Visualizzazione post con etichetta telefono. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta telefono. Mostra tutti i post

martedì 5 marzo 2024

TECNOLOGIA e ACQUA GASATA

EDUCARE

AL TEMPO

DEGLI

 SMARTPHONE



-       -  di Alessandro D’Avenia

 

In Inghilterra è stato vietato l’uso dei cellulari nelle scuole allo scopo di migliorare la disciplina, l’attenzione e il rendimento degli studenti (lo hanno più dell’80% dei ragazzi tra 12 e 15 anni).

Qual è la relazione tra un telefono e questi aspetti della vita scolare di un ragazzo? Chiunque abbia dimestichezza di gialli sa che cosa è un alibi, parola latina che significa «altrove». L’indagato, quando è avvenuto, non era sul luogo del delitto, ma «altrove»: ha un alibi. Leggo alibi da 24 anni, da quando ho cominciato a insegnare, perché le giustificazioni per le assenze lo sono: motivi familiari, personali, indisposizione, lutto, visita medica... Tutti li abbiamo usati con più o meno creatività (e verità), ma si limitavano a qualche giorno di scuola. Oggi invece abbiamo un alibi per la vita stessa: quest’alibi è il cellulare. Ci porta «altrove» rispetto alla scena principale del vivere: il presente. Il nostro corpo perde consistenza e la presenza, che è luogo dell’esperienza, evapora, tanto che ci dimentichiamo persino di dormire: andare a letto con il cellulare ha diminuito le ore di sonno necessarie a un adolescente con conseguenze sulla salute mentale e fisica che vedremo emergere sempre di più. Se un giorno metteremo sui telefoni minacce simili a quelle comparse sui pacchetti di sigarette, una potrà sintetizzarle tutte: «ti dà un alibi». Perché?

Le interazioni sociali

La psicologa e sociologa Sherry Turkle scriveva nel 2017 una nuova prefazione al famoso libro del 2010, Insieme ma soli, dedicato al cambiamento delle interazioni sociali dovuto alle recenti tecnologie (il primo smartphone è del 2007 e oggi lo abbiamo in quasi 5 miliardi): «Gli studi mostrano che se due persone stanno pranzando, un cellulare sul tavolo fa virare la conversazione su temi più leggeri, e i due commensali si sentono meno coinvolti reciprocamente. Chi partecipa alla conversazione sa che, con un telefono in vista, si può essere interrotti in qualunque momento. La nostra distrazione ha un prezzo». Perché lo facciamo? Le relazioni sono faticose: argomenti di conversazione, momenti impegnativi, il peso della verità, sentimenti complessi... Preferiamo fuggire o almeno avere una via di fuga. Quando scrivo un libro non sono connesso a Internet, perché avrei un alibi nei momenti di fatica: devo restare lì, proprio dove la pagina resiste e mi costringe ad essere ancora più presente a me stesso. La verità si trova solo nella e con la carne. Nell’ambito delle relazioni non è diverso: le relazioni sono impegnative come le pagine bianche. E trovare un alibi nelle relazioni comporta la perdita di una capacità: amare. Una ricerca, racconta Turkle, ha rilevato «un calo del 40% negli indicatori dell’empatia tra gli studenti universitari. E siccome la maggior parte di quel calo è avvenuto nell’ultimo decennio, è ragionevole collegare il divario di empatia alla presenza delle comunicazioni digitali». L’alibi perfetto per non sentire il peso dell’altro, con la conseguente perdita delle abilità corporee da cui sorge l’empatia: sguardi, espressioni, silenzi, tono... (e infatti poi introduciamo fantomatici corsi sulle cosiddette soft skill). Turkle dice: «La tecnologia ci fa dimenticare ciò che sappiamo della vita. Le persone ammettono che nella conversazione vis-à-vis comprendono meglio i loro figli, coniugi, genitori e partner e imparano come relazionarsi con gli altri. Eppure, vi diranno anche che sono contente di usare la tecnologia per evitare quelle conversazioni, perché sono difficili... Un giovane mi spiega che farebbe qualunque cosa pur di evitare una conversazione: “Si svolge in tempo reale, e non puoi controllare quel che dirai”. Quando ci viene offerto qualcosa che può semplificarci la vita, dimentichiamo i nostri scopi umani». 

