Comitati di esperti e disegnatori
si sbizzarriscono nell’immaginare le classi distanziando i banchi come gli
ombrelloni sulla spiaggia o i tavoli del ristorante, calcolando il metro tra
banco e banco. Naturalmente si suppone che i bambini stiano incollati al banco.
“Paulo Freire ha costruito le campagne di alfabetizzazione in circoli di
cultura. Freinet eliminò la disposizione frontale… Gli alunni di Milani –
ricorda Paolo Vittoria – imparavano intorno a grandi tavoli condividendo la
conoscenza come si divide il pane… Perché allora non sgomberare le classi di
cattedra e banchi e disporsi in circolo?… E se questi circoli fossero base di
attività all’aperto? Magari nei parchi? Avremmo diritto di respirare a contatto
con la natura, nell’ampiezza di un ambiente senza confini, viverne l’incanto…”
di Paolo Vittoria
Sul tanto atteso ritorno in
aula a settembre si è letto, ascoltato, visto un po’ di tutto. La questione del
distanziamento ci ha messo nelle condizioni di ridisegnare l’ambiente
scolastico, la stessa idea di scuola. Sulla «didattica a distanza» si sono
spese tante parole. Qualcuno l’ha vissuta in modo drammatico e fallimentare;
qualcun altro ne ha letto vantaggi e prospettive; qualcun altro ancora, e siamo
in tanti, entrambe le cose.
La drammaticità di non
vedersi fisicamente, di non incontrarsi, abbracciarsi, tendere una mano, il
fallimento di incollare i nostri studenti per ore a uno schermo quando ne
avevamo aspramente criticato i rischi fino a un minuto prima. D’altra parte, è
emersa la prospettiva di utilizzare i più svariati mezzi di comunicazione,
entrando a pieno titolo nei social, insegnando a utilizzarne i linguaggi in
modo più consapevole, dialogico, se vogliamo anche erudito nel senso di alto
interesse per la cultura. Siamo discretamente entrati nelle case degli studenti
e loro nella nostra, con tutta la comicità del caso come quando si parla di
libertà e disciplina sullo stile della Montessori e dietro di noi i bambini,
chiusi in casa da mesi, corrono all’impazzata strattonandosi la canotta,
tirandosi i capelli, rotolandosi sul pavimento.
La DaD, oltre a smascherare
la nostra umana imperfezione, ha fatto un’operazione più profonda e filosofica,
se vogliamo, ricordandoci la relatività delle distanze. Quante volte ci siamo
trovati a un passo, anche meno di un metro, da un tal insegnante e lo abbiamo
sentito distante infiniti anni luce. «Buongiorno» – diciamo noi timidamente –
«buon-gior-no» – ci risponde già stizzito della nostra presenza e degli ormoni
adolescenziali: scandisce la parola come se nel nostro saluto ci fosse qualcosa
di sbagliato e non avessimo imparato bene la divisione in sillabe… qualche
minuto dopo scorre il registro col suo minaccioso dito e noi a nasconderci
dietro al banco.
Questa scuola, si dirà, è
superata, ma lo è per tutti? L’impatto psicologico che ne è scaturito è
superato? È superata la distanza tra studenti e insegnanti? Come percorrerle
queste distanze?
Ed ecco il «compromesso
storico» nella più ragionevole delle conclusioni: la DaD non è alternativa alla
didattica in presenza, ma integrativa. Condizione necessaria per crescere
insieme è incontrarsi nello stesso ambiente, affrontare i problemi, condividere
gli spazi, ma dobbiamo anche andar oltre quel luogo fisico. Non basta abitare
lo stesso ambiente per essere classe. Bisogna entrare in relazione e le
possibilità comunicative, dialogiche, interpretative dei mezzi di comunicazione
ci vengono a sostegno per educare all’ascolto, all’interazione: dalla radio ai
social.
Eppure resta il problema del
distanziamento sociale. Del resto, la didattica deve dare risposte a questioni
politiche, sociali, anche sanitarie. Ecco che disegnatori si sono sbizzarriti
nell’immaginare la classe distanziando i banchi come gli ombrelloni sulla
spiaggia o i tavoli del ristorante, calcolando precisamente il metro tra banco
e banco, con tutte le geometrie del caso. Manca solo il plexiglass a tenerci in
sicurezza. Naturalmente in questi disegni si suppone che i bambini stiano
incollati al banco, perché se solo si muovono insieme dobbiamo stracciare il
disegno. In Cina hanno fatto sul serio: a scuola ci sono andati a distanza e
con un metro in testa, come nelle più estrose parate di carnevale. A dire la
verità, non vorrei essere nei panni di uno di loro, non so voi.
Il pensiero educativo si
costituisce anche a partire dalla logica degli spazi. Paulo Freire ha costruito
le campagne di alfabetizzazione in circoli di cultura. Freinet eliminò la
disposizione frontale e faceva confrontare i ragazzi gli uni davanti agli
altri. Gli alunni di Milani imparavano intorno a grandi tavoli condividendo la
conoscenza come si divide il pane, in piena convivialità. Perché allora non
sgomberare le classi di cattedra e banchi e disporsi in circolo? Si
conquisterebbe spazio per la mente, per il dialogo, nella circolarità di
pensieri e delle parole, del sentire comune. E se questi circoli, quando
possibile, fossero base di attività all’aperto? Magari nei parchi? Avremmo
diritto di respirare a contatto con la natura, nell’ampiezza di un ambiente
senza confini, viverne l’incanto. La distanza diverrebbe straordinaria
occasione da cogliere per riappropriarsi di spazi perduti, anzitutto quelli
interiori, costruendo nuove trame in questa narrazione collettiva, chiamata
scuola.
Da Il Manifesto
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