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martedì 29 luglio 2025

IL LIVORE DEL BRANCO

 


IMMUNITA'

 DIGITALE

 


-       di Marinella Perroni

-        

Confesso di essermene stupita, e questa è sicuramente la prova che essere boomer è un condizionamento inesorabile.

Perché riservare un evento giubilare missionari digitali e influencer cattolici, una  categoria specifica, quando poteva forse rientrare in quello degli addetti alla comunicazione? 

 Non entro nel programma, che ha certamente un suo interesse specifico, dato che mira ad affrontare il tema della missione al tempo delle reti digitali, oltre che a richiamare a responsabilità il crescente numero di missionari digitali anche cattolici. Vorrei solo prendere lo spunto da qui per una riflessione a margine che non ritengo però marginale. 

 Quanto mi fa pensare è il repentino passaggio di testimone che c’è stato dalle agenzie educative – la famiglia, la scuola, le Chiese – agli influencer. Figure che non sono certo nate oggi, anche nelle Chiese. In molti abbiamo fatto l’esperienza di parroci che si servivano delle omelie domenicali per suggerire precise indicazioni di voto o di cardinali che hanno convinto a non andare a votare a un referendum. 

 

Il cortocircuito fra libertà e aggressione 

 

Che la propaganda sia una delle forze che muovono il mondo non è certo invenzione dell’era digitale, mentre lo è l’illusione che i propagandisti di ieri fossero schiavi di un’ideologia mentre quelli di oggi sarebbero liberi e aprono strade di libertà. 

 Non intendo qui, però, inoltrarmi nel complesso tema della propaganda. Quanto mi interessa è che il mondo della comunicazione, sia quello della carta stampata sia quello del web, è diventato il luogo privilegiato del cortocircuito tra libertà di espressione e aggressività verbale. 

 E ha creato una sorta di “grande fratello influencer”. Più che per le cose che comunica, per “come” le comunica. Non coincide con una persona, ma è piuttosto un clima, una sottile ma potente forza motrice di modi di pensare e di sentire collettivi. 

 A una diffusa “mala educazione” digitale che non soltanto distorce la realtà, ma inquina anche la comunicazione perché istilla false pretese e paure, paghiamo ogni giorno un prezzo molto alto. 

 Mi limito a un esempio, che però mi sta particolarmente a cuore perché riguarda un personaggio pubblico a cui sono legata da un’amicizia carica di stima. È però solo uno tra i tanti, e riferirmi a lui mi permette soltanto di mettere a fuoco il meccanismo perverso che viene oggi contrabbandato come libertà di espressione. 

 Mirare al bersaglio: Antonio Spadaro 

 Nel giro di due giorni, diversi quotidiani (Il Giornale, Libero, Il Tempo, Il Foglio) e alcuni siti cari al tradizionalismo cattolico (Silere non possum, Stilum curiae) hanno preso di mira padre Antonio Spadaro, il gesuita che è stato negli ultimi dodici anni il reporter privilegiato di papa Francesco, il primo papa gesuita della storia. 

 Affinità, amicizia, reciproca stima hanno fatto sì che padre Spadaro mettesse il suo mestiere di giornalista a servizio di un pontificato come quello di Bergoglio il cui magistero si è articolato in un ricco intreccio di parole e gesti. 

 La capacità interpretativa di Spadaro ha provato a rendere conto di questo intreccio e soprattutto del suo impatto, ma anche di rintracciarne l’ispirazione e suggerirne le finalità. Si può ritenere discutibile il modo in cui Spadaro ha assolto questo compito e io stessa ho avuto più volte occasione di discuterne con lui. Ma il problema non è questo. 

 Quello che colpisce è che, con precisione quasi chirurgica, un gruppo di soggetti accreditati all’informazione e, per di più, all’informazione vaticana, più vicini però ai mitici “leoni da tastiera” che non a genuini opinion makers, abbiano coinciso nei tempi e nei modi per lanciare un’offensiva contro Spadaro che gli riservava, di fatto, solo insulti. 

