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martedì 5 marzo 2024

TECNOLOGIA e ACQUA GASATA

EDUCARE

AL TEMPO

DEGLI

 SMARTPHONE



-       -  di Alessandro D’Avenia

 

In Inghilterra è stato vietato l’uso dei cellulari nelle scuole allo scopo di migliorare la disciplina, l’attenzione e il rendimento degli studenti (lo hanno più dell’80% dei ragazzi tra 12 e 15 anni).

Qual è la relazione tra un telefono e questi aspetti della vita scolare di un ragazzo? Chiunque abbia dimestichezza di gialli sa che cosa è un alibi, parola latina che significa «altrove». L’indagato, quando è avvenuto, non era sul luogo del delitto, ma «altrove»: ha un alibi. Leggo alibi da 24 anni, da quando ho cominciato a insegnare, perché le giustificazioni per le assenze lo sono: motivi familiari, personali, indisposizione, lutto, visita medica... Tutti li abbiamo usati con più o meno creatività (e verità), ma si limitavano a qualche giorno di scuola. Oggi invece abbiamo un alibi per la vita stessa: quest’alibi è il cellulare. Ci porta «altrove» rispetto alla scena principale del vivere: il presente. Il nostro corpo perde consistenza e la presenza, che è luogo dell’esperienza, evapora, tanto che ci dimentichiamo persino di dormire: andare a letto con il cellulare ha diminuito le ore di sonno necessarie a un adolescente con conseguenze sulla salute mentale e fisica che vedremo emergere sempre di più. Se un giorno metteremo sui telefoni minacce simili a quelle comparse sui pacchetti di sigarette, una potrà sintetizzarle tutte: «ti dà un alibi». Perché?

Le interazioni sociali

La psicologa e sociologa Sherry Turkle scriveva nel 2017 una nuova prefazione al famoso libro del 2010, Insieme ma soli, dedicato al cambiamento delle interazioni sociali dovuto alle recenti tecnologie (il primo smartphone è del 2007 e oggi lo abbiamo in quasi 5 miliardi): «Gli studi mostrano che se due persone stanno pranzando, un cellulare sul tavolo fa virare la conversazione su temi più leggeri, e i due commensali si sentono meno coinvolti reciprocamente. Chi partecipa alla conversazione sa che, con un telefono in vista, si può essere interrotti in qualunque momento. La nostra distrazione ha un prezzo». Perché lo facciamo? Le relazioni sono faticose: argomenti di conversazione, momenti impegnativi, il peso della verità, sentimenti complessi... Preferiamo fuggire o almeno avere una via di fuga. Quando scrivo un libro non sono connesso a Internet, perché avrei un alibi nei momenti di fatica: devo restare lì, proprio dove la pagina resiste e mi costringe ad essere ancora più presente a me stesso. La verità si trova solo nella e con la carne. Nell’ambito delle relazioni non è diverso: le relazioni sono impegnative come le pagine bianche. E trovare un alibi nelle relazioni comporta la perdita di una capacità: amare. Una ricerca, racconta Turkle, ha rilevato «un calo del 40% negli indicatori dell’empatia tra gli studenti universitari. E siccome la maggior parte di quel calo è avvenuto nell’ultimo decennio, è ragionevole collegare il divario di empatia alla presenza delle comunicazioni digitali». L’alibi perfetto per non sentire il peso dell’altro, con la conseguente perdita delle abilità corporee da cui sorge l’empatia: sguardi, espressioni, silenzi, tono... (e infatti poi introduciamo fantomatici corsi sulle cosiddette soft skill). Turkle dice: «La tecnologia ci fa dimenticare ciò che sappiamo della vita. Le persone ammettono che nella conversazione vis-à-vis comprendono meglio i loro figli, coniugi, genitori e partner e imparano come relazionarsi con gli altri. Eppure, vi diranno anche che sono contente di usare la tecnologia per evitare quelle conversazioni, perché sono difficili... Un giovane mi spiega che farebbe qualunque cosa pur di evitare una conversazione: “Si svolge in tempo reale, e non puoi controllare quel che dirai”. Quando ci viene offerto qualcosa che può semplificarci la vita, dimentichiamo i nostri scopi umani». 

