Edipo
sparisce, del suo corpo piegato non resta nulla, perché per i Greci la
sofferenza e la morte non possono essere divine, mentre il corpo di Cristo
resta a garanzia che niente dell'esperienza umana, anche le ferite mortali con
cui si farà poi riconoscere da risorto, è escluso dal divino, perché ogni vita
è unica e irripetibile in ogni aspetto.
- Alessandro D’Avenia
La scorsa settimana ho incontrato un migliaio di ragazzi di
diverse scuole superiori che andranno a Siracusa per le tragedie greche in
programma: Edipo a Colono ed Elettra. Dovevo raccontare
loro perché ciò che Sofocle ha scritto 24 secoli fa per il teatro di Atene
dovrebbe servir loro a vivere meglio. Le storie sono state e continuano a
essere strumento indispensabile per l'evoluzione umana tanto quanto la
posizione eretta e il pollice opponibile: per non essere paralizzato dalla
paura dell'ignoto e della morte il sapiens dà senso alla realtà narrando. Per
seppellire un morto, evidenza archeologica di una novità assoluta, ci vuole una
storia secondo cui la vita continua. Il teatro greco, e in particolare la
tragedia, è stato in questo senso un'invenzione-evoluzione decisiva: in uno
spazio (la scena) e in un tempo (la rappresentazione) limitati, come è la vita,
qualcuno risponde al “che (ci) faccio qui”? La parola “dramma” l'hanno infatti
inventata i Greci, da uno dei loro precisissimi verbi per dire “fare”, che
indicava l'agire che “definisce”. Le scelte decisive sono in questo senso
sempre “drammatiche”, non perché negative ma perché de-terminano chi siamo. Non
si chiama dramma perché finisce male, ma perché (de-)finisce: messo alle
strette della scena temporanea (della vita) che fai? Cioè: chi sei? Scegliere è
reso difficile dalla paura di soffrire, di rinunciare o di fallire, in questo
senso il dramma antico è un tratto dell'educazione di dirompente e attuale
necessità. Perché?
“Proprio adesso che non sono più niente, sarei un uomo?”
chiede Edipo, cieco e in cerca di una città che lo accolga, nella tragedia
intitolata Edipo a Colono, messa in scena dopo la morte dell'autore sul finire
del V sec. a.C. Edipo aveva risolto il famoso enigma (“Chi, pur avendo una sola
voce, è quadrupede, bipede e tripede?”) della Sfinge (leone con volto di donna
e ali di rapace) che divorava chi, volendo entrare nella città di Tebe, non
sapeva rispondere. Chi mantiene la continuità del sé (la voce) pur nello
scorrere del tempo? L'uomo, aveva risposto Edipo, liberando così la città che
lo aveva poi proclamato re. Ma ne era stato poi espulso perché per diventare
re, senza saperlo, vittima del destino, aveva ucciso il padre e si era unito
alla madre. In questa tragedia, esiliato e ramingo, si chiede se è lui ancora
un “uomo”.
Chi sei quando non ti resta nulla? Che cosa ti “fa” uomo
quando c'è solo il male? E così Sofocle lo immagina entrare da solo nel bosco
sacro di Colono, vicino Atene, dove miracolosamente sparisce. Teseo, re della
città, che lo aveva accolto nel suo doloroso vagabondaggio, è l'unico ad
assistere alla scena “con una mano davanti al volto, coprendosi gli occhi, come
se fosse apparso qualche terribile prodigio, di cui non poteva reggere la
vista”. Durante l'incontro con i ragazzi, voluto da Fondazione Angelini che ha
deciso di coprire le spese del biglietto degli spettacoli e, con la Fondazione
Inda, di preparare gli studenti, Vittoria ha fatto non “una” ma “la” domanda:
“perché Sofocle decide di non narrare ciò che avviene a Edipo? Che cosa ha
visto Teseo?”. Voleva sapere il mistero dei misteri, che neanche Sofocle, al
culmine dei suoi giorni e della sua arte, aveva osato mettere in scena: com'è
la fine? Che cosa c'è dopo? Se questa è la fine (della vita), qual è allora il
fine (della vita)? Dopo che Edipo ha urlato la sua sofferenza, «molto meglio
non essere nati. Ma, una volta nati, fare ritorno da dove si è venuti è destino
ancora migliore», accade lo straordinario: «Non si udiva più nessun grido, ed
era sceso il silenzio, all’improvviso lo chiamò una voce... a più riprese, in
molti modi: “Ehi tu, Edipo! Che cosa aspettiamo ad andare? È troppo tempo ormai
che indugi”. Egli capì che era la chiamata del dio».