 Posso supporre che, se fosse ancora tra noi, papa Francesco direbbe al suo confratello «se la prendono con te, ma ce l’hanno con me». Fatto lampante, peraltro, perché gli stessi giornalisti non hanno lesinato offese verbali tanto gravi quanto grevi anche nei suoi confronti durante il suo pontificato: Francesco è stato il primo pontefice a confrontarsi frontalmente con la manipolazione della realtà al soldo di interessi settari tipica dell’epoca dei social e con un complottismo che, per quanto ridicolo, è stato però quanto mai penetrante. 

 Una situazione con cui anche Leone XIV dovrà presto fare i conti e che in fondo ha, però, anche un suo lato illuminante. Ha, infatti, svelato il segreto profondo di molti cuori, dato che anche chi si è sempre professato difensore ad ogni costo della figura in quanto tale del Pontefice romano, perché a lui solo va tributato onore e riconosciuta obbedienza, si è trasformato in professionista del dileggio, della provocazione, dell’oltraggio nei confronti di un papa che si permetteva di non rispondere alle sue aspettative. Ma torniamo a Spadaro. 

 I suoi detrattori sono partiti tutti nello stesso momento e tutti con lo stesso tono. Poco importa se spinti da una medesima occasione, l’annuncio della prossima uscita di un suo libro, oppure per un ordine di scuderia dato che, in fondo, nessuno di loro è entrato nel merito del libro, ma tutti si sono limitati solo a insultarne l’autore. Il tentativo di Spadaro di rilevare una linea di continuità tra Bergoglio e Prevost a partire dal magistero del primo e da interessanti dichiarazioni fatte dal secondo in un’intervista di alcuni mesi fa può essere legittimamente giudicato una pretesa inconsistente. 

 Sappiamo tutti, infatti, che l’assunzione di un ruolo può determinare un cambiamento decisivo nelle presone ma, soprattutto, dodici anni di pontificato non sono un’unità di misura paragonabile a idee espresse in un’intervista, per quanto seria essa possa essere. 

 Io stessa, d’altro canto, ho discusso con Spadaro sulla sua pretesa, eccessivamente cattolica a mio avviso, di stabilire sempre e comunque legami di continuità anche quando farebbe invece molto bene riflettere su decisivi elementi di rottura: mi aveva già lasciata perplessa, in fondo, l’opinione di Benedetto XVI quando, parlando con il clero romano, aveva sostenuto che l’ermeneutica della continuità e non quella della discontinuità dovevano guidare il giudizio sul Vaticano II. 

 Le idee di Spadaro sono del tutto discutibili, ma magari, prima, è necessario leggerle e ancora più necessario è provare ad elaborare un’argomentazione critica. 

 Ma proprio qui viene il punto che mi sta a cuore mettere in risalto. Perché si passa dalla legittima, anzi del tutto necessaria, possibilità di discutere i punti di vista alla precisa volontà di offendere le persone? E ci si trasforma in mestatori che volutamente hanno come unico scopo quello di sfregiare l’immagine di una persona? 

 Si tratta di un processo che dovremmo cercare di mettere sempre più a fuoco in questa nostra epoca in cui in troppi pretendono di influenzare i sentimenti prima ancora che le idee. 

 Quando il livore detta legge 

 Il caso Spadaro mi sta a cuore per amicizia, ma soprattutto perché è indicativo del clima che, purtroppo, sta diventando tossico anche nella mia Chiesa. Alla base di questo meccanismo perverso che sposta l’attenzione dalla discussione sulle idee all’oltraggio delle persone c’è un incontenibile livore. 

 Nei confronti di papa Francesco ha accompagnato tutti i giorni del suo pontificato e alimenta la damnatio memoriae che ha avuto inizio il giorno stesso della sua morte. Un livore che deve essere cresciuto a dismisura durante il silenzioso quanto imponente abbraccio di folla che ha accompagnato il suo ultimo viaggio in papamobile verso il luogo della sua sepoltura. 

