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lunedì 9 dicembre 2024

DUE GENERAZIONI, UNA RIVOLUZIONE


 Esce in libreria per Rubbettino “Due generazioni, una rivoluzione”, di Vannino Chiti e Valerio Martinelli, un’opera che propone una riflessione approfondita e costruttiva sulle grandi sfide del nostro tempo, viste attraverso il dialogo tra due generazioni diverse ma complementari. Gli autori, guidati dalle domande di Chiara Pazzaglia, costruiscono un ricco confronto su temi cruciali con uno sguardo attento alla società ma anche alla dimensione spirituale. 


Il testo è arricchito dalla prefazione del Cardinale Matteo Maria Zuppi e dalla postfazione di Romano Prodi. 

Pubblichiamo la prefazione del presidente della Cei.

 

Papa Francesco ha ripetuto spesso che la cosa peggiore dopo una pandemia è restare quelli di sempre, non fare tesoro della sofferenza vissuta per cambiare, per migliorare, rafforzare la consapevolezza che solo insieme c’è salvezza. Quando l’uomo imparerà? La tragica esperienza del Covid ha rivelato la fragilità della nostra condizione e ci ha insegnato che il nostro futuro si gioca tutto sul dialogo tra le generazioni e sulla solidarietà, l’unica che può permettere di affrontare le pandemie. E il male stesso è sempre pandemio. 

 Il primo aspetto è quello, molto concreto e vasto, del ruolo degli anziani nella società e nella Chiesa. 

Ritengo sia decisivo permettere agli anziani un coinvolgimento attivo nella vita sociale. Il primo problema di questa generazione è la lotta contro la solitudine e il senso di inutilità, l’idea di essere “scarto”, nonostante tutto quello che si è potuto dare nella vita. Anche da questa condizione non se ne esce da soli. La solitudine è come una pandemia invisibile che avvolge la vita di tante persone, spegne l’esistenza perché non siamo un’isola e solo nella relazione la persona trova sé stessa. La vecchiaia, ma non solo, è accompagnata da tanta solitudine che rende la condizione di fragilità insostenibile. 

 Dall’altra parte, ai giovani serve riscoprire il gusto di una vita senza paura, non perché senza consapevolezza ma con il vero antidoto alla paura: la speranza, la passione, il gusto del futuro, il desiderio di costruirlo e la consapevolezza di poterlo fare, per non arrendersi ai primi inevitabili ostacoli o cercare tante sicurezze da essere sempre insicuri. In queste due semplici indicazioni è racchiuso il senso di questo volume: tutti gli argomenti su cui si confrontano le voci delle due generazioni, dal lavoro al welfare, dall’Europa alla pace, dalla partecipazione al multiculturalismo, partono dal presupposto che solo aiutandosi e sostenendosi, scoprendosi complementari e non escludenti, giovani e anziani possono superare solitudini e paure. 

 Sappiamo bene che la denatalità è uno dei mali del nostro tempo: anche questa è frutto della paura del futuro, minacciosa proiezione del presente che fa rinchiudere nel consumo dell’oggi e, nonostante tante certezze impensabili nelle generazioni precedenti, queste non appaiono mai sufficienti. Senza passione e speranza restiamo prigionieri delle nostre paure. Occorre conciliare il lavoro con la famiglia, la giusta rivendicazione di un ruolo sociale unito a quello familiare. C’è davvero ancora molto da fare su questo che mi appare uno dei problemi principali da risolvere, senza dimenticare il precariato e la casa. 


Serve allora un’alleanza che metta da parte, come già diceva papa Giovanni XXIII, ciò che ci divide e ci faccia scegliere ciò che ci unisce. Serve un sistema Paese che dia sicurezze, che punti sul benessere e sulla stabilità economica e lavorativa, senza dubbio. Ma serve anche, forse soprattutto, una riscoperta del gusto di una vita senza paura. È nella famiglia, come dice Papa Francesco, che si costruisce la speranza e la vita si mostra nella sua piena forza: è questa il migliore esempio di come si costruisca la storia, di generazione in generazione. E la famiglia è il primo laboratorio dove impariamo a pensarci insieme. 

