- di Giuseppe Savagnone
È di alcuni giorni fa la pubblicazione di una statistica
dell’Eures, secondo cui in questi primi dieci mesi dall’inizio dell’anno, sono
state uccise in Italia 94 donne. Una ogni tre giorni.
Nel 2018 i femminicidi erano stati 142 – il 38% degli omicidi
commessi in Italia –, di cui 78 per mano di partner o ex partner. Dal 2000 ad
oggi le donne uccise in Italia sono state 3.230. E il trend di questi ultimi
anni è quello di una continua crescita, in controtendenza rispetto a quello
degli omicidi nel loro insieme, che nel nostro Paese sono in forte calo anno
dopo anno.
Qualcuno si stupisce dell’enfasi posta sul termine
“femminicidio”, per descrivere il fenomeno e si chiede se si possa parlare di
una categoria a se stante di reati. La risposta è nella definizione di questo
termine nel libro di Diana Russell nel libro Femicide, del 1992: «Una violenza
estrema da parte dell’uomo contro la donna proprio perché donna (…) in un
contesto sociale che permette e avalla la violenza degli uomini contro le
donne».
Una violenza a senso unico
Ovviamente questo non significa che non ci siano casi di
donne che uccidono uomini. Ce ne sono anche che li aggrediscono o li
maltrattano. Ma, sempre secondo i dati Eures, nel 2018 il 92% delle violenze
sessuali, il 76% delle denunce per stalking e l’81% di quelle per
maltrattamenti in famiglia sono state fatte da donne.
Per non parlare delle tante mogli o figlie che non hanno il
coraggio di denunziare i loro mariti o padri. Il fenomeno peraltro non accenna
ad attenuarsi. Un rapporto della Polizia di Stato rileva che per esempio nel
mese di marzo 2019, in media, ogni 15 minuti è stata registrata una vittima di
violenza di genere di sesso femminile. In questo quadro, è difficile parlare di
una reciprocità …
Le leggi necessarie
Si sta cercando di far fronte a questa piaga sul piano
legislativo. Nello scorso agosto è entrata in vigore la legge n. 69, cosiddetta
“Codice rosso”, che ha innovato e modificato la disciplina penale, sia
sostanziale che processuale, della violenza domestica e di genere, rendendo più
celere l’avvio del procedimento penale e più aspra la sanzione per i reati dii
maltrattamento in famiglia, stalking, violenza sessuale, prevedendo anche una
maggiore tempestività per eventuali provvedimenti di protezione delle vittime.
Al divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla
persona offesa, il giudice può aggiungere l’utilizzo di mezzi elettronici come
l’ormai più che collaudato braccialetto elettronico.
Tutto ciò è giustissimo e su questa via possono essere
sicuramente ottenuti risultati significativi; però non risolve il problema dei
femminicidi alla sua radice, che è culturale.
La crisi della virilità
A prima vista, è vero, essi sembrerebbero risalire a ragioni
che da sempre caratterizzano la dialettica del rapporto uomo-donna. Secondo
Eures «il principale movente dei femminicidi familiari risulta quello della
gelosia e del possesso (impropriamente definito passionale), riscontrato nel
32,8% dei casi; seguono, con ampi scarti, le liti e i dissapori (16%) e il
disagio della vittima (15,1%)».
Ma a questo, che sicuramente rimane lo sfondo, oggi bisogna
aggiungere un fatto nuovo che, almeno in Occidente, sta modificando
radicalmente i termini di questa dialettica. Mi riferisco al declino di
quell’insieme di fattori psicologici, caratteriali e culturali che
tradizionalmente venivano definiti “virilità”.
Sono ovviamente consapevole delle distorsioni maschiliste che
questo termine ha rivestito per secoli e che, soprattutto nel Meridione, hanno
dato luogo a una serie di drammatici equivoci riguardanti l’onore di un uomo.
Ma il suo tramonto, nell’uso corrente, non è legato soltanto al felice
superamento di quelle distorsioni e di quegli equivoci. C’è qualcosa di più
profondo, che assume un significato epocale alla luce dell’affermazione del
movimento femminista nei Paesi occidentali.
Lo smarrimento del maschio
Perché questa affermazione, che ha cambiato radicalmente la
concezione della donna, i suoi atteggiamenti e il suo ruolo nella società, ha
profondamente inciso – né poteva essere diversamente – sul modo in cui gli
uomini vedono se stessi e si rapportano all’altro genere.