Un mondo analogico

Queste considerazioni mi sono tornate in mente guardando il film Perfect Days di Wim Wenders, candidato all’Oscar. Il protagonista vive in un mondo analogico e di assoluta presenza: pulisce i bagni di Tokyo, ascolta audiocassette (la colonna sonora vale il film), scatta foto su pellicola... E non a caso è dotato di un’empatia che lo rende una calamita per le relazioni, soprattutto per i ragazzi, che nel film hanno sempre un telefono in mano e lo cercano proprio perché non ha «alibi»: c’è, sta nel presente e risponde alle sue chiamate (emblematica la scena in cui uno sconosciuto gli confida che ha un cancro e si mettono a giocare come bambini). Nel film, in cui si avverte la mancanza del motivo profondo per cui il protagonista vive così se non per un rigore quasi monastico, c’è una bella sequenza fissa sul suo volto, sul quale passano tutti i colori della vita. Avremo sempre più nostalgia di questa «presenza» di carne, ma intanto, scrive Turkle: «dobbiamo chiederci se una tecnologia espanda le nostre capacità e possibilità o se sfrutti i nostri punti deboli. Se pensiamo che faccia entrambe le cose, qual è il saldo? La tecnologia ci ha offerto acqua gasata zuccherata, e noi l’abbiamo adottata. Abbiamo impiegato più di cento anni a decidere che non ci faceva bene. E quando l’abbiamo dichiarata nociva, era ormai parte integrante delle immagini più convincenti del sogno americano... e sorprendentemente, ancora oggi, ogni volta che una nuova tecnologia sfrutta una profonda vulnerabilità, ci comportiamo come se non avessimo mai sentito questa storia. La tecnologia, alimentare o digitale, può farci dimenticare ciò che sappiamo della vita. E oggi offre tentazioni sempre maggiori di farci imboccare la strada dell’oblio».

La strada dell'oblio

Nella scuola in cui insegno abbiamo deciso di vietare i cellulari (a meno che non servano per scopi didattici), decisione sulla quale ero combattuto, ma evidenze scientifiche ormai copiose e dati osservabili direttamente (i ragazzi, al suono della campana dell’intervallo, prima rimanevano seduti a controllare il telefono, ora si fiondano fuori) hanno fugato i dubbi. L’oblio del corpo è un prezzo troppo alto da pagare (chi di noi ha «ricordi» di un pomeriggio passato sui social? E non avere ricordi significa essere alienati dalla vita: alibi e alieno hanno la stessa radice), tanto che è semplice buon senso limitare l’uso di questa tecnologia. Guardate il progetto «Removed» del fotografo Eric Pickersgill che nel 2014 ha cominciato a immortalare chi interagisce con un cellulare, rimuovendo poi dalla foto lo strumento: vedrete persone immerse in una realtà di cui non sentono e non sanno più nulla, sono «rimossi» (il contrario di «promossi») dal presente tanto quanto i device lo sono dalla foto. Qualcuno dirà che ormai anche quella nel telefono è realtà salvo poi scoprire che nell’album dei nostri ricordi ci sono solo momenti di profonda «incarnazione» e non chat, video e informazioni. Essere altrove ha un prezzo, soprattutto nelle tappe evolutive, e il paradosso è che siamo noi adulti a fornire l’alibi perfetto a un bambino, che un giorno purtroppo scoprirà che sulla scena del presente è stato la vittima: si è dimenticato di esserci.

