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di Francesca Chiarenza
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«Dio,
patria e famiglia»
In
un’Europa sempre più scristianizzata, a difendere Dio, a quanto pare, è rimasta
Giorgia Meloni. Lo ha fatto nel suo discorso al Demographic Summit di Budapest,
dentro il museo delle Belle Arti, davanti a un dipinto di El Greco che, quasi
simbolicamente, rappresentava l’agonia di Gesù nell’orto del Getsemani, l’ora
forse più drammatica della sua esistenza terrena.
E
drammatico è lo scenario che la premier italiana ha delineato: «Viviamo in
un’era in cui tutto ciò che ci definisce è sotto attacco. Questo è pericoloso
per la nostra identità nazionale, per la famiglia, per la nostra religione.
Senza questa identità siamo solo dei numeri senza una consapevolezza, strumenti
nelle mani di chi ci vuole usare». E ha evocato la necessità di una «grande
battaglia» a favore delle famiglie. È stato a questo punto che ha parlato di
Dio: «Difendere le famiglie significa difendere l’identità, difendere Dio, e
tutte le cose che hanno costruito la nostra civiltà».
Parole
che riprendono, quasi alla lettera, lo slogan «Dio, patria e famiglia» , che
del resto già in altre occasioni Meloni ha pubblicamente difeso dai sarcasmi
dissacratori di una sinistra che lo ha sempre considerato un motto fascista.
Il
caso più clamoroso era stato quello della ex senatrice PD Monica Cincinnà che,
in un corteo femminista del 2019 a Roma, aveva esibito un cartello con la
scritta: «Dio-Patria-Famiglia: che vita de merda». Sta di fatto che oggi, a
distanza di quattro anni, la Cirinnà non è più in Parlamento (non è stata
rieletta), mentre Giorgia Meloni, in nome di quel motto, è diventata presidente
del Consiglio.
In
realtà, anche se lo slogan ha avuto grande diffusione proprio nel ventennio
fascista, Meloni ha sempre rivendicato il fatto che esso in realtà risale a
Mazzini, che sicuramente non può essere identificato con un precursore del
totalitarismo di destra. Però forse non sa – o ha dimenticato di precisare –
che nel pensiero mazziniano la formula completa, contenuta nell’opera I doveri
dell’uomo, del 1860, è: «Dio, Umanità, Patria e Famiglia». E l’omissione di uno
di questi termini non è insignificante per l’interpretazione del significato
degli altri.
Il
Dio della nostra identità nazionale
Questo
vale già per il primo dei valori chiamati in causa, quello religioso. Di quale
Dio parlasse la premier nel suo discorso di Budapest lo si evince da quello che
ha detto: «Sono donna, sono madre, sono cristiana e nessuno me lo può
togliere». È dunque il Dio della tradizione cristiana, più precisamente di
quella cattolica, che la «grande battaglia», a cui saremmo chiamati a
partecipare , deve «difendere». Contro chi?
Sicuramente
contro una deriva culturale che ne annulla ogni rilevanza nella vita sia
pubblica che privata, riducendolo a un ricordo del passato. Ma, sganciato dal
riferimento all’Umanità, il richiamo a questo Dio rischia di diventare una
bandiera per giustificare anche la «difesa dei confini» contro i fedeli di
altre religioni, anch’essi credenti in Dio, ma diverso da quello cattolico.
Meloni,
per la verità, ha sempre riconosciuto che non si può generalizzare – come fa
Salvini – , estendendo a tutto l’Islam l’accusa di essere incompatibile con i
nostri valori e la nostra civiltà. Ma, di fatto, i suoi interventi sono sempre
stati volti a sottolineare la minaccia fisica – il terrorismo – , e soprattutto
cultuale rappresentata da questa religione.
Una
minaccia che si collega a quella di una «sostituzione etnica» – e qui entrano
in gioco i temi della patria e della famiglia – evocata nella primavera scorsa
dal ministro Lollobrigida (cognato, fra l’altro, della premier e suo stretto
collaboratore): «Non possiamo arrenderci», ha detto il ministro, «all’idea
della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo
con qualcun altro».
Il
problema demografico è strettamente connesso, in questa prospettiva, a quello
dell’identità nazionale, ed entrambi hanno come sfondo quello della identità
religiosa. È la sostanza del discorso di Budapest: «Difendere le famiglie
significa difendere l’identità, difendere Dio».
La
fallimentare battaglia per la “difesa dei confini”
Non
si tratta di astratte formulazioni concettuali. La “dimenticanza” del termine
che Mazzini premetteva a quelli “patria” e “famiglia” – “umanità” – ha fatto sì
che, prima nel programma della destra italiana, poi nella sua azione di
governo, uno dei punti centrali e caratterizzanti sia stato l’impegno per
impedire l’arrivo in Italia dei migranti provenienti dai Paesi più poveri
dell’Africa e dell’Asia, considerati alla stregua di “invasori”.
Secondo
questa linea non si tratta solo di gestire correttamente la loro
redistribuzione in altre nazioni europee. Di fatto, il nostro governo non ha
rispettato gli accordi che regolavano questi “ricollocamenti”, provocando,
proprio in questi giorni, la reazione di Francia e Germania, che hanno chiuso
le loro frontiere con l’Italia.
Ma
il punto è che l’esecutivo non ha mai creduto in una soluzione che comunque
avrebbe reso possibile conciliare i nostri interessi nazionali con i persistere
dei flussi migratori: «I ricollocamenti», ha detto a questo proposito la
presidente del Consiglio ospite di Bruno Vespa, «sono una coperta di Linus: la
questione è fermare gli arrivi in Italia».