 La conversazione che queste pagine ci affidano è frutto di due persone che si offrono l’un l’altro, senza fretta e senza concessioni all’epidermico o al sensazionale. Ho apprezzato il tentativo di Vannino Chiti e Valerio Martinelli, guidati dalle precise domande di Chiara Pazzaglia, di operare un confronto intergenerazionale su temi importanti. Ho notato che, quasi sempre, c’è piena convergenza di opinione. Ecco l’utilità del dialogo: ascoltarsi, confrontarsi, anche discutere, per far risaltare ciò che unisce più di ciò che divide, per pensarsi insieme. L’augurio è che, oltre le pagine del libro, questa capacità di ascolto e confronto tra generazioni possa essere di ispirazione e di stimolo a tanti, anche nella quotidianità. 

Sono molti gli argomenti trattati, spaziando sui temi di maggiore passione sociale, in particolare il tema della transizione digitale ed ecologica, della partecipazione e, soprattutto, della pace, rappresentano davvero le sfide più importanti del nostro tempo. Attrezzarsi per affrontarle significa proprio farlo in una piena alleanza tra i più e i meno giovani, ognuno sostenendo l’altro con l’esempio della memoria passata e la fiducia nel futuro comune, che sia davvero di pace. 

 Come hanno scritto i nostri autori «È quel tutti insieme di Don Milani che ci piace: la sfida vera della nostra collettività è riscoprire la coesione come comunità di uomini e donne, il gioco di squadra, anche fra generazioni diverse che condividono un Cammino comune». La spiritualità si sottende a tutto ed è la passione che può generare il nuovo anche da quello che è vecchio.

 Famiglia Cristiana

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venerdì 23 giugno 2023

DISAGIO GIOVANILE


 I DIVERSI VOLTI


- di Massimo Recalcati

 

Il disagio del mondo giovanile sembra aver assunto dimensioni preoccupanti. La sua fenomenologia è variegata, ma se dovessimo provare a trovare in essa dei denominatori comuni potremmo isolarne almeno due. Il primo è quello della spinta neo-libertina a godere senza limiti, a fare del godimento la sola forma possibile della Legge. Questa spinta può assumere le forme della festinazione permanente, dell’apatia frivola, dell’assenza di responsabilità, dell’abuso di sostanze, del consumo compulsivo, dell’indolenza, del rigetto della prova e della fatica. Si tratta di una forma di disagio che da tempo permea il mondo giovanile e che collude con l’affermazione di quella che Pasolini definiva “la società dei consumi”. Il secondo denominatore comune è invece di tipo neomelanconico e consiste nella tendenza a sottrarsi alla vita, a chiudersi, a ripiegarsi su se stessi. Il trauma della pandemia ha esasperato in particolare questa seconda declinazione del disagio giovanile. Se nella prima forma prevale l’estroversione, in questa seconda prevale l’introversione.

Non si tratta però solamente di una tendenza genericamente depressiva, ma di una inclinazione securitaria: il mondo è percepito come una fonte minacciosa di stimoli, come luogo di perturbazioni angoscianti, come un urto dal quale proteggersi. È uno dei paradossi più significativi del nostro tempo: la cultura neo-libertina del godimento immediato e del rigetto del senso della Legge nasconde nelle sue pieghe una tristezza di fondo, una profonda angoscia nei confronti dell’ignoto, un sentimento di precarietà che coinvolge tutta l’esistenza. È la piaga segreta che intacca l’euforia neo-libertina: la vita come gara di tutti contro tutti, come spinta compulsiva a consumare ogni cosa non genera affatto soddisfazione, non favorisce la creazione di legami sociali generativi, ma produce caduta del senso, paura e difesa dalla vita, ritiro sociale, confinamento, isolamento.

Tagliarsi fuori dal circuito maniacale dell’iperattività produttiva o edonistica del discorso sociale dominante, è un gesto disperato di rifiuto ma è anche un gesto che prova a creare un rifugio.

