Davvero la libertà
può essere
l’unico criterio
del bene e del male?
-
di Giuseppe Savagnone*
Giustizia
e vendetta
Fiumi
di parole sono stati versati sullo “stupro di Palermo” e non è il caso di
aggiungere altro su questo drammatico episodio di violenza. Vale la pena,
invece, di fermarsi a riflettere sul modo in cui esso è stato letto e
interpretato dai quotidiani e dall’opinione pubblica.
È
inquietante che molte reazioni siano state all’insegna di logiche del tutto
simmetriche, anche se in senso contrario, a quella dell’abuso stesso. In un
post che ha avuto vastissima eco, il cantante Ermal Meta – riferendosi all’immagine usata da uno degli
stupratori , che aveva parlato di «cento cani sopra una gatta» – ha scritto:
«Lì in galera, se mai ci andrete, ad ognuno di voi “cani” auguro di finire
sotto 100 lupi in modo che capiate cos’è uno stupro». Toni analoghi sui social,
dove del resto abitualmente si riversano stati d’animo poco inclini alla pacata
riflessione e alla moderazione.
Ora,
è perfettamente comprensibile e condivisibile l’indignazione per l’accaduto. Ma
la risposta alla gravità del delitto, in una società civile, non è il ricorso
alla legge del taglione – “occhio per occhio, dente per dente” – e tanto meno
il linciaggio. Fare giustizia comporta la rinuncia – a volte, come in questo
caso, difficile – ad abbandonarsi a stati d’animo incontrollati di odio e di
vendetta, che da un lato ledono il diritto dei sospettati alla difesa e al
legittimo dubbio sulle loro responsabilità (secondo l’art. 27 della nostra
Costituzione «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna
definitiva»), dall’altro rischiano di imbarbarire la comunità civile che vi si
abbandona, mettendola sullo stesso piano dei violenti che condanna.
Ma
si possono scambiare i “no” per sì”?
All’estremo
opposto il consiglio rivolto alle ragazze da Andrea Giambruno, giornalista di
Rete 4 e compagno della premier Giorgia Meloni, durante la puntata di Diario
del Giorno: «Se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di
incorrere in determinate problematiche perché poi rischi, effettivamente, che
il lupo lo trovi».
Una
frase che ha suscitato molte polemiche, perché è sembrata ribaltare sulla
vittima la responsabilità di quanto accaduto e riflettere una tendenza, ancora
molto diffusa nel nostro Paese, a sminuire le responsabilità di chi aggredisce
sessualmente una donna, puntando sulla vera o presunta equivocità dei
comportamenti di quest’ultima.
Proprio
nei giorni scorsi il GUP del tribunale di Firenze ha motivato l’assoluzione di
due ragazzi, 19enni all’epoca dei fatti, dall’accusa di violenza sessuale ai
danni di una 18enne, perché sarebbero stati sviati da una «errata percezione»
circa il presunto consenso da parte della ragazza. Secondo il magistrato
l’equivoco degli aggressori «se non cancella l’esistenza oggettiva di una
condotta di violenza sessuale, impedisce di ritenere penalmente rilevante la
loro condotta».
Si
ha l’impressione che molti – compresi anche dei giudici – non abbiano ancora
preso atto del cambiamento di costume intervenuto in questi anni nei rapporti
tra uomini e donne e continuino a dare credito allo stereotipo dei “no” detti
per civetteria e che nasconderebbe un implicito incoraggiamento. Così era
spesso in passato. Oggi una ragazza non ha più di questi falsi pudori a
manifestare il proprio consenso: se vuole dire “sì”, lo dice senza tanti giri
di parole, se dice “no” vuol dire “no”. E chi la forza a fare il contrario sta
violando la sua libertà.
Dietro
lo schermo
Una
reazione che fa molto riflettere è stata quella delle migliaia di persone che
su Telegram hanno scatenato una vera e propria caccia al video realizzato in
diretta da uno dei violentatori e diffuso in rete. Uno spettacolo, secondo lo
stile dominante nella nostra società, dove la realtà è ormai spesso
identificata con la sua rappresentazione virtuale.
Al
riparo dello schermo del proprio smartphone o del proprio computer si vogliono
vivere esperienze che non si avrebbe il coraggio di fare direttamente. Dove la
parola “schermo” assume il significato di “difesa”, “riparo”, come quando ci si
fa “schermo con le mani”.
Con
l’ovvia conseguenza di mettere alla gogna innanzi tutto la vittima della
violenza, che, oltre a subire quella dei sette energumeni che hanno abusato
fisicamente di lei, si trova ora massacrata da quella dei social, che
sanciscono pubblicamente il suo essere “oggetto”.