 Se per molti ha prevalso la commozione, per alcuni specialisti dell’odio seriale ha invece prevalso il livore, e il livore, si sa, ha grande forza di collante. Creare un nemico e riservargli sarcasmo, disprezzo, sfregio è chiara attestazione della volontà di annichilire ciò (o chi) con cui non si sa avere a che fare. 

 Le nostre cronache, d’altro canto, sono piene di sfregi, siano essi nei confronti delle pietre di inciampo o di monumenti alla memoria di chi è stato ucciso per le sue idee. Vige il principio: non sei in grado di costruire nulla, sfregia ciò che qualcun altro ha costruito, non sei in grado di rendere ragione dei tuoi valori, sputa su quelli di altri. 

 La protezione dell’immunità 

 Ma c’è qualcosa di ancora più distruttivo, a mio avviso, in questo modo di fare l’influencer all’arma bianca ed è l’assoluta immunità da cui ci si sente protetti in nome di un vero e proprio simulacro della libertà di espressione. Un’immunità che fa pensare. 

 Quella parlamentare, prevista dalla Costituzione a tutela dal rischio di ingerenze dittatoriali, si è ormai trasformata in un privilegio di casta tanto scontato quanto pericoloso. 

 L’immunità digitale, invocata come espressione del più alto valore democratico, la libertà di espressione, si sta trasformando in un non meno pericoloso corrosivo della tenuta sociale. 

 La libertà di espressione è e resta certamente un diritto fondamentale, ma la grammatica e la sintassi dell’espressione sono e restano uno dei primi doveri delle istituzioni, che devono farsene carico. 

Nessuno pensa a una censura imposta dal padrone di turno, ma certamente l’anarchia delle parole non tutela la libertà né costruisce la responsabilità, ma anzi è preludio, a volte anche ben orchestrato, di pericolosi irrigidimenti del potere. 

 E sono convinta che la legittimazione silenziosa dell’immunità digitale contribuisce a trasformare un gruppo umano in un branco, dominato dalla pretesa di ciascuno di avere ragione piuttosto che dalla capacità di ciascuno di discutere le ragioni di tutti.

 Fonte: SettimanaNews

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sabato 2 settembre 2023

LO SQUALLORE DEL BRANCO


 Davvero la libertà 
può essere 

l’unico criterio 

del bene e del male?




- di Giuseppe Savagnone*

 Giustizia e vendetta

Fiumi di parole sono stati versati sullo “stupro di Palermo” e non è il caso di aggiungere altro su questo drammatico episodio di violenza. Vale la pena, invece, di fermarsi a riflettere sul modo in cui esso è stato letto e interpretato dai quotidiani e dall’opinione pubblica.

 È inquietante che molte reazioni siano state all’insegna di logiche del tutto simmetriche, anche se in senso contrario, a quella dell’abuso stesso. In un post che ha avuto vastissima eco, il cantante Ermal Meta  – riferendosi all’immagine usata da uno degli stupratori , che aveva parlato di «cento cani sopra una gatta» – ha scritto: «Lì in galera, se mai ci andrete, ad ognuno di voi “cani” auguro di finire sotto 100 lupi in modo che capiate cos’è uno stupro». Toni analoghi sui social, dove del resto abitualmente si riversano stati d’animo poco inclini alla pacata riflessione e alla moderazione.

 Ora, è perfettamente comprensibile e condivisibile l’indignazione per l’accaduto. Ma la risposta alla gravità del delitto, in una società civile, non è il ricorso alla legge del taglione – “occhio per occhio, dente per dente” – e tanto meno il linciaggio. Fare giustizia comporta la rinuncia – a volte, come in questo caso, difficile – ad abbandonarsi a stati d’animo incontrollati di odio e di vendetta, che da un lato ledono il diritto dei sospettati alla difesa e al legittimo dubbio sulle loro responsabilità (secondo l’art. 27 della nostra Costituzione «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva»), dall’altro rischiano di imbarbarire la comunità civile che vi si abbandona, mettendola sullo stesso piano dei violenti che condanna.

 Ma si possono scambiare i “no” per sì”?