Alzogliocchiversoilcielo -Corriere della Sera


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domenica 22 ottobre 2023

UNA PEDAGOGIA DELL'ASCOLTO


-              di José Tolentino Mendonça*

 

-Una cosa che dobbiamo tornare a imparare è l’ascolto. Non ce ne rendiamo conto, ma noi ascoltiamo poco, e lungo le nostre giornate ci lasciamo fluttuare dispersi fra tante interruzioni.

Ipervalorizziamo rumori, sonorità secondarie, voci che si sovrappongono, e non ci disponiamo a captare l’essenziale che ci viene rivelato.

A questo scopo, dobbiamo ricordare che il primo organo di ascolto è il cuore, non solo le orecchie. E che ciò che non ascoltiamo con cuore sveglio rimarrà posticipato, come un ospite alla porta che non arriva mai a essere accolto.

Noi infatti andiamo curvi sotto il peso non solo di quelle cose importanti che, per una ragione o per l’altra, sono rimaste da dire: un altro peso che ci mette in imbarazzo è costituito da ciò che sarebbe stato importante ascoltare con attenzione, ma così non è avvenuto.

Ci fa difetto tutta una pedagogia dell’ascolto. Senza di essa affronteremo la vita in modo sempre impreciso e sfocato: incapaci di cogliere il significato che si nasconde dietro una lacrima o in un sorriso; disattenti a come il bisogno d’amore resti tante volte mascherato da manifestazioni di aggressività, fatica o stupido orgoglio; impreparati a toccare, in noi e negli altri, la ferita e il sogno, l’argilla screpolata e la stella, il naufragio e il respiro, la rigidità che blocca e la danza lievissima, il vuoto e la briciola lucente.

www.avvenire.it

*Cardinale Prefetto del Dicastero Cultura ed Educazione


sabato 7 maggio 2022

TENERE GLI OCCHI APERTI


 SCUOLA
 Tra orsi, armadi e pregiudizi: così si impara a tenere gli occhi bene aperti

 In una scuola di Bucarest, nell’ora di narrativa, leggendo Buzzati e Lewis, i ragazzi hanno imparato a tenere gli occhi bene aperti

 -         Di Giulia Sponsa

-     Si avvicina, con giugno, la fine dell’anno scolastico e anche qui, alla scuola “Aldo Moro” di Bucarest, è d’obbligo tirare le somme del cammino percorso in questi mesi. Per me, che dopo parecchio tempo ho ripreso ad insegnare, si è trattato di un’esperienza davvero significativa tanto che i risultati sono tangibili.

Tra le numerose proposte rivolte ai ragazzi, l’ora settimanale di narrativa è stata forse la più stimolante.

Premetto che, durante tutta la mia carriera di insegnante, ho privilegiato sempre questo spazio, attribuendogli un valore altamente pedagogico. Fin dai primi anni di lavoro, avevo concepito la struttura di quest’ora in forma molto semplice: io leggevo e i ragazzi ascoltavano. Due le regole da rispettare: nessuno studente poteva disporre del libro che solo io avevo il compito di “gestire”; nessuno studente poteva interrompere la “magia” della lettura, salvo che per chiedere il significato di un vocabolo fino a quel momento a lui sconosciuto. Mai ho pensato di esigere dagli alunni la compilazione di schede con attività predefinite o, peggio, che producessero un qualche riassunto sul contenuto del libro in corso di lettura. Quell’ora doveva rappresentare un puro “piacere”. Ciascuno era chiamato poi a verificare se davvero era stata mantenuta la promessa: che cioè leggere poteva considerarsi un’avventura seria e che cominciare un libro era come varcare il confine di un territorio incontaminato nel quale inoltrarsi con curiosità e desiderio. Vietato mancare all’appuntamento!

È pur vero che, nel corso degli anni, il disamore per la lettura è cresciuto esponenzialmente, complice il dilagare della tecnologia; così i libri hanno perso, insieme alla carta, il loro fascino antico. Quand’ero piccola io, leggere veniva considerato un rito: il libro si toccava, si annusava, si sfogliava, ci si stupiva delle figure e dei disegni disseminati tra le pagine e destinati tutti a sollecitare l’immaginazione e la fantasia del lettore.