Un mondo analogico

Queste considerazioni mi sono tornate in mente guardando il film Perfect Days di Wim Wenders, candidato all’Oscar. Il protagonista vive in un mondo analogico e di assoluta presenza: pulisce i bagni di Tokyo, ascolta audiocassette (la colonna sonora vale il film), scatta foto su pellicola... E non a caso è dotato di un’empatia che lo rende una calamita per le relazioni, soprattutto per i ragazzi, che nel film hanno sempre un telefono in mano e lo cercano proprio perché non ha «alibi»: c’è, sta nel presente e risponde alle sue chiamate (emblematica la scena in cui uno sconosciuto gli confida che ha un cancro e si mettono a giocare come bambini). Nel film, in cui si avverte la mancanza del motivo profondo per cui il protagonista vive così se non per un rigore quasi monastico, c’è una bella sequenza fissa sul suo volto, sul quale passano tutti i colori della vita. Avremo sempre più nostalgia di questa «presenza» di carne, ma intanto, scrive Turkle: «dobbiamo chiederci se una tecnologia espanda le nostre capacità e possibilità o se sfrutti i nostri punti deboli. Se pensiamo che faccia entrambe le cose, qual è il saldo? La tecnologia ci ha offerto acqua gasata zuccherata, e noi l’abbiamo adottata. Abbiamo impiegato più di cento anni a decidere che non ci faceva bene. E quando l’abbiamo dichiarata nociva, era ormai parte integrante delle immagini più convincenti del sogno americano... e sorprendentemente, ancora oggi, ogni volta che una nuova tecnologia sfrutta una profonda vulnerabilità, ci comportiamo come se non avessimo mai sentito questa storia. La tecnologia, alimentare o digitale, può farci dimenticare ciò che sappiamo della vita. E oggi offre tentazioni sempre maggiori di farci imboccare la strada dell’oblio».

La strada dell'oblio

Nella scuola in cui insegno abbiamo deciso di vietare i cellulari (a meno che non servano per scopi didattici), decisione sulla quale ero combattuto, ma evidenze scientifiche ormai copiose e dati osservabili direttamente (i ragazzi, al suono della campana dell’intervallo, prima rimanevano seduti a controllare il telefono, ora si fiondano fuori) hanno fugato i dubbi. L’oblio del corpo è un prezzo troppo alto da pagare (chi di noi ha «ricordi» di un pomeriggio passato sui social? E non avere ricordi significa essere alienati dalla vita: alibi e alieno hanno la stessa radice), tanto che è semplice buon senso limitare l’uso di questa tecnologia. Guardate il progetto «Removed» del fotografo Eric Pickersgill che nel 2014 ha cominciato a immortalare chi interagisce con un cellulare, rimuovendo poi dalla foto lo strumento: vedrete persone immerse in una realtà di cui non sentono e non sanno più nulla, sono «rimossi» (il contrario di «promossi») dal presente tanto quanto i device lo sono dalla foto. Qualcuno dirà che ormai anche quella nel telefono è realtà salvo poi scoprire che nell’album dei nostri ricordi ci sono solo momenti di profonda «incarnazione» e non chat, video e informazioni. Essere altrove ha un prezzo, soprattutto nelle tappe evolutive, e il paradosso è che siamo noi adulti a fornire l’alibi perfetto a un bambino, che un giorno purtroppo scoprirà che sulla scena del presente è stato la vittima: si è dimenticato di esserci.

Alzogliocchiversoilcielo -Corriere della Sera


Immagine



 


 

sabato 23 gennaio 2021

CE L'HANNO TUTTI !


 Fino a una certa età l’accesso a tutto fa danni

 Educhiamo anche coi no

-          

-         di MASSIMO  CALVI

-          

Il modo migliore e più corretto per aiutare un bambino a imparare a rapportarsi a uno smartphone è investire nell’educazione. Come genitori e come comunità. La questione dell’approccio alla tecnologia da parte dei minori è sostanzialmente educativa. Nel dirlo e nel ribadirlo occorre però tenere conto di due aspetti fondamentali. Il primo è che la povertà educativa non coincide necessariamente con quella economica, ed è spesso più diffusa e trasversale. Il secondo che educare, privatamente e collettivamente, significa anche saper dire dei no. E oggi si dovrebbe avere il coraggio di affermare che uno smartphone, inteso come strumento con libero accesso a tutti i contenuti della rete e a tutti i social network, non andrebbe dato quantomeno prima dei 13 anni.