All’estremo opposto il consiglio rivolto alle ragazze da Andrea Giambruno, giornalista di Rete 4 e compagno della premier Giorgia Meloni, durante la puntata di Diario del Giorno: «Se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche perché poi rischi, effettivamente, che il lupo lo trovi».

Una frase che ha suscitato molte polemiche, perché è sembrata ribaltare sulla vittima la responsabilità di quanto accaduto e riflettere una tendenza, ancora molto diffusa nel nostro Paese, a sminuire le responsabilità di chi aggredisce sessualmente una donna, puntando sulla vera o presunta equivocità dei comportamenti di quest’ultima.

 Proprio nei giorni scorsi il GUP del tribunale di Firenze ha motivato l’assoluzione di due ragazzi, 19enni all’epoca dei fatti, dall’accusa di violenza sessuale ai danni di una 18enne, perché sarebbero stati sviati da una «errata percezione» circa il presunto consenso da parte della ragazza. Secondo il magistrato l’equivoco degli aggressori «se non cancella l’esistenza oggettiva di una condotta di violenza sessuale, impedisce di ritenere penalmente rilevante la loro condotta».

Si ha l’impressione che molti – compresi anche dei giudici – non abbiano ancora preso atto del cambiamento di costume intervenuto in questi anni nei rapporti tra uomini e donne e continuino a dare credito allo stereotipo dei “no” detti per civetteria e che nasconderebbe un implicito incoraggiamento. Così era spesso in passato. Oggi una ragazza non ha più di questi falsi pudori a manifestare il proprio consenso: se vuole dire “sì”, lo dice senza tanti giri di parole, se dice “no” vuol dire “no”. E chi la forza a fare il contrario sta violando la sua libertà.

 Dietro lo schermo

Una reazione che fa molto riflettere è stata quella delle migliaia di persone che su Telegram hanno scatenato una vera e propria caccia al video realizzato in diretta da uno dei violentatori e diffuso in rete. Uno spettacolo, secondo lo stile dominante nella nostra società, dove la realtà è ormai spesso identificata con la sua rappresentazione virtuale.

 Al riparo dello schermo del proprio smartphone o del proprio computer si vogliono vivere esperienze che non si avrebbe il coraggio di fare direttamente. Dove la parola “schermo” assume il significato di “difesa”, “riparo”, come quando ci si fa “schermo con le mani”.

 Con l’ovvia conseguenza di mettere alla gogna innanzi tutto la vittima della violenza, che, oltre a subire quella dei sette energumeni che hanno abusato fisicamente di lei, si trova ora massacrata da quella dei social, che sanciscono pubblicamente il suo essere “oggetto”.

 Davvero la libertà può essere l’unico criterio del bene e del male?

Ma c’è ancora un ultimo aspetto del dibattito che ha fatto seguito allo stupro di Palermo e che forse è ancora più emblematico della profonda trasformazione culturale che la nostra società ha vissuto rispetto al passato. Colpisce che la condanna, giustissima, della violenza, da parte dei media e dell’opinione pubblica, non abbia mai fatto ricorso alle categorie di “bene” e di “male”, ma si sia fondata esclusivamente sulla violazione del diritto della ragazza di disporre del proprio corpo.

 È per questo, non perché la dignità di un essere umano è stata calpestata, ridotta dal branco ad oggetto di piacere, che stampa, associazioni femministe, social, si sono indignati. Il male oggettivo della violenza che è stata perpetrata è stato interamente risolto in quello della libertà o meno del consenso.

 Lo squallore di un accoppiamento animalesco – «cento cani sopra una gatta» – sarebbe d’incanto cancellato e riportato alla più accettabile normalità, se si dimostrasse – come cercano di fare (peraltro, in questo caso, vanamente) gli indiziati – che “la ragazza ci stava”. Niente è più buono o cattivo in sé, l’unico parametro di valore è la percezione che ne ha l’individuo e che dà significato ai fatti e ai comportamenti.