E così Edipo entra nel bosco sacro, da solo, rispondendo alla
chiamata de-finitiva, nella fine il fine: il dramma umano al culmine, quando il
fare è solo un lasciarsi dis-fare, la morte. La narrazione continua nella
balbettante testimonianza dei presenti: «Poco dopo, quando ci fummo
allontanati, ci voltammo, ci accorgemmo che non c’era più... Quale sia stata la
sua fine nessuno dei mortali può dirlo, fuorché Teseo: non fu folgore scagliata
da un dio, a ucciderlo, né uragano scatenatosi in quel momento, ma una guida
divina... Senza pianto, senza malattia, senza dolore, se ne è andato, come
nessun altro dei mortali, nel miracolo». Sofocle narra che il dolore innocente
richiede una risposta divina, e immagina che tale risposta sia una chiamata
divina.
Per questo Vittoria, con l'intransigente fame di destino dei
suoi 17 anni vuole sapere che cosa ha visto Teseo. Dalla risposta dipende il
senso della morte e quindi della vita. Teseo ha visto il divino chinarsi
sull'umano: questo è il prodigio. Teseo afferma che la presenza del sepolcro di
Edipo nel bosco proteggerà la città da ogni male, per questo qualcuno lo ha
paragonato a Cristo. C'è però una differenza abissale. Edipo subisce il
destino, Cristo lo sceglie. Edipo, anche se inconsapevolmente, ha commesso il
male che gli viene imputato e fino all'ultimo non perdona nessuno, né dei né
uomini né se stesso, preferirebbe infatti non esser mai nato: la sua è
un'immensa solitudine.
Invece Cristo non rinnega mai la vita né la sua né quella
altrui, pur essendo, lui sì, del tutto innocente, ama sia chi lo uccide (“non
sanno quello che fanno”) sia il Padre (infatti dopo avergli chiesto “Perché mi
hai abbandonato?” aggiunge “nelle tue mani affido la mia vita”) sia chi gli ha
dato la vita (la madre sotto la croce): amare fino alla fine, ecco il fine.
Edipo è sfinito e de-finito dal dolore, Cristo dall'amore. Per questo Edipo sparisce, del suo corpo piegato non resta nulla,
perché per i Greci la sofferenza e la morte non possono essere divine, mentre
il corpo di Cristo resta a garanzia che niente dell'esperienza umana, anche le
ferite mortali con cui si farà poi riconoscere da risorto, è escluso dal
divino, perché ogni vita è unica e irripetibile in ogni aspetto.
Persino il soldato romano che ha assistito all'esecuzione in
croce, ignaro di chi sia quell'uomo, commenta: “Costui era veramente il figlio
di Dio” (Mt 27). Che cosa ha visto se non un modo “divino” di morire? Lo
stupore del re ateniese per Edipo e quello del soldato romano per Cristo
nascono dall'aver assistito al dramma della vita in purezza: il conflitto tra
vita e morte de-finisce l'uomo. Per quanto profondamente diversi, nell'uno e
nell'altro caso però - culmine dell'arte di narrare il mistero - la morte non è
l'ultima parola, ma la penultima. L'ultima è una voce, una chiamata, un
incontro. La Pasqua è questa parola: passaggio.
Auguro a tutti e ciascuno di ricordarlo, scoprirlo o
riscoprirlo in questi giorni. Ci ritroviamo tra due settimane.
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