Davvero
la libertà può essere l’unico criterio del bene e del male?
Ma
c’è ancora un ultimo aspetto del dibattito che ha fatto seguito allo stupro di
Palermo e che forse è ancora più emblematico della profonda trasformazione
culturale che la nostra società ha vissuto rispetto al passato. Colpisce che la
condanna, giustissima, della violenza, da parte dei media e dell’opinione
pubblica, non abbia mai fatto ricorso alle categorie di “bene” e di “male”, ma
si sia fondata esclusivamente sulla violazione del diritto della ragazza di
disporre del proprio corpo.
È
per questo, non perché la dignità di un essere umano è stata calpestata,
ridotta dal branco ad oggetto di piacere, che stampa, associazioni femministe,
social, si sono indignati. Il male oggettivo della violenza che è stata
perpetrata è stato interamente risolto in quello della libertà o meno del
consenso.
Lo
squallore di un accoppiamento animalesco – «cento cani sopra una gatta» –
sarebbe d’incanto cancellato e riportato alla più accettabile normalità, se si
dimostrasse – come cercano di fare (peraltro, in questo caso, vanamente) gli
indiziati – che “la ragazza ci stava”. Niente è più buono o cattivo in sé,
l’unico parametro di valore è la percezione che ne ha l’individuo e che dà
significato ai fatti e ai comportamenti.
È
la logica a cui si ispira la nostra società anche nel campo della sessualità.
Nessuno si scandalizza della esibizione indiscriminata dei corpi – soprattutto
di quello femminile – per pubblicizzare prodotti commerciali o per alimentare
l’industria della pornografia. Ognuno del suo corpo può fare quello che vuole.
Salvo
poi a chiedersi se questa volontà sia davvero frutto di scelte consapevoli o
non venga a sua volta condizionata alla radice da una serie di fattori fisici,
psicologici, economici, sociali, culturali, che la rendono assai meno libera di
quanto crede di essere.
Quante
sono le donne che – all’insegna dell’orgoglioso slogan femminista “l’utero è
mio e ne faccio quello che voglio” – sono costrette, in realtà, a vivere il
trauma (così lo descrivono tutte) dell’aborto perché non sono in grado di
mantenere il figlio che dovrebbe nascere? E davvero la gestazione per altri –
che riduce l’intimo e delicato rapporto della madre biologica con il figlio che
le cresce in grembo a quello di una incubatrice – è una scelta indipendente
dalla necessità economica?
Il "libero" consenso
Del
resto, se fosse vero che la sola cosa che conta è il libero consenso, anche le
pratiche diffuse nel mondo islamico – la sottomissione incondizionata della
donna all’uomo, la rinunzia ai propri più elementari diritti, fino al caso
estremo dell’infibulazione – , a cui noi occidentali ci opponiamo denunciandole
come oggettive violazioni della piena umanità della persona, dovrebbero essere
considerate assolutamente “buone”, alla luce della diffusa accettazione che se
ne registra – da parte delle donne stesse – in quegli ambienti. Siamo disposti
ad accettarlo, o non propendiamo, piuttosto – giustamente – per mettere in
discussione una “libertà” che ci appare fortemente condizionata dall’educazione
e dal clima culturale?
Vogliamo
sostenere che la nostra invece ne sia esente? O dobbiamo onestamente
riconoscere l’influenza decisiva che le logiche del mercato capitalistico, il
consumismo dilagante, il circo mediatico, esercitano su di noi e ci fanno
credere di essere “liberi” nelle nostre scelte?
Non
si tratta, ovviamente, di rinunziare a seguire la propria valutazione
personale, ma di confrontarla incessantemente con una realtà umana che non si
riduce alla nostra percezione immediata di essa e tanto meno ai luoghi comuni
in circolazione, sforzandosi di scoprirne e di rispettarne la ricchezza.
Questo
ci aiuterebbe a situare un problema come quello della violenza sulle donne nel
contesto più ampio del significato della sessualità, consentendoci di
esercitare un sano senso critico nei confronti del consumismo e del potere (non
solo fisico) che oggi, al di là del caso degli stupri, lo distorcono.
E
di trasformare così una indignazione, che spesso si sviluppa prevedibilmente
all’interno dei quadri del politically correct, nella ricerca veramente
“rivoluzionaria” di una radicale alternativa all’esistente.
*Responsabile
del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo
Scrittore ed
Editorialista.
www.tuttavia.eu
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