 È la logica a cui si ispira la nostra società anche nel campo della sessualità. Nessuno si scandalizza della esibizione indiscriminata dei corpi – soprattutto di quello femminile – per pubblicizzare prodotti commerciali o per alimentare l’industria della pornografia. Ognuno del suo corpo può fare quello che vuole.

 Salvo poi a chiedersi se questa volontà sia davvero frutto di scelte consapevoli o non venga a sua volta condizionata alla radice da una serie di fattori fisici, psicologici, economici, sociali, culturali, che la rendono assai meno libera di quanto crede di essere.

 Quante sono le donne che – all’insegna dell’orgoglioso slogan femminista “l’utero è mio e ne faccio quello che voglio” – sono costrette, in realtà, a vivere il trauma (così lo descrivono tutte) dell’aborto perché non sono in grado di mantenere il figlio che dovrebbe nascere? E davvero la gestazione per altri – che riduce l’intimo e delicato rapporto della madre biologica con il figlio che le cresce in grembo a quello di una incubatrice – è una scelta indipendente dalla necessità economica?

Il "libero" consenso

 Del resto, se fosse vero che la sola cosa che conta è il libero consenso, anche le pratiche diffuse nel mondo islamico – la sottomissione incondizionata della donna all’uomo, la rinunzia ai propri più elementari diritti, fino al caso estremo dell’infibulazione – , a cui noi occidentali ci opponiamo denunciandole come oggettive violazioni della piena umanità della persona, dovrebbero essere considerate assolutamente “buone”, alla luce della diffusa accettazione che se ne registra – da parte delle donne stesse – in quegli ambienti. Siamo disposti ad accettarlo, o non propendiamo, piuttosto – giustamente – per mettere in discussione una “libertà” che ci appare fortemente condizionata dall’educazione e dal clima culturale?

 Vogliamo sostenere che la nostra invece ne sia esente? O dobbiamo onestamente riconoscere l’influenza decisiva che le logiche del mercato capitalistico, il consumismo dilagante, il circo mediatico, esercitano su di noi e ci fanno credere di essere “liberi” nelle nostre scelte?

 Non si tratta, ovviamente, di rinunziare a seguire la propria valutazione personale, ma di confrontarla incessantemente con una realtà umana che non si riduce alla nostra percezione immediata di essa e tanto meno ai luoghi comuni in circolazione, sforzandosi di scoprirne e di rispettarne la ricchezza.

 Questo ci aiuterebbe a situare un problema come quello della violenza sulle donne nel contesto più ampio del significato della sessualità, consentendoci di esercitare un sano senso critico nei confronti del consumismo e del potere (non solo fisico) che oggi, al di là del caso degli stupri, lo distorcono. 

 E di trasformare così una indignazione, che spesso si sviluppa prevedibilmente all’interno dei quadri del politically correct, nella ricerca veramente “rivoluzionaria” di una radicale alternativa all’esistente.

 

*Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo

Scrittore ed Editorialista.

www.tuttavia.eu


 

martedì 22 agosto 2023

LA VIOLENZA DEL BRANCO

 

Il fenomeno delle "baby gang", tristemente presente in varie città italiane, dal Nord al Sud, interpella istituzioni e singoli cittadini. Serve ben poco esternare meraviglia e condanna. Occorre  vigilare, chiedersi il perchè e cercare risposte educative a questo grave problema, promuovendo opportune alleanze educative. 

Ne siamo tutti responsabili. 

                                                                                                                                                                                 -  di  Leonardo Cecchi

Per curiosità, stamani ho cercato su Google “Baby gang” e messo la sezione “Notizie”.

MMi aspettavo che la vicenda di Palermo monopolizzasse (giustamente) tutta la ricerca, ma mi sbagliavo. E di grosso.

Solo negli ultimi giorni, a Teramo un gruppo di ragazzini si è affrontato a colpi di machete (non coltello: machete).

A Ostia un branco di 60 ragazzi ha organizzato un vero e proprio tour all’insegna di vandalismo e violenza, terrorizzando il centro.

A Torino 3 persone sono state pestate a sangue per noia da un altro gruppo.

