamo o dove andiamo noi, oggi?
Ispirato
dal filosofo Ivan Illich mi servo dell’immagine della lumaca che con la sua
chiocciola «torna» e «va» al contempo.
Crescendo
secerne una sostanza calcarea con cui crea la conchiglia che fa da supporto
agli organi e riparo dai predatori.
Aggiunge
una spira all’altra secondo la proporzione aurea (rapporto armonico presente in
molti fenomeni naturali e imitato dall’uomo, per esempio, nelle misure di un
tempio greco o della carta di credito), e si ferma quando un anello in più
sarebbe sedici volte maggiore dell’ultimo, e la schiaccerebbe.
La
lumaca «torna» e «va» senza spezzare l’armonia tra dimensioni e bisogni, ciò
che invece a noi accade oggi con l’eccesso di strumenti (dai dispositivi alle
istituzioni) che invece di aiutarci a vivere ci opprimono, non riusciamo a
«tornare» e ad «andare». Perché infatti pur avendo «strumenti» come mai
accaduto nella storia, aumentano disuguaglianze, emergenze educative, patologie
psichiche e disagi sociali? Perché la «chiocciola» ci schiaccia.
Anche
quella della casella (altra «casa») mail: doveva semplificare il lavoro e
invece la temiamo come i nostri antenati le fiere, uno studio ha infatti
scoperto «le apnee» da apertura di posta elettronica, le stesse di chi, nella
preistoria, tratteneva il fiato per affrontare animali feroci. Se uno strumento
diventa un nemico non è più «salvifico». Salvo (e salute) ha una radice antica
che significa: integro, unito, tutt’uno. Uno strumento salva quando «integra» (unisce
a sé e agli altri), al contrario «dis-integra» (separa da sé e dagli altri).
Uno strumento salva quando estende/facilita l’azione personale senza rovinare
la salute (ci rende più sani...) e le relazioni (...e salvi). Ciò vale per
tutti i ritrovati culturali, dai dispositivi alle istituzioni. La scuola salva
se mi aiuta a diventare me stesso, se è una comunità di ricerca di adulti e
giovani, se mi rende soggetto di possibilità e non oggetto di aspettative. La
politica salva se facilita l’azione personale e sociale, altrimenti è solo
gestione del potere e controllo burocratico. Un telefono salva se mi unisce al
mondo non peggiorando la mia salute; se mi rende più autonomo, non dipendente;
se facilita il sapere e non mi sfrutta a mia insaputa.
Dove
prevale la disintegrazione non c’è salvezza ma repressione.
Questo
oggi succede anche al corpo, non vissuto come «casa» (sono un corpo) ma come
mezzo (ho un corpo) da rendere il più performante possibile (doping fisico e
psichico) fino a bruciarsi (burn-out) o a crollare (depressione). Non si torna
più a casa (dal corpo individuale a quello sociale), perché non si appartiene a
niente e nessuno, come invece fa chi si lega ad altri per scalare senza
sentirsi privato della libertà. Non si torna ma ci si intrattiene, cioè si è
«trattenuti», ognuno da solo col suo zaino sedici e più volte grande del
necessario. Allo stesso modo si smette di andare a scuola: un sistema basato su
precariato e burocrazia mortifica la relazione tra docenti e studenti e non
serve certo a trovare se stessi incontrando il mondo.
Come
dice splendidamente il filosofo spagnolo Esquirol nel recente La scuola
dell’anima: «C’è casa perché ci sono le intemperie. E le intemperie
richiedono protezione. C’è scuola perché c’è il mondo. E il mondo richiede
attenzione. Ci sono casa e scuola perché, nella protezione e nell’attenzione,
ognuno può percorrere la sua strada e maturare, per dare frutti. Che genere di
frutti? Più casa e più mondo».
Da
ciò che per ciascuno è tornare a casa o andare a scuola dipende, cioè, quanto
siamo felici (felice è chi dà frutti). Casa è per me incontrare il creato, come
mi è successo qualche giorno fa camminando in un bosco in cui la luce umida del
tardo pomeriggio trafiggeva l’intrico di abeti, pini e larici con lame luminose
che, tagliando il denso pulviscolo verde, raggiungevano un sottobosco di
cespugli, muschi e radici contratti dal sempre più silenzioso freddo autunnale.
Uno di quei momenti in cui la bellezza mi contiene e il cuore è quindi
«contento», dal latino «contenuto»: mi sento figlio. Il contrario del
«discontento», cioè «non contenuto» (senza legami), espulso, separato, orfano,
che provo in macchina nel traffico.
Andare
a scuola è quando leggo pagine che lavano cuore e mente dall’abitudine, dal
dato per scontato, dal pressappoco. Di recente mi è capitato con il De rerum
natura (La natura delle cose) di Lucrezio magistralmente tradotto dal poeta
Milo De Angelis. Un’immagine mi ha aperto gli occhi (dormiamo anche da
svegli?): il poeta latino Ennio immagina di ricevere la sua vocazione poetica
nell’aldilà, da Omero. Il poeta greco rivela a quello latino la natura di tutte
le cose, ma lo fa in lacrime.
È
l’essenza della scuola: trovare la nostra vocazione grazie a un maestro, che ci
indica sia che la vita finisce (è limitata) sia che è un miracolo inesauribile
(ci chiama), con lacrime rispettivamente di dolore e di gioia. Una pagina così
mi fa incontrare il mondo e trovare me stesso, perché è solo la verità che
rende liberi. Insomma casa e scuola ci accadono quando, una volta scoperto dove
si trovano per noi, vivere diventa moltiplicare ritorni e andate, per fare più
casa e più mondo. E se troviamo ostacoli o distrazioni, da lì deve cominciare
l’azione, per rimuoverli. Se abbiamo costruito una spira di troppo, non serve
dividersi tra apocalittici (il cellulare è morte!) e entusiasti (il cellulare è
vita!), ma discernere caso per caso, eliminando, in ogni strumento (dispositivo
o istituzione), il troppo, e custodendo il necessario.
Per
tornare a casa e andare a scuola non servono passi da gigante, ci vogliono
passi da lumaca, quando andare e tornare sono un unico movimento, verso la
gioia.
Alzogliocchiversoilcielo
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