 

Potrà sembrare incredibile ma quest’anno, nella mia classe, è successo qualcosa di simile: intendo dire che la lettura ha rappresentato un’esperienza “gratuita”. La scelta è caduta su due testi perfettamente calzanti ad una prima media. Nei mesi autunnali, ci ha accompagnato Dino Buzzati con La famosa invasione degli orsi in Sicilia, nota fiaba che racconta della guerra tra il Granduca di Sicilia e re Leonzio, sovrano degli orsi. Con l’opzione successiva de Il leone, la strega e l’armadio, l’autore inglese C.S. Lewis ha saputo trasportarci nel mondo incantato della fantasy.

Se è vero come è vero che l’educazione è un rischio, anche in questo caso ho avuto modo di riscoprirlo: perché, mi sono chiesta, hai deciso di leggere proprio questi libri? Che ipotesi intendi verificare durante la lettura in classe? Dove vuoi portare i tuoi studenti senza necessariamente forzarli a guardare quello che tu hai già visto, ma lasciandoti piuttosto sorprendere da quello che loro saranno in grado di vedere?

Con queste domande e un po’ di trepidazione, siamo partiti…

E così, partecipando alle avventure degli orsi, abbiamo scoperto insieme quanto dannoso sia trincerarsi dietro il pregiudizio. Ogni pagina del libro puntualmente lo documentava: se nei primi capitoli, in forza del pregiudizio che gli umani nutrivano verso gli orsi, erano questi ultimi le vittime designate, col procedere degli eventi i ruoli si andavano via via capovolgendo ed era il popolo degli orsi che, conquistato il potere, assumeva nei confronti della realtà un approccio pregiudiziale. Riscontrare poi in classe, nei rapporti tra compagni, posizioni analoghe e poterle insieme riconoscere e giudicare è stata l’occasione per un ulteriore arricchimento.

Anche il libro di Lewis non ha tradito le aspettative: sfidare la mentalità dominante sull’uso della ragione è un rischio che prima o poi si deve correre. I due dialoghi che – in apertura e in chiusura del libro – intrattiene il professore con i quattro giovani protagonisti della storia, sono stati una pista preziosa per accorgersi di come anche il mondo della fantasia possa, a pieno titolo, riguardarci: il regno di Narnia che esiste oltre l’armadio rappresenta l’orizzonte sconfinato del proprio cuore: dopo averlo per la prima volta scoperto, capiterà, un domani, di ritornarci: “Non cercate di andarci di proposito – raccomanda il professore –. Vi capiterà di tornarci quando meno ve lo aspettate. Non parlatene troppo neanche tra voi quattro; agli altri non dite nulla a meno che non vi succeda di incontrare quelli che hanno avuto avventure simili alle vostre. Come farete a riconoscerli? Lo capirete subito e il segreto verrà fuori da solo. Tenete gli occhi bene aperti!”.

Tenere dunque bene aperti gli occhi: un’indicazione di metodo che conosciamo. Chissà se, conservando tale attenzione, diventeremo capaci un giorno di metterci noi al “seguito” degli studenti, fino ad “annotare”, di loro, quello che, imprevedibilmente, ci fa sobbalzare.

 Il Sussidiario

sabato 10 ottobre 2020

I GIOVANI E LA SFIDA DELLE DIPENDENZE DIGITALI


 Serve alleanza scuola famiglia

 L’aumento di manipolazioni e dipendenze legate al web riapre il dibattito sulla necessità di educare ad un uso consapevole dei nuovi media. Di rischi di isolamento e perdita di contatto con la realtà concreta ha parlato il Papa nell’Enciclica Fratelli tutti. De Luca (Università Europea): gli adulti spendano più tempo per dialogare con i ragazzi

                                                                                    Marco Guerra – Città del Vaticano

 I fatti di cronaca raccontano sempre più spesso storie preoccupanti di bambini e adolescenti che incorrono in grandi pericoli durante una fruizione del web e dei social incontrollata e spasmodica. I ragazzi sono sottoposti a manipolazioni del loro comportamento, approcci interessati, “extreme challenge” e sessualizzazione precoce.

