In
quel tempo 13Uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di' a
mio fratello che divida con me l'eredità». 14Ma egli rispose:
«O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15E
disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche
se uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
16Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva
dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: «Che
farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così -
disse -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi
raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me
stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati,
mangia, bevi e divèrtiti!». 20Ma Dio gli disse: «Stolto, questa
notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi
sarà?».
21Così è di chi accumula tesori per sé e non si
arricchisce presso Dio».
Commento di Luciano Manicardi
Il lavoro è
per l’uomo e non l’uomo per il lavoro; i beni materiali sono
per l’uomo e non l’uomo per i beni materiali, la dimensione del fare non
deve compromettere o intaccare l’umanità della persona: forse potremmo
sintetizzare così il messaggio delle letture di questa domenica. Che mettono in
guardia l’uomo contemporaneo dal far consistere la propria vita unicamente nel
fare e nell’avere, nel produrre e nel possedere. Vi è un aspetto di assurdità,
rileva Qohelet (Qo 1,2; 2,21-23), nell’affannarsi e tribolare dell’uomo sotto
il sole, essendo chiaro che ciò che l’uomo guadagna dal suo lavorare affannato
e incessante passerà ad altri che non vi hanno per nulla faticato. Nel vangelo
(Lc 12,13-21) Gesù mette in guardia dalla brama di possesso, dalla cupidigia.
Il termine greco utilizzato, pleonexía (Lc 12,15) significa
“avere più di un altro”, “ambire di più”, e
comporta il confronto sociale, la concorrenzialità, la competitività, la logica
orizzontale e soffocante del paragone, matrice della perniciosa invidia. E la
messa in guardia di Gesù è fondata sulla memoria della precarietà della
condizione umana. “Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita” (Lc
12,20). La morte appare, sia in Qohelet che nel vangelo, come
la realtà che annichilisce i disegni di riuscita esistenziale nella via del
possesso e del fare, della ricchezza e delle opere prodotte, svelando tale
riuscita come fallace e illusoria. Se opportunamente ricordata, la morte può
esercitare un importante magistero per la vita riconducendo l’essere umano al
realismo, dunque all’umiltà e alla sapienza. Chi vuole conoscersi deve
interrogarsi sulla morte perché essa svela all’uomo ciò che veramente è
essenziale e ha senso nella vita. Nonostante le teorizzazioni e le
sperimentazioni della cosiddetta società post-mortale, resta ancora e sempre
vera l’affermazione lapidaria di sant’Agostino: Incerta omnia, sola
mors certa (“Tutte le cose sono incerte, sola la morte è certa”). La
morte è come una bussola per il vivente: grazie ad essa egli può orientarsi
nell’esistenza. La prima lettura poi, fornisce l’occasione di una riflessione
sul modo di vivere il tempo e il lavoro oggi.
La
seconda parte della pericope di Qohelet (2,21-23) riguarda il lavoro, la fatica
del lavorare, ma forse anche quella fatica che consiste nel vivere e nel
mestiere stesso di stare al mondo. In ogni caso su tale realtà è proiettata la
luce disillusa che proviene dalla prima parte della pericope (1,2), la
provocatoria ouverture del libro che proclama che tutto
è hebel. Il termine, che ha come senso base quello di soffio,
è stato tradotto con vanità, vuoto, fugacità, futilità, assurdo, spreco …
E tale giudizio radicalmente disincantato e disilluso viene proiettato sul
lavoro sia perché il frutto del lavoro sarà ereditato da chi non ha faticato
per nulla, sia perché il lavoro (e la vita stessa: “tutti i suoi giorni”) è
fatica fisica e psicologica che produce “dolori e fastidi penosi” e spesso
nemmeno la notte riesce ad apportare riposo. C’è qualcosa per cui valga la pena
agire, lavorare, tribolare e, in definitiva, vivere? Una risposta sapiente la
fornisce il poeta Fernando Pessoa nella poesia Mare portoghese: “Ne
valse la pena? Tutto vale la pena se l’anima non è piccina”. Per Qohelet
occorre lavorare e svolgere il mestiere di abitare il mondo perché questa è la
sorte che Dio ha destinato all’uomo (3,10) e perché l’uomo può dare un senso al
suo fare condividendo e donando. Se “il lavoro prende la direzione del dono”
(Jacques Ellul), l’uomo quantomeno è liberato dalla frustrante prospettiva di
lasciare i frutti del proprio ingegno e della propria fatica a non si sa chi,
magari una persona ottusa e stolta (2,18-21). Il testo suggerisce anche la
possibile deriva disumanizzante del lavoro, rompendo con la retorica che lo
vuole sempre votato alla nobilitazione dell’uomo. La frase “sono un uomo e
tutto ciò che è umano mi riguarda” (homo sum: humani nihil a me alienum puto),
divenuta emblema dell’atteggiamento umanistico, è tratta dalla commedia di
Terenzio (II sec. a.C.) Il punitore di se stesso. Essa costituisce
la risposta di Cremete a Menedemo che, infastidito dalle osservazioni fatte da
quello al suo stile di vita, lo rimprovera di essere curioso: “Hai tanto tempo
