di un libro
consapevolmente
inattuale
- di Alessio Conti
Le
considerazioni, consapevolmente inattuali, che Giuseppe Savagnone affida al
suo Lo stupore dell’essere. Il pensiero alternativo di Tommaso d’Aquino (Marcianum
Press, Venezia 2025), rappresentano un pharmakon: un rimedio contro
le mode e soprattutto contro l’unica ideologia imperante, quella
dell’individualismo compulsivo e consumistico.
Un
individualismo che, lungi dal limitarsi a descrivere il mondo, lo plasma,
riducendo la ragione a mero strumento di calcolo. In alternativa a ciò, questo
libro parla di verità, di Dio, di bene, in una parola, dell’essere: perché –
riprendendo Tommaso d’Aquino – lo stupore originario è quello legato non già al
mero esserci, ma appunto all’essere di ogni cosa e ultimamente dell’uomo
stesso.
Il
testo di Savagnone si articola in conversazioni, non tanto per riprendere
estrinsecamente la struttura delle quaestiones tomiste, quanto
per intessere con l’Aquinate un fecondo dialogo.
Un
colloquio in cui, pur senza dissimulare la distanza storica e culturale che ci
separa da Tommaso, si individuano degli interstizi esistenziali, grazie ai
quali questa esperienza risulta significativa anche per noi, smarriti uomini
del XXI secolo. Dialetticamente è proprio la distanza che ci spinge a ripensare
categorie ermeneutiche acriticamente ripetute, stimolando un dibattito
filosofico talora asfittico.
Un’opera,
quella di Savagnone, che ripercorre la biografia di una vocazione perché il
filosofo è anzitutto una persona che cerca la verità. Oltre l’iconografia
ufficiale e il suo uso anti modernistico, Tommaso fu uomo di rottura: ruppe con
la famiglia, i nobili conti d’Aquino che lo avrebbero voluto religioso, ma
nella potente Abazia di Montecassino. Non era però questa la strada scelta dal
Signore per il giovane aquinate che, nel suo primo soggiorno napoletano,
conobbe la filosofia aristotelica, tramite il nuovo ordine domenicano. E si
sentì’ subito a casa: niente sfarzose abbazie provviste di terre e prebende, ma
solo quella carità intellettuale, quello zelo per le anime che sarà la cifra
della sua vita, prima ancora che del suo pensiero.
A
19 anni Tommaso è frate: i Domenicani, anche per sottrarlo a possibili
ritorsioni da parte dei famigliari, lo inviano nello studium di Parigi, uno dei
più importanti del tempo. Orizzonte del suo pensiero non sarà più quindi la
cella monastica, ma la città, brulicante di passioni e di vita, tra mercanti e
banchieri, borghesi e fratti. In tale contesto, dal punto di vista politico, da
un lato l’Impero raggiungeva l’apice della sua potenza e dall’altro già le
monarchie nazionali si profilavano all’orizzonte.
Sono
straordinariamente intense le pagine che Savagnone dedica al quadro
storico-culturale del XIII secolo, non già mero sfondo, ma segreto alimento del
sistema tommasiano, figlio di una società complessa in cui universalismo e
particolarismo, discipline teologiche ed arti liberali, filosofia e poesia si
arricchivano vicendevolmente.
Questo
stesso spirito di libertà permea la ricerca intellettuale del giovane Tommaso:
pingue e taciturno, tanto da essere soprannominato dai compagni “bue muto”, il
Domenicano inizia ad insegnare a Colonia, prima di divenire Magister –
oggi diremmo professore ordinario – a Parigi. L’ambiente culturale
parigino si connotava allora per una forte tendenza platonica che, anche in
virtù degli apporti successivi di pensatori come Plotino, sembrava la meglio
conciliabile con i dogmi della fede cristiana per la sua impostazione
nettamente trascendente. Sostenuta da Agostino e dallo Pseudo Dionigi, che i
medioevali identificavano erroneamente con un convertito da Paolo durante il
suo discorso all’Areopago, questa interpretazione appariva la sola possibile.