I giovani sono più vulnerabili

Personalità in fase di strutturazione sono rese ancora più fragili da vere e proprie forme di dipendenza nei confronti dei dispositivi digitali che vengono utilizzati senza la capacità di elaborare i contenuti che vengono loro proposti.

Il dramma a Napoli

Questa emergenza generazionale è tornata al centro del dibattito pubblico dopo il suicidio, la scorsa settimana a Napoli, di un bambino di 11 anni che in un ultimo messaggio ai genitori ha parlato di un “uomo col cappuccio”. Un particolare che ha spinto la Procura partenopea a ipotizzare che l’adolescente sia stato istigato da qualcuno su internet. La Polizia Postale sta seguendo le tracce lasciate sul web.

Ordine Psicologi: minori sfruttati da nuove tecnologie

Su questa drammatica vicenda è intervenuto anche il Consiglio nazionale dell’ordine psicologi (Cnop) con una nota in cui spiega che “il suicidio del bambino di Napoli, al di là delle circostanze specifiche da appurare, accende un faro sulle nuove forme di violenza ed abuso sui bambini e gli adolescenti, che vengono sfruttati in modo perverso dalle nuove tecnologie”. “Nessuno vuole criminalizzare la rete o i social, che offrono anche grandi opportunità – prosegue il comunicato –, ma è evidente che si prestino ad essere terreno fertile per grandi violazioni, dalle quali i minori sono spesso indifesi”, soli “di fronte al mare magnum di tutto ciò che in rete si può trovare”.

Accompagnare i ragazzi

Il più alto organismo degli psicologi italiani esorta quindi ad “accompagnare i più e meno piccoli nel cammino nella rete”. “Viviamo in un mondo che mette l’infanzia davanti ad un numero enorme di sollecitazioni – conclude la nota -, che spesso non possono essere gestite sul piano emotivo creando scompensi e vulnerabilità. È necessario che, al di là della performance, si punti alla costruzione di uno sviluppo armonico, che ha nell’affettività una componente essenziale”.

Il Papa: media digitali espongono a dipendenza e isolamento

Su queste sfide epocali ha puntato l’attenzione anche Papa Francesco nell’Enciclica Fratelli tutti. Il Santo Padre nel paragrafo 42 riconosce che “nella comunicazione digitale si vuole mostrare tutto ed ogni individuo diventa oggetto di sguardi che frugano, denudano e divulgano, spesso in maniera anonima. Il rispetto verso l’altro si sgretola e in tal modo, nello stesso tempo in cui lo sposto, lo ignoro e lo tengo a distanza, senza alcun pudore posso invadere la sua vita fino all’estremo”. Nel paragrafo 43 riprede poi un passaggio dell’Esortazione Christus vivit in cui spiega che “i media digitali possono esporre al rischio di dipendenza, di isolamento e di progressiva perdita di contatto con la realtà concreta, ostacolando lo sviluppo di relazioni interpersonali autentiche”.