da perdere, Cremete, che non pensi agli affari tuoi e ti occupi di quelli degli
altri, che non ti riguardano affatto?”. La frase è dunque un elogio della buona
curiosità: della curiositas che è cura e
passione per l’umano fino a diventare empatia. Cremete infatti si preoccupa dei
ritmi di lavoro esagerati fino alla disumanità di Menedemo e lo interroga
cercando di riportarlo al buon senso di ritmi più umani. Dopo l’iniziale
resistenza, Menedemo gli confessa che quel superlavoro, quel lavoro folle,
incessante, frenetico, era la punizione che egli stava infliggendo a se stesso
per il suo comportamento eccessivamente rigido che aveva condotto suo figlio ad
andarsene da casa. Nel testo di Terenzio l’abnormità del ritmo lavorativo è
spiegata psicologicamente come punizione che un individuo si autoinfligge
riducendosi a schiavo. Nella nostra contemporaneità i ritmi di lavoro
stressanti e alienanti sono legati, in particolare, a due delle forme con cui
viene vissuto il tempo, l’accelerazione e la
produttività. Queste dimensioni dominano il mondo del lavoro e
rappresentano ormai una forma di totalitarismo schiavizzante non percepito come
tale, ma scambiato per fenomeno naturale, quando invece è una costruzione
sociale e rientra nel dominio che controlla la società sotto le regole del
capitalismo. È totalitario ciò che esercita una potente pressione sulla volontà
e l’agire dei singoli; influenza e condiziona pesantemente la loro vita
familiare, affettiva, sociale, invade l’anima e la psiche; è onnipervasivo e
riguarda anche istituzioni e ogni aspetto della vita sociale; instilla un senso
di impotenza e induce a ritenere che non ci sia niente da fare, che le cose non
possano essere cambiate. Davvero, “tutto è vano”. Il totalitarismo del tempo
accelerato e produttivo giunge a rendere colpevoli i suoi sudditi (cioè tutti
noi): se siamo in ritardo, se non siamo abbastanza efficaci, se non rispondiamo
agli standard richiesti dalla produzione ci sentiamo in colpa, ci affliggiamo
perché non sappiamo gestire bene il tempo (falliamo l’“ottimizzazione” dei
tempi) e non siamo abbastanza performativi. Interiorizziamo l’accelerazione
come un dato necessario e ineluttabile e, se non ne siamo all’altezza, ce ne
facciamo una colpa. Vittime colpevolizzate!
Nel
vangelo Gesù, interpellato da un anonimo, rifiuta in modo secco di intervenire
in una disputa tra fratelli per questioni di eredità (Lc 12,13-14), quindi, in
modo accorato (“Badate e guardatevi da ogni cupidigia”) mette in guardia contro
la cupidigia (12,15). Gesù, che ha appena esortato a non aver paura di chi può
uccidere il corpo ma poi non può più fare nulla (12,4), ora si mostra molto
preoccupato di un nemico la cui potenza è infinitamente più letale perché può
impossessarsi dell’anima e sottrarre la vita ingannando l’uomo e conducendolo a
vivere una parvenza di vita: “anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non
dipende dai suoi beni”. Dal piano delle penose dispute famigliari sulla
divisione di un’eredità, Gesù risale al cuore: egli mette in
guardia tutti dalla cupidigia, dalla brama di possedere. La
cupidigia proviene dal cuore (Mc 7,22) ed “è idolatria” (Col 3,5). E dalla
materiale eredità, Gesù passa a denunciare quella cupidigia che impedisce di
“ereditare il Regno di Dio” (Ef 5,5). L’idolatria dà illusioni di vita, ma
produce morte. La vita non consiste nei beni, dice Gesù. E
nasce per noi la domanda: In che cosa faccio consistere la mia vita? Da cosa la
faccio dipendere? Che cosa la manda avanti ogni giorno? “Ma che è mai la vostra
vita?” chiede Giacomo ai ricchi che dicono “Oggi o domani andremo nella tal
città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni”, mentre non sanno e
non possono sapere “che cosa sarà domani” (Gc 4,13-14). Questo mettere
le mani sul futuro tentando di controllare il tempo e di gestirlo a
piacimento, è ciò che viene rimproverato anche al ricco insensato della
parabola narrata in Lc 12,16-21. La cecità a cui la ricchezza dà origine è
evidenziata nella figura del ricco “senza intelligenza” (áphron). Egli
pensa di possedere anche ciò che per definizione è indisponibile: il tempo, il
futuro, la vita. E il binomio ricchezza – stupidità è espresso in modo tale che
il “pieno” della ricchezza cerca di camuffare il desolante “vuoto”, la penosa
carenza di intelligenza e di sapienza del ricco. Se l’accumulo di ricchezze,
così come l’ottenere posizioni sociali di prestigio, l’aver potere e
considerazione, l’essere famosi, possono essere forme di esorcizzazione della
morte, in realtà esse falliscono il proprio della vita che richiede
l’assunzione della sua finitezza per poter cogliere l’oggi come grazia e vivere
ogni attimo presente come il frammento che ci viene concesso e in cui possiamo
vivere il tutto che dà senso al nostro vivere e che non lo satura di cose ma lo
riempie di senso. Lo riempie accogliendolo nella sua limitatezza e mancanza
come invito al desiderio, all’apertura, alla relazione, all’incontro, al dono.
E così libera l’uomo dalla soffocante prigionia del detestabile ego che
lo conduce ad arricchire per sé, in una triste solitudine.