Sesta domenica di Pasqua At 8, 5-8.14-17/1Pt
3,15-18 / Gv 14,15-21
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se
mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi
darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della
verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi
lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.
Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un
poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi
vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io
in voi.
Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva,
questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch'io lo
amerò e mi manifesterò a lui».
Commento
di Paolo
Curtaz
Pandemia.
Stiamo tornando ad una quasi normalità. Almeno
possiamo lasciare che il sole scaldi il nostro viso e camminare nei parchi o
sulle colline che attorniano le nostre residenze. E abbiamo rivisto genitori e
nonni dopo due mesi. E, spero, stiamo nuovamente guardando oltre, progettando
anche se saranno tempi difficili. Prove di ripartenza. Fatta con prudenza
certo. Il 4 maggio alle 7 un caro amico mi ha inviato la foto di un cappuccino
da asporto che si era portato in ufficio. Piccole gioie per richiamarci a
quante cose diamo per scontate, ogni giorno. Accorgerci di quante cose inutili,
preoccupazioni, ansie, abitudini, intasano il nostri cuori e la nostra mente.
Sono poche, invece, le cose essenziali. Forse lo stiamo capendo. Una, fra
tutte. Amare. Sapersi amati. Saper amare. Giustappunto.
Sappiti amato.
Se mi amate. Gesù ora parla di sé nell’ultimo
grande discorso che, nel Vangelo di Giovanni, fa ai suoi discepoli. È una sorta
di testamento definitivo, di condivisione delle proprie emozioni. Gli apostoli
sono straniti da quei discorsi di addio, ancora non sanno cosa sta per
accadere. E in quelle parole, come dicevamo domenica scorsa, Gesù concentra
tutta la sua travolgente passione, il suo amore, l’intensità della sua
missione. Se mi amate. Quante volte usiamo questo termine con i nostri figli,
con i nostri famigliari, con il nostro partner. Se davvero mi vuoi bene
dovresti… Prove, ricatti, sotterfugi per mettere all’angolo chi dice di amarci.
Ha un volto negativo, questa affermazione. Il volto del giudizio, dell’esame,
della messa in discussione continua. Là dove siamo noi i giudici. E
un’ambiguità insormontabile: siamo noi a stabilire le condizioni che l’altro
deve osservare per dimostrare il suo amore. Come se sapessimo cos’è l’amore.
Sul serio. Ma dai.
Amori folli.
Diffido dell’uso massivo del termine amore.
Non solo perché, da buon montanaro, manifesto un certo pudore nell’esprimere
emozioni e affetti. Ma molto di più perché dietro questo termine, ormai,
abbiamo nascosto tutto e il contrario di tutto. Come l’omicida che, disperato,
afferma di avere ucciso la propria amata perché la amava troppo. Amore e
follia, sommo amore e sommo egoismo, quasi sempre coincidono. Cosa intende dire
Gesù, allora, quando dice se mi amate? Il suo non è un ricatto. Non è un
manipolatore. Non suscita sensi di colpa. Se mi amate osservate i miei
comandamenti. Il principale comandamento, anzitutto: amatevi gli uni gli altri
dell’amore con cui vi ho amati. Possiamo amare se accogliamo il suo amore
incondizionato. Diventiamo capaci di amare di quell’amore che riceviamo. Non
perché migliori o sensibili o buoni.
Perché amati.
Perché impariamo alla scuola di chi ci ama
senza condizioni. Il “comandamento”, allora, perde tutta la sua tetra valenza
giuridica, di obbligo, di legge, di comando. E diventa la forma dell’amore. Il
modo concreto che abbiamo di manifestare affetto per un’altra persona. Se dico
che ti amo e non ti vedo mai, chi mi può credere? Se dico che ti amo e ti
lascio morire di fame o di solitudine, a che serve? Il comandamento, allora,
diventa il modo pratico di declinare l’amore che ho per te. E il comandamento
di cui parla Gesù è quello appena consegnato durante l’ultima cena, che
completa e sostituisce ogni altro comandamento. Amatevi come io vi ho amati.
Cioè: accogli il mio amore per essere capace di amare te stesso e gli altri.
Amare gli altri come lui ci ha amati. Come una vasca che si riempie d’acqua e
deborda, irrigando tutto ciò che gli sta attorno. Portando vita. Il Paracleto,
lo Spirito di verità.
A volte, però, non siamo capaci di accogliere
l’amore di Dio. Ne siamo ostacolati perché ci rimproveriamo qualcosa, perché il
mondo, che in Giovanni indica la parte oscura che ci abita, ci accusa, ci fa
sentire in colpa, ci condanna, ci giudica. E il mondo non è in grado di
conoscere l’amore. Né Cristo. Né Dio. Siamo pieni di sensi di colpa, sempre
sottoposti a giudizio. E spesso, purtroppo, diciamo che è Dio a volerlo! Gesù,
allora ci invia lo Spirito paracleto. Nel diritto giudaico non esisteva la
figura dell’avvocato difensore. L’accusato poteva, a proprio discolpa, chiamare
dei testimoni. Ma se, alla fine, questo non era sufficiente, una persona che
godeva di stima pubblica poteva mettersi a fianco dell’accusato senza dire
nulla. E la sua integrità suppliva a quella dell’accusato. Veniva chiamato in
soccorso, da cui il termine paracleto. Lo Spirito ci fa uscire dalla terribile
logica del giudizio verso noi stessi e verso gli altri. Ma perché ciò accada lo
Spirito ci deve condurre verso la verità. La verità di noi stessi, consapevoli
dei nostri limiti ma, soprattutto, consapevoli del grande dono per gli altri
che possiamo diventare. Che già siamo. La verità che è Cristo, inquietudine del
mondo.
Grande gioia.
Se è
davvero così, allora, la difficoltà, il limite diventano straordinaria
opportunità, occasione di annuncio, ragione di conversione. Ne sa qualcosa
Filippo che, a causa della persecuzione che si è scatenata contro la primitiva
comunità, è fuggito e si ritrova in Samaria, la terra abbandonata, la terra
eretica, la sposa infedele che Gesù stesso ha cercato di sedurre e di
riconquistare (Gv 4). La fuga diventa luogo per l’annuncio e conversione di
nuovi discepoli. Ogni difficoltà diventa opportunità per andare all’essenziale,
per purificare le nostre strutture e le nostre stanche abitudini. Affinché,
oggi come allora, ci sia una grande gioia in quella città. Quella che abitiamo.
Rendendo ragione.
Dimorare nell’amore, non scoraggiarsi e
approfondire la fede, come suggerisce Pietro. Sempre pronti a rendere conto
della speranza che è in noi. Perché amati, perché amanti. Perché (non sempre)
amabili. Superando i sensi colpa e il giudizio, attenti alla verità che per noi
è una persona, il Cristo, possiamo con libertà dire Dio, dire di Dio.
Se mi amate.
Sì, ti amiamo, Signore. È iniziata la fase
due. Anche per la nostra fede. Quella in cui, infine, impariamo ad amare.
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