Non è tanto un problema di norme: i social sono già vietati dai loro stessi codici prima di quell’età. Inutilmente. Ciò dovrebbe far riflettere. Un ragazzino di 10 anni è perfettamente in grado di andare da solo a scuola con uno 'strumento' come un monopattino elettrico o un motorino: se non accade è perché tutti sappiamo che non saprebbe gestire una situazione complessa nel traffico. Una ragazzina di 13 anni è capace di ritirare da scuola la sorellina di 9: la scuola, giustamente, non lo permette. A quell’età, se 'ben educati', si può anche gestire un vero piccolo fucile personale: in certi contesti avviene, per fortuna la pratica attira meno dell’uso libero dello smartphone. Siamo sicuri che ci sia una differenza? Anche grazie agli smartphone i nostri figli in questi mesi hanno potuto fare lezione e restare in contatto con gli amici. In realtà hanno solo usato una funzione marginale di questo strumento: tutto il resto non serve loro, non è adatto, e può «rubare l’infanzia » cui avrebbero diritto, come rileva Stefania Garassini nel manuale 'Smartphone, 10 ragioni per non regalarlo alla prima Comunione (e magari neanche alla Cresima)', dove la premessa è che «educare all’uso della tecnologia significa soprattutto educare ». Ripartire dai fondamenti della genitorialità, allora, significa anche ammettere che se abbiamo dato uno smartphone a un bambino, spesso è solo perché 'lo avevano già tutti', soggiacendo a una dittatura culturale che andrebbe invece capovolta se abbiamo veramente a cuore la questione educativa in senso comunitario. 

Uno smartphone è una porta aperta su un mondo sconfinato che stiamo imparando a conoscere in tutte le sue sfaccettature: tanto noi adulti quanto i nostri figli abbiamo bisogno di un racconto pubblico che ci aiuti a individuare i nuovi pericoli, incominciando a definire cosa si può fare e cosa no.

 

www.avvenire.it

 

venerdì 3 gennaio 2020

IL TEMPO AL DISPLAY CAMBIA IL CERVELLO? PERICOLO PER I BAMBINI

Lo studio di un gruppo di ricercatori dell’ospedale pediatrico di Cincinnati ha dimostrato per la prima volta la correlazione tra l’uso degli schermi e il mancato potenziamento di certe aree del cervello, soprattutto quelle preposte alla comprensione e alla produzione del linguaggio 
Le raccomandazioni dell’Oms per i neonati