Vicino Taranto un altro branco di minorenni ha massacrato di botte e poi accoltellato un cane poco più che cucciolo “adottato” dalla comunità, solo perché voleva giocare con loro.

E ancora, ancora, ancora. Botte, raid, stupri, rapine sfide di vario genere che prevedono violenza. Non si sta dietro a tutti i fatti accaduti negli ultimi 3-4 giorni.

 Penso dunque che la nostra società, oggi, sia letteralmente sotto assedio. E il nemico alle porte si chiama “male”. E no, non è retorica: è male nel senso quasi religioso del termine. Il “male” come elemento assoluto, puro, deumanizzante. Come “vuoto”, assenza di spirito, etica, morale di qualsivoglia tipo. Quel male corre con la non-cultura di oggi. Origina dall’individualismo sfrenato, che abbatte ogni forma di etica (voglio divertirmi e se il mio divertimento è stuprare, picchiare, accoltellare lo faccio: tutto va bene per appagare i miei “bisogni”).

Dalla totale mancanza di cultura. Ma prospera – e voglio dirlo chiaro – grazie a genitori peggiori dei figli. Genitori che non solo non fanno da barriera al male che entra dentro i loro figli, ma ne agevolano la fioritura dentro gli stessi dando loro esempi di malvagità, cinismo, avidità, egoismo e bruttezza morale in maniera quotidiana (quanti ne ho visti così).

L’ennesima prova è la madre di uno degli stupratori di Palermo, che ha suggerito al figlio di nascondere il telefono e dire che la ragazza è una poco di buono. Ma troppi ce ne sono.

Intelligente sarebbe oggi riformare i servizi sociali, che per un motivo o per un altro oggi non funzionano (se funzionassero non avremmo migliaia di baby gang con genitori peggiori dei figli). E darsi davvero da fare per intervenire sempre e comunque, togliendo i figli quando si ravvisano situazioni del genere.

È drastico, lo so. Ma l’alternativa è consentire a quel male di continuare a prosperare. Mietendo altre vittime come la ragazza di Palermo.

E direi che non possiamo permettercelo.

giovedì 13 ottobre 2022

ADOLESCENTI NEL BRANCO

BABY GANG

“Giovani fragili spinti nel branco da adulti iper protettivi o assenti”

Quello delle baby gang composte da minorenni stranieri o italiani è un preoccupante fenomeno in crescita. Un disagio e una violenza frutto di molte fragilità

Un fenomeno crescente quello delle “baby gang”, gruppi di minorenni autori di gesti criminali e di violenza, e anche di vere e proprie guerre tra bande. Tra i casi più recenti quello che ha portato all’arresto di quattro ragazzi di origine egiziana, all’epoca dei fatti minorenni, che assaltavano automobili dove si trovavano prostitute con i loro clienti, sfasciavano le macchine e picchiavano gli adulti, dando come unica motivazione “odiamo gli italiani”.

-Paolo Vites 

 Nell’area che ospita i centri commerciali tra Unipol Arena e Palasport di Casalecchio, a Bologna, una decina di minorenni è stata identificata dopo che i clienti avevano denunciato scontri continui fra bande nei weekend. Infine, a Milano una vera faida tra due trapper e i loro seguaci, coinvolti anche in una violenta sparatoria in cui erano stati gambizzate due persone provenienti dal Ghana.

Secondo don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile di Milano Beccaria e fondatore della comunità di accoglienza Kayròs, “il fenomeno coinvolge anche ragazzi italiani, spesso di buona famiglia, con genitori molto protettivi che permettono loro tutto e di conseguenza cresciuti con fragilità evidenti e incapacità ad affrontare la realtà e le fatiche quotidiane”.

Come cappellano di un carcere minorile ha sicuramente avuto a che fare con membri di queste baby gang, che si dice siano in gran parte composte da ragazzi stranieri di seconda o terza generazione. E’ così?

Proprio in questi giorni è uscita una indagine su questo fenomeno condotta dall’Università Cattolica insieme al Dipartimento giustizia minorile. I dati parlano di un fenomeno trasversale che riguarda ragazzi di seconda e terza generazione, ma anche ragazzi italiani. Al Beccaria e nella mia comunità ne ho incontrati parecchi.