Gli studi sul fenomeno

Queste problematiche sono state oggetto di approfonditi studi scientifici che, attraverso l’utilizzato di tecnologie di neuroimaging, hanno scoperto che il circuito cerebrale del desiderio stimolato da internet è simile a quello su cui influiscono alcol e droghe. L’ipotesi è che il desiderio di stare connessi attivi aree cerebrali comuni a quelle coinvolte dalle sostanze stupefacenti e psicotrope. Particolarmente preoccupanti e diffuse sono poi le dipendenze da videogiochi e pornografia. Secondo un’indagine Moige (Movimento italiano genitori), condotta, nel 2019, su un campione di studenti italiani delle scuole medie e superiori, il 52,4 % dei ragazzi dice di aver visto almeno una volta materiale pornografico e fra questi il 41% guarda video o foto pornografiche “spesso” o “molto spesso”. Circa la metà dei ragazzi dice poi di aver giocato a videogames con contenuti volgari o violenti. 

De Luca: caduto il limite tra virtuale e reale

“Viviamo in una società iper-connessa dove non si parla più di reale e virtuale, ma di on line e off line, perché quello che succede nel virtuale ha ripercussioni anche nel reale. Per questo è difficile capire quando un ragazzo cade nella dipendenza da internet che è una dipendenza comportamentale”, così Michela De Luca, psicologa e psicoterapeuta, docente di cyberpsicologia all’Università Europea di Roma, analizza per Vatican News il fenomeno delle nuove dipendenze digitali.

I deficit di attenzione

De Luca sottolinea questa dipendenza presenza sintomi simili a quella per le sostanze stupefacenti: “avviene la perdita di controllo, l’astinenza e la tolleranza ovvero devo aumentare il consumo di quello che mi soddisfa”. Tra le conseguenze più nefaste si osserva un deficit di attenzione tra i ragazzi che abusano del web dovuto “ad una lettura non lineare che passa da un contenuto all’altro”, e il passaggio veloce tra diversi contenuti abbassa il livello di attenzione, “i ragazzi non sono più abituati a fermarsi su un testo, manca la concentrazione che porta a riflettere e ad elaborare pensieri creativi”.

L’impegno di scuola e genitori

Non meno preoccupanti sono i tentativi di manipolazione del comportamento dei ragazzi. Secondo la prof.ssa De Luca, i minori sono più inclini ai condizionamenti perché hanno una personalità ancora in formazione e i ragazzi tendono a fidarsi di persone che si presentano come confidenti capaci di capirli. “Dobbiamo anche noi adulti ad essere più consapevoli, dobbiamo informarci, creare una rete con la scuola ma soprattutto dialogare con i nostri figli per capire insieme come affrontare queste situazioni”, spiega in conclusione l’esperta di cyberpsicologia, che invita infine le mamme e i papà a ritagliarsi del tempo per offrire alternative valide al cellulare, educando alla bellezza e proponendo attività creative da svolgere insieme.

 

Vatican News




lunedì 2 marzo 2020

RAGAZZI VITTIME DI TV E CELLULARI

Gli schermi rendono i bambini irritabili, depressi e svogliati: 
6 modi in cui agiscono negativamente sul cervello

Tv e cellulari sono strumenti utili, ma da usare con moderazione e intelligenza.
I genitori diano il buon esempio-


Bambini depressi, apatici, nervosi e irritabili: è sempre più frequente riscontrare nei più piccoli disturbi comportamentali, diagnosticati o meno. Una soluzione spesso prospettata dagli esperti è quella di un periodo "senza schermi", intendendo ovviamente quelli elettronici: ed ecco che senza troppi sforzi migliora la qualità del sonno, i bambini si dimostrano più tranquilli e solari, migliora la capacità di attenzione, quella organizzativa e aumenta anche l'attività fisica. Ma perché l'eliminazione drastica e prolungata (qualche settimana) è così efficace? Perché inverte la maggior parte delle disfunzioni fisiologiche causate proprio da un'assunzione giornaliera di schermi.
I cervelli in sviluppo dei bambini sono molto più sensibili agli stimoli dei dispositivi elettronici: ecco 6 modi in cui gli schermi producono di frequente disturbi dell'umore.