Del
resto la visione aristotelica del mondo che le si opponeva era sospetta per più
di un motivo: tradizionalmente poco incline alla trascendenza, lo Stagirita era
stato largamente commentato dagli infedeli, e per loro tramite, dopo un lungo
oblio era tornato nella sua interezza a disposizione del mondo cristiano.
Alberto, maestro di Tommaso, si era interessato proprio ad Aristotele anche se
caldeggiava, in una prospettiva sincretistica, la sua conciliazione con
Platone.
Sarà
Tommaso ad elaborare quella sintesi creativa che liberò Aristotele dal
soffocante abbraccio degli arabi e dei neo-platonici, senza dissimulare la
distanza tra i due grandi maestri della grecità. E mentre i Francescani
deploravano “quella nuova dottrina che distrugge tutto quello che Agostino
insegna”, Tommaso assumeva Aristotele come punto di riferimento essenziale,
anche se non esclusivo, della sua filosofia, tanto da designarlo sempre come
“il filosofo”.
L’autore
ripercorre con un’enfasi pregna di passione questi primi, fondamentali, momenti
della vicenda umana e spirituale di Tommaso, presentandoci una figura inedita,
ma, proprio per questo, attuale. Oggi molti intellettuali appaiono prigionieri
di un totalitarismo del politicamente corretto che condiziona a priori il modo
di pensare delle persone, e sono sovente ossessionati da un narcisistico
desiderio di visibilità quantomai distante dalla prospettiva di Tommaso. Il
frate domenicano, infatti, amava rendersi invisibile, affinché a brillare fosse
l’oggetto della sua ricerca.
Un
brillare icasticamente rappresentato da una feconda simbiosi che unisce,
nell’orizzonte tommasiano, la riflessione filosofica alla luce. Il
pensiero interpreta non se medesimo, ma la realtà, proprio come la luce che
“non è l’oggetto del nostro sguardo, ma la condizione per vedere i colori”.
Ed
alla luce di quella stessa (solo apparente) semplicità, che rappresenta in
realtà la conquista di uno spirito temprato dai marosi della vita, Tommaso
elabora il suo sistema. Un pensiero che, come sottolinea argutamente Savagnone,
è frutto non solo di energie psichiche, derivando piuttosto da “quella abissale
tranquillità dell’oceano divino dell’essere, in cui egli parla”. Una ricerca
capace di divenire preghiera, oltre la scissione, oggi dominante, tra persone
che vivono in modo irriflesso le verità di fede, e teologi, spesso capaci di
una notevole profondità di pensiero, che però non si riverbera
nell’esistenza.
Oltre
questo iato l’Aquinate ci rammenta che l’uso dell’intelligenza implica sempre
una responsabilità fondamentale: quella di impostare in modo corretto i
rapporti tra ragione e fede. Prima di analizzare la tesi tommasiana, Savagnone
illustra tre posizioni che, pur se tra loro antitetiche, rendono inutile il
confronto tra questi due ambiti. Secondo alcuni esponenti del monachesimo
benedettino la fede fagocita la ragione. In questa prospettiva il solo filosofo
degno di tal nome è Cristo ed al pensiero umano non resta alcuno spazio.
Posizione questa insostenibile prima che errata perché, volendo entrare nel
tempo, Dio stesso si serve in certo modo di categorie razionali.
Non
meno assurda si rivela l’alternativa del razionalismo moderno secondo cui, da
Hegel in poi, la fede sarebbe un momento provvisorio, destinato ad essere
superato dall’inesorabile incedere del sapere filosofico. Tale posizione, anche
nella sua variante positivistica, ignora i limiti della ragione per
la quale un mondo ridotto a misurabilità risulta oltremodo angusto.
Seducente,
ma non meno fallace, appare anche la dottrina della doppia verità che fa leva
su una presunta incommensurabilità tra fede e ragione che rischia di divenire
una minaccia per la stessa unità della persona. Fede e ragione, ecco la
posizione tommasiana, sono certo distinte, ma non incommensurabili: distinguere
per unire, è appunto il motto che riassume meglio il punto di vista
dell’Aquinate. Fede e ragione sono come due ali con cui il pensiero umano si
innalza verso la contemplazione della verità. Metafora cogente quella delle
ali, perché pur restando distinte, quindi autonome, cooperano al medesimo
scopo.