Cosa c’è alla base di questi loro comportamenti?

Il disagio, anche se motivato da logiche diverse, ha come tratto comune la fragilità e soprattutto la sfiducia verso il mondo adulto e verso le istituzioni. Chiaramente le motivazioni sono diverse a seconda dei singoli casi. C’è chi lamenta un vuoto e una assenza totale dello Stato nei loro quartieri e nelle loro case popolari. Si costituiscono come una società tra pari, dove l’adulto è annullato perché di fatto non c’è mai stato. Si fanno giustizia da sé, fanno tutto in autarchia. Ci sono poi i minori stranieri non accompagnati che hanno una forte esposizione al crimine, ragazzi che non trovano collocazione nelle poche comunità, perché non ci sono abbastanza posti per accoglierli. Solo a Milano ne abbiamo mille che vivono per le strade e sono più esposti a commettere crimini per soldi. Infine ci sono gli italiani che emulano i comportamenti dai social e cercano di farsi rispettare in una logica tribale.

Molti dei ragazzi italiani sono anche di buona famiglia, vero? Si può dire che con questi legami cercano di far fronte a una sorta di noia esistenziale?

Sono ragazzi che spesso sono eccessivamente protetti dalle famiglie. Questa cura eccessiva porta a ragazzi insicuri e fragili, che davanti alle difficoltà non hanno la capacità di affrontare i fallimenti o le fatiche. Sono abituati a ottenere tutto dai genitori e di fronte a un brutto voto scolastico soccombono e precipitano in queste condotte che sono deresponsabilizzanti: si va dietro al branco per coprire la propria inconsistenza.

Branchi dove per entrarne a far parte si deve dimostrare di essere un duro?

Sì. C’è un aspetto purtroppo non tenuto in debito conto, il consumo di sostanze stupefacenti e di alcol. Stiamo assistendo a un ritorno molto pericoloso al consumo di alcol. Molti crimini adolescenziali sono legati al consumo di droghe euforizzanti come la cocaina e questo è un problema che bisogna affrontare.

Come ci si può approcciare nel modo giusto a questi ragazzi che hanno deciso di auto-escludersi dal mondo?

Bisogna andare dove sono, avere il coraggio di entrare nei loro quartieri, di entrare nei loro linguaggi, accoglierli nella loro diversità. Non ci sono grandi strategie, se non l’ascolto attento. E bisogna sollecitare le istituzioni affinché diano loro un tessuto sociale dignitoso in cui vivere.

Il Sussidiario

lunedì 8 novembre 2021

RAGAZZI IN BRANCO


Tredicenni in branco

sempre più terribili 

ed imprevedibili 

Una realtà che dalla provincia si sta ambientando anche a Milano. Si muovono a gruppi e assaltano i coetanei a caso, strappando catenine o cuffiette. I padri se la prendono con le forze dell’ordine

 di Andrea Galli

 Non la pianificazione e la strategia operativa da banda, ma estemporanee azioni da predatori di strada; non l’obiettivo prefissato di un dichiarato bottino quali scarpe oppure giubbotti di marca, ma il depredare quel che capita; una generale banalizzazione del male e delle sue conseguenze — ovvero l’indifferenza verso i guai legali — che unisce ragazzini e ragazzine, a volte di 12 e 13 anni dunque nemmeno imputabili, di variegata provenienza famigliare, spesso figli di genitori separati oppure, se ancora insieme, ognuno per proprio conto, e senza nessuna categorizzazione di nazionalità, ché sapere di brutte cose combinate dagli stranieri aiuta a mondare la coscienza, pur restando latente il tema delle seconde generazioni. Ma nel suo complessivo, non è questo il caso, e comunque, anche laddove ci sono minori marocchini ed egiziani, qui sono nati e cresciuti. Ebbene, specie tra Saronno e Gallarate, per origini che potrebbero/dovrebbero interrogare i sociologi e dapprima papà e mamme, insegnanti, istituzioni (qui il parere dell’esperta della polizia Ornella Della Libera), in realtà proseguendo una sequenza già deflagrata dopo i lockdown della pandemia la provincia di Varese conteggia, come altre zone ma allo stesso tempo come poche altre, diffuse e ampie problematiche relative alla delinquenza minorile.