GIUSEPPE O. LONGO

Da qualche tempo si era intuito che l’uso dei dispositivi digitali dotati di schermo poteva avere effetti cospicui sul cervello, specie nel caso di bambini in età prescolare. Ora si ha un’autorevole conferma del fenomeno grazie allo studio condotto da un gruppo di ricercatori guidato dal dottor John S. Hutton, direttore del Reading and Literacy Discovery Center dell’Ospedale Pediatrico di Cincinnati, nell’Ohio. I risultati dello studio, pubblicati sul “Journal of theAmerican Medical Association” ( Jama) poco più di un mese fa, dimostrano che vi è una correlazione tra l’uso degli schermi e il mancato potenziamento di certe aree del cervello, specie quelle preposte alla comprensione e alla produzione del linguaggio, confermando la validità delle raccomandazioni tese a limitare il «tempo schermo», cioè il tempo passato davanti a uno schermo. Già nell’aprile di quest’anno l’Organizzazione mondiale della sanità aveva preso posizione rispetto al tempo schermo e aveva emanato un pacchetto di linee guida. Le linee guida sono molto minuziose, al limite della pedanteria, come dimostra questo esempio che interessa i bambini sotto l’anno di età: essi devono svolgere attività fisica più volte durante l’arco della giornata, in particolare giocando sul pavimento per almeno 30 minuti distribuiti in più intervalli temporali, e non devono restare più di un’ora di seguito confinati sul seggiolone o sul passeggino. L’Oms, inoltre, sconsiglia l’uso degli schermi per questa fascia d’età e raccomanda invece l’ascolto di storie lette da un adulto, in particolare da un genitore, pratica che rafforza il legame affettivo e amplia la comprensione e la padronanza del vocabolario. È impressionante il dato, fornito dall’Oms, che la scarsa attività fisica sia responsabile di oltre 5 milioni di morti l’anno ed è preoccupante che la sedentarietà sia più diffusa tra gli adolescenti (80%) che tra gli adulti (23%), segno che l’impigrimento tende a diffondersi tra i più giovani.
Gli umani sono creature della narrazione e ciascuno di noi dalla nascita alla morte non fa altro che narrare, narrarsi e farsi narrare delle storie, quindi è grandissima l’importanza dei racconti per la formazione identitaria dell’individuo, per la ricerca del senso del mondo e di noi nel mondo e per il rafforzamento del legame affettivo tra il bambino e il lettore di storie, che quasi sempre è un genitore.
Tornando alle raccomandazioni dell’Oms, fino ai primi 3 mesi i piccoli debbono dormire dalle 14 alle 17 ore (che miraggio per noi vecchi, tormentati dall’insonnia!) e dalle 12 alle 16 ore devono dormire i bambini tra i 4 e gli 11 mesi... E così via, in un susseguirsi di prescrizioni molto categoriche e rigide, la cui precisione è stata contestata dai molti che sostengono che al crescere dell’età dei soggetti la meticolosità dovrebbe essere sostituita da una sorta di «libertà vigilata» che aiuti genitori e bambini ad accrescere il senso di comunanza affettiva, senza privare i piccoli delle opportunità offerte dagli schermi dei videogiochi, della Tv, dei tablet e via elencando.
Negli Stati Uniti è stata fondata trent’anni fa la “Reach Out and Read”, un’organizzazione che si propone di incoraggiare la lettura ad alta voce dei genitori ai loro bambini, limitando il tempo schermo e facendo in modo che nelle abitazioni vi siano zone prive di schermi, in particolare la stanza da letto dei piccoli. Il cervello dei bimbi è condizionato dall’ambiente in cui crescono e dallo stile di vita che conducono, di cui sono in gran parte responsabili i genitori, tuttavia secondo Hutton non si devono demonizzare gli schermi né tanto meno colpevolizzare i genitori, ma si deve trasmettere loro questo messaggio: nei primi anni i genitori sono importantissimi, devono essere presenti, interagire coi bambini giocando, parlando, cantando, facendo domande e rispondendo e, soprattutto, leggendo ad alta voce. È convinzione ormai diffusa tra i pediatri che lo sviluppo ottimale del cervello infantile richieda una costante interazione con gli esseri umani, in particolare con i genitori.
È probabile che, sotto il profilo diacronico, il cervello si sia evoluto, cablato e sviluppato grazie a queste interazioni, quindi si deve fare in modo che i piccoli le possano esercitare, perché ogni volta che si compie un’azione, le connessioni neuronali corrispondenti ne sono rinforzate. Hutton sottolinea che lo studio condotto dal suo gruppo è il primo che documenti una correlazione tra il tempo schermo da una parte e le strutture cerebrali e le loro funzionalità dall’altra. Peraltro si deve sottolineare che correlazione non significa relazione di causaeffetto, che è un legame ben più forte, di carattere deterministico. Inoltre, se esiste una relazione di causa-effetto, può darsi che essa abbia a che fare non tanto con gli schermi quanto con ciò di cui il tempo schermo prende il posto nella vita dei bambini, ma questo resta un punto da approfondire.
Guidare un’automobile non è in sé una pratica nociva, ma farla guidare da un piccolo di quattro o cinque anni non è una buona idea. Così i tablet, in particolare, sono così attraenti ed esclusivi che non dovrebbero finire nelle mani dei bambini in età prescolare. Ciò, ribadisce Hutton, non comporta che gli schermi siano intrinsecamente deleteri, ma poiché un cervello in pieno sviluppo è strutturato dalle esperienze, è bene che i genitori scelgano le esperienze più utili e costruttive per i loro figli e per la loro vita futura. E qui si torna all’idea che la straordinaria plasticità del cervello infantile può essere sfruttata nel modo più vantaggioso sotto il profilo strutturale e funzionale se il bambino si esercita nella lettura, nell’ascolto e nell’invenzione di storie, nei giochi all’aperto, mentre se il tempo schermo prende il posto delle interazioni con gli altri esseri umani, in particolare con i genitori, è possibile che lo stupefacente potenziale di plasticità cerebrale tipico dell’età infantile non dia i frutti che potrebbe fornire.
In particolare, poiché una delle capacità più straordinarie degli umani è la padronanza del linguaggio parlato, è importante che le esperienze precoci rafforzino la aree cerebrali che presiedono a questa funzione: l’area di Wernicke, addetta alla comprensione del linguaggio, e l’area di Broca, addetta alla produzione del linguaggio. Queste due aree linguistiche sono collegate tra loro da un fascio di neuroni, il fascicolo arcuato, che garantisce uno scambio di messaggi tra Wernicke e Broca. È superfluo sottolineare l’importanza sociale e culturale del linguaggio. Senofonte attribuiva a Socrate queste parole: «Non hai mai pensato che tutte le cose che per legge abbiamo imparato essere ottime, e per le quali sappiamo vivere, tutte le abbiamo imparate per mezzo della favella?». Ecco che l’esercizio della narrazione attiva e passiva rafforza le aree del linguaggio e consente di sviluppare le interazioni sociali e il dialogo interno, attribuendo un senso al mondo e a noi nel mondo.
Chissà se la loro assidua attività di ricerca porterà prima o poi i neuroscienziati a scoprire qualche area cerebrale che si comporti nei confronti degli schermi come le aree di Wernicke e di Broca si comportano nei confronti del linguaggio parlato... Si aprirebbero orizzonti scientifici e filosofici di vastità inaudita.