Il
supremo problema dell’esistenza di Dio è affrontato da Tommaso in base alla
fondamentale distinzione tra l’ordine dell’essere e quello del conoscere:
occorre partire dal mondo, dal contingente, per mostrare l’esistenza di
quel primo motore che chiamiamo Dio, grazie agli effetti a noi noti Ma la
conoscenza dell’esistenza di Dio è un preambolo, necessario certo a far
comprendere, per quanto possibile, le verità di fede. Una premessa alla quale
può accompagnarsi il salto nella fede vera e propria, ma questa è solo una
possibilità, visto che le vie per mostrare l’esistenza di Dio interpellano in
primo luogo l’intelligenza.
Un
salto che però non implica l’annullamento della ragione, necessaria a
comprendere, per quanto possibile ciò che si crede. In questo orizzonte “il
dubbio non è il nemico, ma il compagno e lo stimolo di una fede matura, e non
bisogna rifuggirlo, come molti fanno, ma salutarlo, come un dono e un invito a
cercare ancora”. Tommaso non è un algido dispensatore di risposte
prefabbricate, ma piuttosto un inesausto suscitatore di interrogativi “perciò
le domande sono sempre più numerose delle risposte contenute nelle definizioni
dogmatiche. Il cristianesimo non è uno schedario di certezze definitive, ma un
pellegrinaggio nell’abisso insondabile del mistero divino”.
In
Tommaso si profila una circolarità tra fede e ragione, tra filosofia e
teologia, autrici entrambe di conoscenze distinte, ma intimamente unite. Sul
piano antropologico una medesima circolarità coinvolge il vedere e l’ascoltare,
entrambi limitati e, per questo, destinati a completarsi: chi vede a bisogno di
credere e chi crede, ascoltando, comunque desidera anche vedere.
Ma
il vedere, l’ascoltare, presuppongono che fuori di noi vi sia un mondo, un
reale attingibile conoscitivamente: ed è proprio questo presupposto che crolla
nell’età moderna, abbagliata dal soggetto, capace di accedere solo a sue
rappresentazioni. E se con la postmodernità il soggetto rappresentante entra in
crisi, ecco profilarsi da un lato il nichilismo, e dall’altro l’ermeneutica in
cui la comune appartenenza dell’interpretato e del interpretante ad un
contesto, parrebbe dissolvere i fatti in un orizzonte meramente linguistico e
interpretativo.
Ancor
più sconvolgente, in questa temperie risulta la tesi tommasiana del primato
dell’essere: noi scopriamo, in primo luogo che qualcosa è, e pensare, da
Parmenide in poi, significa pensare l’essere. Un’idea questa, nota acutamente
Savagnone, che si palesa anche quando ci soffermiamo su enti come l’unicorno,
inesistenti in natura, o su personaggi fittizi come quelli della mitologia
omerica che sono comunque presenti, almeno nella nostra immaginazione.
L’essere
ed il suo primato rappresentano il vasto orizzonte della riflessione
dell’Aquinate che è oltremodo necessario riguadagnare anche per
depotenziare “il dualismo problematico tra soggetto pensante e mondo”
entrambi ricompresi nello spazio dell’essere. Ma affermare il primato
dell’essere e, conseguentemente, l’esistenza di alcune leggi concernenti tanto
il pensiero quanto la realtà, significa anche ribadire il primato della
ragione, perché chi negasse i suoi supremi principi a rigore dovrebbe tacere.
Qualora infatti io affermassi che il principio di non contraddizione non esiste
rigetterei implicitamente la tesi opposta e quindi, anche per negarlo, sarei
contraddittoriamente costretto ad applicare proprio quel principio.