La puntuale opera di contrasto del Comando provinciale dei carabinieri e della Questura, con il primo più efficace sul territorio grazie alle caserme sparse e alla cognizione di causa di determinate manifestazioni sociali, non permette di sottovalutare la portata degli episodi. Sapere cioè che tanto, e nemmeno alla lunga, nessuno la fa franca, diventa anzi un ulteriore strumento, in virtù di verbali e ordinanze lette dal Corriere insieme ai colloqui svolti con gli investigatori, per inquadrare che cosa sta succedendo da queste parti. Senza la presenza, a monte, e sono i medesimi investigatori a sottolinearlo, di un devastante «caso-Varese», di una degenerazione priva di argine, pur se certe situazioni, a cominciare dai reati commessi dalle ragazzine, inquadrano una realtà che dalla provincia si sta ambientando anche a Milano, dove gli specifici fatti, non continuamente denunciati, sono in aumento.

Il materiale che abbiamo esaminato e l’analisi che ne deriva, al netto delle ovvie differenziazioni e specificità, fa emergere rapine improvvisate: per esempio un gruppo composto da una decina di unità transita in un giardinetto, così come a bordo di un treno delle Nord e all’esterno di una scuola, incrocia un coetaneo, lo assale. Se quello ha addosso delle cuffiette, anche di scarso valore, vengono rubate; se porta una catenina con il crocefisso, idem; se ha un cappello che piace a uno del gruppo, gli si porta via quello; se in tasca tiene 13 euro in maggioranza monetine, spariscono. Non si decide a priori il bottino, e neanche che oggi anziché domani sono in programma scorrerie; tutto, come detto, ha una tempistica istantanea che dipende dai luoghi, dalle circostanze.

Una volta acquisita la merce, si valuta di conseguenza, e una catenina finisce al compro oro ignorando, oppure fregandosene, la possibilità che gli impiegati del negozio possano avvisare le forze dell’ordine. E comunque, quand’anche queste siano in avvicinamento, magari per soccorrere una vittima che ha dato l’allarme, e convergano sulla scena del crimine, i giovanissimi predatori da strada rimangono nei paraggi, con la facile conclusione d’essere individuati e fermati. Un atteggiamento di maldestra sufficienza, un’ulteriore sfida o un solido menefreghismo verso il mondo degli adulti? Dalle ordinanze ambientate a Saronno, nelle vicinanze della stazione ferroviaria di piazzale Cadorna, emerge la persecuzione dei bersagli. Persecuzione perché, successivamente alla rapina, è avvenuto che le vittime venissero inseguite, con la costante minaccia alle spalle di starsene zitti e di nulla dire a casa.

Ma poi, la casa: accadimento riportato a Milano dalle donne e dagli uomini di pattuglia, la reazione del genitore che arrivano in commissariato o in caserma contempla scenari di gran fastidio per esser stati disturbati; oppure, in una frequenta tecnica di neutralizzazione di un comportamento deviante, se la prendono con le forze dell’ordine colpevoli, a loro dire, di aver esagerato, di aver preso di mira dei bravi educati ragazzini. La sintesi mediatica secondo la quale la litigiosità e la crescita esponenziale della delinquenza minorile sia un esclusivo effetto collaterale della pandemia, pertanto un dolo della natura e magari della politica, non incontra credito negli inquirenti: i gip evidenziano profili con esigenze serie e stringenti di un processo di rieducazione, con l’assenza di auto-disciplina e auto-controllo, con mediocri se non impalpabili figure educazionali di riferimento.

 

L’esperta: «Vivono una realtà virtuale senza figure di riferimento. Per loro contano solo i soldi»

 

CORRIERE DELLA SERA