Abituato da sempre a un predominio di genere, che prescindeva
dalle qualità personali dei singoli e si fondava aprioristicamente sul possesso
di alcune caratteristiche anatomiche, il maschio si è trovato, nel giro di
pochi decenni, totalmente spiazzato dall’ascesa vertiginosa di donne sempre più
capaci di rimettere in discussione il suo primato sia nel campo degli studi e
del lavoro, che in quello della vita sessuale ed affettiva.
Il feminicidio come segno di
debolezza
Forse andrebbe cercata qui la spiegazione del diffondersi
della tragedia dei femminicidi. Alla base, nella maggior parte dei casi, c’è un
disperato tentativo dell’uomo di riaffermare il proprio potere su una compagna
che ormai ha una propria vita professionale, a volte più riuscita della sua, e
che anche nei rapporti di coppia rivendica il proprio diritto a non essere solo
un oggetto, ma una persona, libera come tale di fare le sue scelte.
Se questa lettura è corretta, i crimini in questione non
sono, come potrebbe credersi a prima vista, la prova del perpetuarsi
dell’antico dominio del maschio, ma il segno di specie di disperazione, la
rabbiosa reazione alla scoperta di una impotenza, un sordo risentimento a cui i
più fragili non trovano altro sfogo che quello di uccidere.
Non è un caso che a volte questo folle gesto venga percepito
dallo stesso assassino come una forma di autodistruzione, portandolo al
suicidio o a denunciarsi spontaneamente.
Più in generale, oggi si registra una diffusa difficoltà
degli uomini di accettare e di vivere la propria virilità in un mutato contesto
relazionale, che ne ha cambiato i connotati tradizionali, ma che potrebbe
portare alla sua riscoperta in termini nuovi.
Una potenzialità non
compresa
Perché l’emancipazione delle donne non dovrebbe, di per sé,
minacciare l’identità maschile, anzi potrebbe costituire un suo
approfondimento, liberandola dagli stereotipi quasi macchiettistici che si
accompagnavano all’immagine del “maschio”.
La denunzia, da parte del movimento femminista, delle
storture di una civiltà
fallo-logo-centrica fondata sulla logica del dominio e su una interpretazione
riduttiva della razionalità, potrebbe
costituire una lezione importante a cui non solo le donne, ma soprattutto gli
uomini dovrebbero essere attenti, per ripensare la loro identità virile in una
prospettiva la liberi dalle storture del passato.
Non si tratterebbe per loro di una rinunzia, di una resa, ma
di una conquista. Perché sono stati loro, innanzi tutto, le vittime della
società che essi stessi hanno costruito sul mito del potere, del denaro e del
successo, sacrificando spesso al lavoro e al guadagno le relazioni umane.
Quanti professionisti incapaci di anticipare il ritorno a casa per godersi la
semplice gioia della vita familiare!
Per non parlare della violenza sistematica nei confronti
della terra – si è parlato di una specie di stupro – da parte di una tecnica
ispirata alla logica maschile della penetrazione e volta allo sfruttamento
illimitato della natura, con i risultati disastrosi che sono sotto gli occhi di
tutti.
Una possibile involuzione
del femminismo
La protesta del femminismo contro tutto ciò non è stata solo
una rivendicazione unilaterale da parte di un genere contro l’altro, bensì un
prezioso servizio ad entrambi.
Se mai sono le sue involuzioni che, tradendone l’esigenza di
fondo, hanno a volte fatto sì che, invece di aiutare gli uomini a vivere in
modo più autentico la loro virilità e le donne la loro femminilità, in un
contesto di reciprocità e di pari dignità, questa lotta si sia risolta talora
in un indebolimento di entrambe, dando luogo a donne sempre più “maschilizzate”
e a uomini sempre più effeminati. Da qui il fenomeno sempre più diffuso di una
“donna in carriera”, che insegue il successo sopra ogni altro valore, e di un
uomo sempre più fragile, irresoluto, smarrito e – come logica conseguenza –
violento.
Evitare una sconfitta per
tutti
Si badi bene: come la vittoria delle donne non avrebbe dovuto
essere una sconfitta degli uomini, ma la crescita di una relazione che avrebbe
potuto arricchire entrambi, così il declino dell’uomo non è una vittoria per le
donne, che sono le prime, oggi, a risentire e a soffrire, nella prospettiva di
una vita di coppia, del vuoto di virilità che colpisce l’altro genere.
Resta il fatto che il femminicidio è un prezzo che una
società civile non può e non deve accettare di pagare. Ben vengano, per questo,
le misure repressive. Ma, un tempo in cui si parla molto, giustamente, dei
passi ancora da fare per riconoscere alle donne i loro diritti, forse sarebbe
il caso di tenere presente che tra questi c’è anche quello ad avere di fronte
degli uomini che siano tali.
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