Ma
la scoperta dell’essere non riguarda unicamente chi si occupa di filosofia:
qualunque uomo, purché esca dal frenetico turbinio della vita quotidiana,
proverà meraviglia, e conseguentemente gratitudine, per il fatto che qualcosa
esiste. Occorre pensare in termini di dono, in una prospettiva in cui nulla è
al nostro servizio, la natura non va soggiogata, gli stessi legami debbono
essere riparametrati oltre il paradigma del possesso esclusivo. È questa
gratitudine che ci costituisce radicalmente come responsabili di tutto ciò che,
con la sua sola esistenza, emerge dall’anonimo orizzonte del nulla: un sì detto
ad ogni sasso, a ciascun essere vivente, a partire da noi stessi.
Il
primato dell’essere possiede anche intrinseche ricadute bioetiche: tramite
il concetto di potenza, non riducibile a mera possibilità, consente di
costruire un antropologia ontologica, assai più feconda di quella prestazionale
che oggi appare dominante. Travalicando l’alternativa tra chi fa consistere la
persona unicamente nelle sue relazioni, e chi insiste sul suo essere come
soggetto sussistente, una rivisitazione dell’idea tommasiana di persona come
creatura razionale può sostenerci nel rifuggire la sterile ed apparente
contrapposizione tra individualismo e massificazione, impedendo al soggetto di
dissolversi nella anonima pluralità di infinite relazioni.
Occorre
tornare a concepire l’uomo non come il padrone dell’ente, ma alla stregua del
“pastore dell’essere”, secondo la celebre espressione di Heidegger . L’essere
sfugge alla presa dei concetti, allude al mistero del reale, di cui il pastore
con la sua stessa indigenza è, in qualche modo, segno. L’essere esige rispetto
e custodia, non può venire manipolato alla stregua di un qualunque
utilizzabile, perché, come detto, l’orizzonte della potenza eccede radicalmente
quello della mera possibilità. È proprio il concetto tommasiano di atto
d’essere che dischiude all’uomo questa apertura originaria che Savagnone situa
nel quadro di un’ecologia integrale. Se, abbassando l’uomo al livello delle
cose, pare riduttivo ingaggiare la battaglia ambientale nell’orizzonte di un
naturalismo sterile, si può affrontare la questione e da una prospettiva
in cui tutto, certo non confusamente, è e, per questo solo fatto, merita
rispetto.
Così
la creazione diventa via verso l’assoluto. Come ha osservato Benedetto XVI
Tommaso d’Aquino ha insegnato che la nozione di creazione deve trascendere
l’origine orizzontale del dispiegamento degli eventi. Tommaso ha osservato che
la creazione non è né un movimento né una mutazione. È piuttosto il
rapporto fondazionale e costante che lega le creature al creatore. Più
semplicemente la nozione di creazione si pone su un piano ontologicamente
diverso da quello della scoperta scientifica e quindi nessuna innovazione può
renderla residuale, perché essa riguarda non il rapporto cronologico, ma
l’apparizione ontologica dei singoli esseri.
Il
creato, con il suo divenire finalistico, allude al divino, come le cinque vie
mostrano, ma non è Dio, perché solo in Lui essenza ed essere coincidono: Dio è
l’essere, le cose hanno l’essere per partecipazione. Una mentalità questa che
unicamente la Rivelazione cristiana rende possibile, rescindendo, in radice,
ogni equivalenza tra Dio e la natura.
Sempre
dalla Rivelazione rampolla l’idea, ignota tanto a Platone quanto ad Aristotele,
di un Dio che non si conosce, ma ci conosce; non si pensa ma ci pensa fino allo
scandaloso abbraccio della Croce. Un abbraccio che racchiude il mondo intero,
noto al suo autore fin nei suoi più reconditi interstizi, come nota gli è la
vita di ciascuno di noi.
Ma
forse l’insegnamento più profondo Tommaso lo offre in quel prolungato silenzio
che precedette la sua morte, un silenzio di cui, oltre ogni semplicistica
contrapposizione, possono fungere da chiosa queste parole di Agostino: “Che ho
mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia, santa? Che dice mai chi parla di
te? Eppure, sventurati coloro che tacciono di te, perché, pur pronunziando
tante parole, in realtà sono muti”. Un silenzio, presago di quel futuro che
diverrà presente, anzi eterno, solo oltre la fugace curva dei nostri
giorni.
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