Barricarsi in casa, non uscire più, sembra per un giovane un destino beffardo in un tempo che invece esige il divertimento come obbligo e il culto della performance ad ogni costo.

Queste due forme del disagio riflettono una tendenza più generale della civiltà contemporanea: la spinta a godere sino alla dissipazione della vita e quella a rifiutare la vita isolandosi in una nicchia protetta. Sono la versione hard e cool del disagio della giovinezza ipermoderna. Ma quello che viene meno in entrambe queste posizioni è l’istanza del desiderio.

Nell’oscillazione neo-libertina essa si trova inabissata in un godimento illimitato che ne sopprime la spinta generativa. Il desiderio si affloscia in una vita troppo piena di oggetti per essere desiderante.

Nell’oscillazione neo-melanconica essa sembra invece più semplicemente spegnersi, disattivarsi, non esistere più. Anziché vivere pienamente la vita, si preferisce chiudere i ponti con la vita, creare sistemi di difesa, isolarsi appunto, separarsi dal mondo. L’indebolimento del desiderio è il vero tema che attraversa il disagio giovanile contemporaneo: la fatica di desiderare, l’eclissi, la scomparsa del desiderio come forza generativa. Cosa fare allora? Come uscirne?

Evocare il padre col bastone, rimpiangere la sua vecchia autorità simbolica? Restaurare l’ordine della famiglia tradizionale, rafforzare gli strumenti di controllo o di repressione? Condannare le cattive pratiche e i comportamenti irresponsabili? Bisognerebbe sempre ricordare che il disagio giovanile non coincide con il mondo giovanile. Per evitare la sua estensione bisognerebbe innanzitutto avere fiducia nei giovani e nella loro audacia.

Includerli il più possibile nella vita civile e sociale. Potenziare la Scuola e i luoghi di formazione, credere nelle loro capacità, offrire occasioni di lavoro, di espressione, di parola. Insomma, il contributo delle vecchie generazioni non può limitarsi a segnalare il disagio giovanile delegando agli psicologi la sua cura, ma deve aprire le porte, coltivare i talenti, trasmettere la potenza vitale del desiderio, favorire gli spazi anche pubblici, collettivi, della sua esistenza. Non si tratta tanto di sorvegliare e di punire, ma di scommettere davvero sulle nuove generazioni. L’esistenza dei figli dovrebbe costringerci a decentrarci da noi stessi, a pensare che il tempo ha una profondità che non coincide con la nostra vita, che i nostri figli ci sopravviveranno. Dovrebbe ricordarci che il compito delle vecchie generazioni non è quello di ostacolare le nuove ma quello di favorire la loro crescita.

Facile a dire, ovviamente, difficile assai da praticare perché implica il dono del nostro arretramento, del nostro tramonto.

 

Da Repubblica



lunedì 2 ottobre 2017

LA NOBILTA' DI AGIRE INSIEME PER COSTRUIRE IL BENE COMUNE

AL SERVIZIO DEL BENE COMUNE

Un messaggio chiaro e "forte" 
che interpella tutti:
 istituzioni, politici, amministratori, 
responsabili di associazioni e comunità, 
 aspiranti amministratori 

aspiranti ad altri 
incarichi di responsabilità, 
      singoli cittadini ....