  • 1. Gli schermi interferiscono con i ritmi sonno veglia. I ritmi di sonno e di veglia sono regolati dalla melatonina, un ormone che comunica al corpo quando dormire e che è rilasciato nel buio. È stato osservato che la luce emessa dagli schermi agisce come soppressore della melatonina, interferendo con i cicli naturali di sonno e di attività. Solo qualche minuto di luce blu bastano a ritardare la secrezione dell'ormone anche di qualche ora. 
  • 2. Gli schermi desensibilizzano il sistema di ricompensa del cervello. Usare schermi elettronici fa rilasciare nel corpo alti livelli di dopamina, l'ormone responsabile della sensazione di benessere nel raggiungimento degli obiettivi. Quando però il sistema di ricompensa viene usato eccessivamente si desensibilizza, e sono necessarie esperienze sempre più stimolanti per provare piacere.
  • 3. Esistono collegamenti tra luce blu degli schermi e depressione. Diversi studi hanno dimostrato come l'esposizione giornaliera alla luce blu degli schermi elettronici sia collegata ad una maggiore insorgenza di depressione e disturbi collegati. 
  • 4. Gli schermi innescano reazioni di stress. Quando si sperimentano stress cronici, nel corpo si innescano alterazioni ormonali che possono determinare una irritabilità maggiore.
  • 5. Gli schermi sovraccaricano il sistema sensoriale e frammentano la capacità di attenzione, con il risultato che dietro un comportamento "esplosivo" c'è sempre una incapacità di attenzione: quando manca la capacità di concentrazione, viene intaccato il processo di elaborazione degli stimoli ambientali, col risultato che piccole questioni appaiono insormontabili. 
  • 6. Gli schermi diminuiscono il contatto con la natura e il movimento fisico. Stare a contatto con la natura, di contro, può ripristinare le capacità di attenzione e concentrazione, riduce lo stress e gli stati di aggressività. 

Source:


venerdì 13 aprile 2018

LEZIONE FRONTALE ...... QUANTO SERVE?


STUDENTI CATATONICI? 
 È LA LEZIONE FRONTALE

CATATONIA (dal gr. κατά "sotto" e τόνος "tono"). - Quadro psicopatico a base dissociativa, nel quale l'azione si svincola quasi interamente dalle motivazioni razionali e affettive e resta inceppata in contrasti automatici che l'irrigidiscono o la rendono saltuaria e stolida. 
catatonici stanno fermi e ritti in atteggiamenti statuarî,  
(Da Enciclopedia Treccani)..

