È la faccia oscura della democratizzazione introdotta dalla rete. L’autorizzazione data a tutti di parlare di tutto non solo produce effetti di pericolosa mistificazione ma attiva dinamiche aggressivo-invidiose.
-
di Massimo Recalcati
Spettatore-consumatore
Di qui l’accusa pasoliniana relativa all’esistenza di un
nuovo fascismo che imponeva i suoi comandi senza bisogno di usufruire di un
potere autoritario e repressivo, ma per la via edonistica di una seduzione
permissivista. Lo spettatore rappresentava la forma più pura del consumatore
costretto a ingoiare passivamente valanghe di messaggi e di offerte che avevano
come denominatore comune lo spegnimento della sua capacità di iniziativa
critica.
La televisione diveniva così lo strumento di propaganda di un
neo-totalitarismo che aveva trasferito il potere dal sovrano agli oggetti di
consumo.
Un potere che plasmava corpi e cervelli dei suoi fruitori
uniformandoli conformisticamente ai modelli valoriali imposti dal nuovo
regime.
Gli psicoanalisti hanno visto nell’età dove la televisione
imperava nelle nostre case una sorta di conferma della tesi relativa al declino
dell’autorità paterna e allo smarrimento più generale del discorso educativo.
La televisione aveva preso il posto di genitori sempre più distratti o assenti,
incapaci di svolgere il proprio ruolo.
Spettatori passivi
L’affermazione progressiva della rete e dei social sta
profondamente ridimensionando questo quadro. E non solo perché i giovani oggi
non guardano più la tv. Quello che i social hanno modificato è innanzitutto il
carattere necessariamente passivo dello spettatore. Il nuovo schermo social è
infatti strutturalmente movimentato. Tutto si consuma in maniera accelerata.
Non c’è tanto l’ipnosi televisiva — che richiede tempo — ma lo sprofondamento
in una realtà parallela. Non a caso l’uso dello smartphone e delle sue
potenzialità social non è più, come accadeva per la tv, circoscritto in un
luogo, ma appare come una sorta di protesi del corpo del soggetto. Mentre
infatti la televisione condannata da Pasolini fabbricava i corpi e i cervelli
offrendo loro i modelli di identificazione imposti dalla società dei consumi,
lo smartphone appare piuttosto come una parte post-umana del corpo.
Anche la partecipazione alla vita dei social riflette questa
compenetrazione. Non si tratta di guardare un programma imposto da un
palinsesto, ma di formare il proprio palinsesto personale non solo nella scelta
di ciò che voglio vedere, ma nella possibilità inedita di proporsi come
assoluti protagonisti sulla scena. La distinzione rigida imposta dalla tv tra
il messaggio offerto dallo schermo e il suo fruitore viene così sovvertita. Lo
schermo non è più un confine rigido che separa, ma è stato radicalmente traumatizzato:
gli attori e i protagonisti della scena sono divenuti milioni.
Lo schermo ha perso la sua centralità verticale per
disseminarsi orizzontalmente.
E lo stesso accade per la scrittura. Era ciò che sollevava la
rassegnazione malinconica di Umberto Eco quando constatava con amarezza la
quantità di imbecilli che la rete avrebbe autorizzato a scrivere. Anche in
questo caso il confine tra il lettore e lo scrittore è stato frantumato: sui
social chiunque può scrivere di qualunque cosa. In questo senso, diversamente
da ciò che accadeva con lo spettatore ipnotizzato dalla tv, i social si fondano
sulla valorizzazione estrema dell’interazione.
Esibirsi per celebrarsi
Essa non assume solo la forma della manifestazione del like o
dell’avversione, ma soprattutto quella dell’esibizione del proprio corpo e del
proprio pensiero senza censure. Ma la psicoanalisi avverte che quando i confini
simbolici vengono meno c’è sempre il rischio della caduta catastrofica
nell’indifferenziazione.
È la faccia oscura della democratizzazione introdotta dai
social. È questo il cuore di ogni populismo, compreso quello mediatico.
L’autorizzazione data a tutti di parlare di tutto — l’uno uguale a uno — non
solo produce effetti di pericolosa mistificazione — pensiamo ai danni di coloro
che sui social si esprimono senza titoli su malattie o su cure mediche — ma
attiva potentemente dinamiche aggressivo-invidiose. Mentre la televisione
spegneva il senso critico esercitando una funzione di controllo biopolitico,
l’uso collettivo dei social sembra esasperarlo abnormemente a tal punto da
legittimare il suo palese e sconcertante sconfinamento nell’odio invidioso
quando non addirittura nell’incitazione aperta alla violenza.
Surriscaldamento pulsionale
È il surriscaldamento pulsionale che lo schermo dei social
genera in continuazione e di cui sono eloquenti manifestazioni la
contraffazione sistematica della verità, la brutalità degli insulti, le
campagne individuali o collettive di diffamazione che possono portare i
soggetti più giovani o fragili anche a comportamenti autolesivi gravi. Non a
caso per la psicoanalisi il luogo per eccellenza dell’indifferenziazione è
quello dell’incesto dove il confine simbolico della differenza generazionale
scompare e dove, soprattutto, la passione smarrisce il suo limite divenendo non
più passione per la vita ma passione per la morte. Non a caso figli e genitori
tendono a comportarsi allo stesso modo nell’uso violento dei social. Adulti che
si comportano stupidamente come adolescenti e adolescenti che manifestano la
stessa stupida violenza che anima il mondo degli adulti.
Nessun commento:
Posta un commento