PAPA FRANCESCO:  " ...... Da secoli questa Piazza costituisce il punto d’incontro dei cittadini e l’ambito dove si svolge il mercato. Essa merita dunque il suo nome: Piazza del Popolo, o semplicemente “la Piazza”, perché è del popolo, spazio pubblico in cui si prendono decisioni rilevanti per la città nel suo Palazzo Comunale e si avviano iniziative economiche e sociali. La piazza è un luogo emblematico, dove le aspirazioni dei singoli si confrontano con le esigenze, le aspettative e i sogni dell’intera cittadinanza; dove i gruppi particolari prendono coscienza che i loro desideri vanno armonizzati con quelli della collettività. Io direi – permettetemi l’immagine –: in questa piazza si “impasta” il bene comune di tutti, qui si lavora per il bene comune di tutti. Questa armonizzazione dei desideri propri con quelli della comunità fa il bene comune. In questa piazza si apprende che, senza perseguire con costanza, impegno e intelligenza il bene comune, nemmeno i singoli potranno usufruire dei loro diritti e realizzare le loro più nobili aspirazioni, perché verrebbe meno lo spazio ordinato e civile in cui vivere e operare.
La centralità della piazza manda dunque il messaggio che è essenziale lavorare tutti insieme per il bene comune. E’ questa la base del buon governo della città, che la rende bella, sana e accogliente, crocevia di iniziative e motore di uno sviluppo sostenibile e integrale.
Questa piazza, come tutte le altre piazze d’Italia, richiama la necessità, per la vita della comunità, della buona politica; non di quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi. Una politica che non sia né serva né padrona, ma amica e collaboratrice; non paurosa o avventata, ma responsabile e quindi coraggiosa e prudente nello stesso tempo; che faccia crescere il coinvolgimento delle persone, la loro progressiva inclusione e partecipazione; che non lasci ai margini alcune categorie, che non saccheggi e inquini le risorse naturali – esse infatti non sono un pozzo senza fondo ma un tesoro donatoci da Dio perché lo usiamo con rispetto e intelligenza. Una politica che sappia armonizzare le legittime aspirazioni dei singoli e dei gruppi tenendo il timone ben saldo sull’interesse dell’intera cittadinanza.
Questo è il volto autentico della politica e la sua ragion d’essere: un servizio inestimabile al bene all’intera collettività. E questo è il motivo per cui la dottrina sociale della Chiesa la considera una nobile forma di carità. Invito perciò giovani e meno giovani a prepararsi adeguatamente e impegnarsi personalmente in questo campo, assumendo fin dall’inizio la prospettiva del bene comune e respingendo ogni anche minima forma di corruzione. La corruzione è il tarlo della vocazione politica. La corruzione non lascia crescere la civiltà. E il buon politico ha anche la propria croce quando vuole essere buono perché deve lasciare tante volte le sue idee personali per prendere le iniziative degli altri e armonizzarle, accomunarle, perché sia proprio il bene comune ad essere portato avanti. In questo senso il buon politico finisce sempre per essere un “martire” al servizio, perché lascia le proprie idee ma non le abbandona, le mette in discussione con tutti per andare verso il bene comune, e questo è molto bello.
Da questa piazza vi invito a considerare la nobiltà dell’agire politico in nome e a favore del popolo, che si riconosce in una storia e in valori condivisi e chiede tranquillità di vita e sviluppo ordinato. Vi invito ad esigere dai protagonisti della vita pubblica coerenza d’impegno, preparazione, rettitudine morale, capacità d’iniziativa, longanimità, pazienza e forza d’animo nell’affrontare le sfide di oggi, senza tuttavia pretendere un’impossibile perfezione. E quando il politico sbaglia, abbia la grandezza d’animo di dire: “Ho sbagliato, scusatemi, andiamo avanti”. E questo è nobile! Le vicende umane e storiche e la complessità dei problemi non permettono di risolvere tutto e subito. La bacchetta magica non funziona in politica. Un sano realismo sa che anche la migliore classe dirigente non può risolvere in un baleno tutte le questioni. Per rendersene conto basta provare ad agire di persona invece di limitarsi a osservare e criticare dal balcone l’operato degli altri. E questo è un difetto, quando le critiche non sono costruttive. Se il politico sbaglia, vai a dirglielo, ci sono tanti modi di dirlo: “Ma, credo che questo sarebbe meglio così, così…”. Attraverso la stampa, la radio… Ma dirlo costruttivamente. E non guardare dal balcone, osservarla dal balcone aspettando che lui fallisca. No, questo non costruisce la civiltà. Si troverà in tal modo la forza di assumersi le responsabilità che ci competono, comprendendo al tempo stesso che, pur con l’aiuto di Dio e la collaborazione degli uomini, accadrà comunque di commettere degli sbagli. Tutti sbagliamo. “Scusatemi, ho sbagliato. Riprendo la strada giusta e vado avanti”. ........ "