di Daniele Novara

      La scuola italiana ha un problema che si perde nella notte dei tempi. Un equivoco, profondamente radicato e pervasivo, che ha un nome preciso: lezione frontale.
     La didattica della scuola italiana si basa ancora sulla convinzione che il metodo più efficace perché bambini e ragazzi apprendano consista nella spiegazione dell’insegnante. La lezione frontale richiede molta capacità di attenzione, che, come dimostrato da tante ricerche neuroscientifiche, non è sostenibile neanche dagli adulti, figurarsi da bambini e ragazzi. Non implica alcuna competenza pedagogica: si spiega, si richiede agli studenti lo studio individuale, attraverso la ripetizione dei contenuti spiegati, e, infine, si interroga e si valuta l’alunno.
      L’attenzione è 'selettiva', ossia sceglie di cogliere alcuni stimoli e ne ignora altri, da cui il cervello è bombardato simultaneamente. I bambini sviluppano presto l’attenzione 'selettiva' e, piano piano, crescendo diventano capaci di gestirla in modo 'volontario', sviluppando nell’adolescenza una sempre maggiore capacità di concentrazione. È un processo fisiologico, estremamente individuale, influenzato da numerosi fattori: le risorse individuali, la motivazione, le caratteristiche personali, la stanchezza. La massima capacità di attenzione si registra attorno ai 18/26 anni e non supera i 40/45 minuti di tempo. Inoltre, considerato che in classe alunni e studenti sono sottoposti a infiniti fattori di interazione e disturbo, è facile rendersi conto come la lezione frontale sia chiaramente fallimentare.           
          Quindi, dopo 50 minuti di spiegazione, è normale che i ragazzi abbiano adottato la tecnica dello sguardo catatonico: si concentrano sull’insegnante senza minimamente ascoltarlo. Il miglior processo di apprendimento non si attiva in solitudine. Il genio intellettuale, che studia isolato, come Vittorio Alfieri che si lega alla sedia o Giacomo Leopardi rinchiuso nella biblioteca paterna, non sono modelli ma personaggi speciali, l’eccezione che conferma la regola. Le scoperte legate al sistema dei neuroni specchio confermano l’importanza dell’interazione sociale per imparare: osservando gli altri, nel nostro cervello si attivano le stesse aree necessarie per acquisire quelle informazioni. 
         Inoltre, il gruppo attiva numerosi elementi emotivi e motivazionali e favorisce le capacità cognitive. 
          La scuola, per sua natura sociale, gestisce un processo di apprendimento di gruppo, in cui la logica dell’isolamento è fuori contesto. Purtroppo nella pratica tutto ciò viene scarsamente considerato, anzi, constatiamo quotidianamente che nella maggior parte delle classi di ogni ordine e grado ha ancora un ruolo egemone la trasmissione nozionistica e l’individuazione della risposta considerata 'esatta', che deve essere rielaborata in solitudine, nella convinzione diffusa che il confronto con gli altri sia solo una perdita di tempo, un elemento che disturba il tradizionale processo di conoscenza.
         Anche la maieutica, come la lezione frontale, risale alla notte dei tempi ma, al contrario di quella, risulta ancora oggi innovativa perché più aderente alle condizioni che permettono di imparare in modo efficace. 
        Da Socrate a sant’Agostino, fino a Maria Montessori, Danilo Dolci o Paulo Freire, l’approccio maieutico all’apprendimento parte dall’assunto che, all’opposto della lezione frontale, l’attore del processo di apprendimento è lo studente, non il docente. 
          La maieutica è orientata a sviluppare la capacità di acquisire apprendimenti che portano l’alunno a fare da solo e a essere in grado di costruire delle competenze permanenti, non estemporanee né basate su performance puramente ripetitive. Può essere sintetizzato in un’idea: «Fare esperienza insieme agli altri e affrontare in gruppo i problemi che rendono capace di imparare autonomamente». 
        Il presupposto fondamentale è che chi impara deve attivarsi, sviluppare le proprie risorse, non restare abbarbicato alla presunta sicurezza della pura e semplice ripetizione. La scuola che verrà non potrà che essere una vera comunità di apprendimento.

Sabato 14 aprile (Teatro Carcano a Milano, corso di Porta Romana 63, ore 9-17) si svolge il convegno «La lezione non serve - La scuola come comunità di apprendimento», organizzato dal Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti (Cpp) fondato e diretto da Daniele Novara. Il convegno ha l’obiettivo di mettere in discussione la lezione frontale per proporre un nuovo modo di insegnamento basato sul coinvolgimento diretto e sociale degli alunni.

da AVVENIRE  - www.avvenire.it 


martedì 7 dicembre 2010

INTERNET CAMBIA L'UOMO E IL SUO CERVELLO

Due articoli pubblicati sulle pagine di cultura del Corriere della Sera, il 24 novembre, mettono in risalto aspetti inquietanti della diffusione sempre più capillare delle tecnologie informatiche, che starebbero modificando profondamente non solo il modo di interagire e rapportarci al mondo, ma il nostro stesso cervello e le sue facoltà. I due articoli non sono disponibili online, ma per l'originalità delle argomentazioni e la lucidità con cui sono espresse, merita in questa sede riassumerli.....

Leggi: Internet cambia l'uomo e il suo cervello
           I nostri ragazzi sono più vittime della realtà o del mondo virtuale?