Su
questo il governo Meloni ha impegnato a fondo la sua credibilità fin dal
principio, anche con esiti fallimentari. Alla radice probabilmente sta una
sostanziale incapacità di comprendere il fenomeno migratorio in tutta la sua
drammatica gravità, cercandone un “colpevole” su cui scaricarne la
responsabilità.
Al
tempo del governo Draghi il dito era stato puntato sul ministro dell’Interno,
la Lamorgese, accusata di debolezza e di incapacità. Con la conseguente
assicurazione che, se fosse stata premiata dal voto degli elettori, la Destra
avrebbe immediatamente risolto il problema con una politica più adeguata. Ma
anche dopo le elezioni, gli sbarchi sono continuati, anzi sono aumentati.
La
colpa, allora, è stata data alle navi delle Ong, che avrebbero incoraggiato,
con la loro presenza nel Mediterraneo, le partenze. Da qui il “decreto
sicurezza”, volto a neutralizzare o almeno a limitare quanto più possibile,
l’opera di soccorso di queste navi. Ma gli sbarchi sono continuati, anzi sono
aumentati.
Dopo
la tragedia di Cutro, il bersaglio sono diventati gli scafisti. Meloni in
persona ha garantito che li avrebbe inseguiti «per tutto l’orbe terraqueo». Ma
gli scafisti da tempo erano perseguiti, senza alcun esito, perché i veri
organizzatori del traffico di esseri umani se ne stavano al sicuro nelle loro
basi, protetti da governi compiacenti. Così gli sbarchi sono continuati, anzi
sono aumentati in modo esponenziale.
A
questo punto la premier ha rinnovato gli accordi che già esistevano con la
Libia, fornendo nuovi soldi e nuova assistenza militare alla Guardia Libica,
perché fermasse le partenze. Poi, coinvolgendo anche la presidente della
Commissione europea, Ursula von der Leyen, si è recata in Tunisia, da cui
proviene la maggior parte dei migranti, per stringere accordi col dittatore
Sayed, sempre allo scopo di ottenere il blocco. Il risultato è stato immediato,
ma opposto alle attese: gli sbarchi sono dilagati, raggiungendo livelli mai
visti in passato.
I
giornali governativi in questi giorni sono alla ricerca dei nuovi colpevoli:
alcuni indicano direttamente la Sinistra italiana ed europea, al cui complotto
si dovrebbe il mancato rispetto da pare di Sayed degli accordi presi. Altri
additano la Francia, ostile ad ogni ingerenza italiana in Tunisia.
Non
è il Dio cristiano
Non
sembra sfiorare i nostri governanti e il loro entourage l’idea che, al di là
dei fantomatici “colpevoli”, ci siano dei problemi reali, di cui sicuramente
dei gruppi criminali possono anche approfittare, ma che hanno le loro radici in
una catastrofe geopolitica che sta travagliando buona parte dell’Africa e
alcune regioni dell’Asia, mettendo in condizioni disperate uomini e donne che
si trovano costretti a cercare la salvezza, o almeno condizioni di vita
migliori, fuggendo in Europa.
È
un vuoto di analisi, dovuto a un’ottica angustamente nazionalista, alla cui
radice sta proprio l’omissione di quel termine “umanità” che Mazzini aveva
posto come parte essenziale della sua visione e che poi, nella riedizione
fascista dello slogan, era saltato. Quello che manca, nella politica migratoria
del governo, è la visione di un genere umano che, a monte delle legittime
identità nazionali, è accomunato da un legame che ne unisce i membri, di
qualunque stirpe, di qualunque nazione o continente.
Ma
questo è anche il motivo per cui il Dio di Giorgia Meloni, checché lei ne dica,
non è quello cristiano. Il Vangelo parla chiaro: quando hanno chiesto a Gesù
quale era il comandamento più grande, la sua risposta ha unito in modo
indissolubile l’amore incondizonato per Dio e quello per il prossimo. E, ad
evitare ogni equivoco, ha portato ad esempio di “prossimo” uno straniero,
visceralmente detestato dagli ebrei.
Nel
tempo della post-verità si può dire anche spudoratamente il contrario della
realtà ed essere creduti, ma il fatto resta e tutta la tradizione della Chiesa
– dai primi padri fino alla Fratelli tutti di papa Francesco – ribadisce che
non si può amare Dio senza amare tutti gli altri esseri umani, anche i più
lontani, come se stessi. È ovvio che ciò esige di essere declinato, in termini
politici, secondo precise condizioni di fattibilità (nessuno, in realtà pensa
di portare tutta l’Africa in Italia, come sostengono sarcasticamente i
rappresentanti della Destra).
Ma
è chiaro che non ha nulla di evangelico l’atteggiamento di fondo che considera
i poveri, bisognosi del nostro aiuto, dei nemici da respingere o da bloccare
prima che partano, lasciando che se la sbrighino da soli con loro problemi.
Perciò
non è il Dio cristiano quello che la Meloni crede di dover difendere. Lui è il
Dio dell’umanità, di tutti gli uomini. E il solo modo di difenderlo, ci dice il
Vangelo, è di aiutare i deboli, gli affamati e gli esuli – «fui straniero e mi
accoglieste» (Mt 25,35) – che bussano alla nostra porta. Non perché sono
italiani, ma perché sono esseri umani come noi e nostri fratelli.
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