venerdì 4 aprile 2025

IL WOKISMO

   
UN 

BRUSCO RISVEGLIO






- di Nelson Faria


Nato nelle università statunitensi, il wokismo è un movimento che negli ultimi anni ha acquistato grande risalto nello spazio pubblico. Ne sono segni l’onnipresenza di termini come «eteronormativo», «cisgender», «non binario», o l’atto di graffitare il termine «decolonizza» sulle statue di navigatori e politici. Il termine «wokismo» definisce coloro che si considerano «svegli» (dall’inglese 
woke), vale a dire militanti in allerta contro le ingiustizie che pervadono la società e contro la refrattarietà di questa alle riforme. Il wokismo ritiene che la discriminazione contro le persone emarginate sia sistemica, cioè non limitata a manifestazioni isolate, e che quindi dobbiamo essere consapevoli delle strutture che opprimono gli individui in base al genere, al colore, all’orientamento sessuale, alla nazionalità o all’etnia.

A prima vista, il wokismo sembra un movimento di movimenti, che abbraccia e dà voce al femminismo e a tutte le minoranze nella società. Tuttavia, è molto più complesso e può essere considerato una vera e propria ideologia politica, che si richiama a diverse altre scuole di pensiero ed è caratterizzata da una grande propensione all’azione. Avvolto nelle polemiche, per non dire che esso stesso è di per sé polemico, genera reazioni particolarmente avverse da parte di altri settori della società, che qui, in mancanza di un nome migliore, possono essere definite «antiwokismo». Entrambi gli elementi meritano uno sguardo attento e riflessivo, perché il loro incontro sfocia in un conflitto che genera una forte tensione sociale.

Questo articolo intende ripercorrere in breve il cammino della società verso la postmodernità, il momento che ha dato origine al wokismo, per poi presentare i fili con cui è intessuta la trama woke, le ripercussioni che genera e, infine, prospettare alcune indicazioni per un possibile futuro.

Il percorso fino a ieri

Per migliaia di anni abbiamo vissuto in comunità sedentarie e agricole, in cui i ruoli sociali erano fissi e definiti: c’era una rigida gerarchia, basata sul genere e sull’età, e tutti avevano sostanzialmente la stessa occupazione (lavorare la terra o prendersi cura della casa). I nostri antenati passavano per lo più tutta la vita nella città, nel paese o nel villaggio in cui erano nati, all’interno di una cerchia ristretta di amici e vicini, con cui condividevano la stessa religione e gli stessi miti e credenze. La mobilità sociale era praticamente impossibile. Non c’era alcun pluralismo, né diversità, né scelta.

L’emergere di civiltà che abbracciavano popoli e territori diversi ha portato a esperienze epifenomeniche di positiva convivenza, soprattutto nei luoghi di commercio. Tuttavia, è nel clima di relativa pace del Basso Medioevo che possiamo individuare il momento iniziale in cui le rigide strutture sociali vanno incontro a una scossa. Le società infatti cominciano a crescere, e si assiste all’emergere di nuove classi sociali, sorte nell’ambito del libero commercio e delle università, il cui incontrarsi ispira la creazione di nuove tecnologie di navigazione. I confini fra gli strati sociali cominciano a sfumare con la crescente influenza della borghesia e del mondo accademico, e dal XVI secolo in avanti i viaggi intercontinentali diventano normali e la stampa agevola la diffusione delle informazioni.

La Riforma protestante e le guerre di religione che ne seguirono, soprattutto nel XVII secolo, misero in crisi il ruolo unificante della fede cristiana, inducendo l’Occidente a trovare nella ragione e nella libertà individuale la risposta per garantire una sana convivenza tra le nazioni e le fazioni religiose. La Pace di Vestfalia (1648) aprì la strada all’Illuminismo, il Secolo dei Lumi (XVIII secolo), alla nascita di una mentalità eminentemente tecnica e di una preoccupazione per la condizione umana che segna l’origine dei diritti umani, i quali, pur essendo di ispirazione cristiana, fanno a meno del riferimento a Dio.

Con la Rivoluzione industriale si verificò una brusca accelerazione, sia nel campo della tecnologia sia nel miglioramento della qualità della vita. Tuttavia, con le due guerre mondiali combattute nella prima metà del XX secolo, al disincanto dell’Occidente nei confronti della religione si è aggiunto quello nei confronti della ragione, che si era dimostrata capace di terribili atrocità.

Le rigidità e le certezze della modernità, che si sono rivelate altrettanto se non più distruttive delle convinzioni religiose del passato, hanno indotto a preferire sistemi aperti e flessibili[1]. Lentamente, la società comincia a frammentarsi, le istituzioni cominciano a essere viste con sospetto e l’identità inizia a forgiarsi secondo una forte distinzione tra il vero «io» di ogni persona e un mondo esterno di regole e norme sociali. È la transizione dalla modernità, con la sua enfasi sulla ragione e sull’autonomia individuale, alla postmodernità.

È difficile classificare efficacemente la postmodernità, poiché essa è, per definizione, plastica e soggettiva: nega la possibilità di una conoscenza oggettiva e sostiene che il linguaggio è solo uno strumento senza alcun legame con la realtà, manipolato da chi detiene il potere. I potenti infatti creano metanarrazioni che, a seconda delle loro convenienze, cullano la società nella dolce pace di un sogno o inducono una frenesia di incubi permanenti; pertanto, esse devono essere decostruite. In una prospettiva postmoderna, tutto ciò che sperimentiamo, tutte le interazioni sociali, non sono altro che ricerca del potere. Solo questo è reale. La conoscenza, la verità, il significato e la moralità sono costrutti sociali, originati da singole culture, nessuna delle quali possiede gli strumenti o i concetti necessari per valutare le altre.

Ne segue che tutte le leggi sono state inventate affinché possano – e debbano – essere infrante. Non abbiamo ereditato la moralità dai nostri antenati, e tantomeno ce l’ha comunicata una divinità. Essa è stata costruita, e quindi può essere modellata. E anche l’identità di ogni individuo si forgia in un gioco di forze culturali, sicché a ciascuno spetta plasmarne il significato.

Il  postmodernismo

Per il postmodernismo, nulla si crea, tutto si ricicla. Esistono solo riproduzioni, e niente è originale o autentico: solo copie di copie di copie. C’è solo superficie, non c’è profondità. Non c’è un significato condiviso, ma solo un gioco che ruota attorno alla conquista del potere. Quindi, quello che dobbiamo fare è partecipare al gioco, generando ironicamente entropia e divertendoci. Se il sistema crolla, ne seguirà un altro, e ricominceremo il gioco.

I moventi del soggetto postmoderno sono la libertà, il piacere e l’inclinazione naturale. Egli lavora con l’aspettativa di godersi i profitti del suo lavoro, ma non si attende di trarre soddisfazione da ciò che fa. Vive per il momento, senza aderire al piacere comune di lavorare per il benessere degli altri. Anche quando si trova inserito in un’esperienza lavorativa gerarchica, è un imprenditore autonomo, responsabile di gestire la propria immagine pubblica in conformità con le aspettative di autorealizzazione della società, sicché diventa contemporaneamente padrone di sé e schiavo delle proprie aspettative.

Questo orizzonte infinito di possibilità entro un ristretto campo di riferimenti ha portato, come giustamente sottolinea Byung-Chul Han, all’esaurimento dell’individuo[2]. Di fronte al fallimento, la frustrazione viene vissuta individualmente come angoscia, e a sua volta contribuisce a originare una società stanca, dove prosperano la depressione e la sindrome del burnout. Paradossalmente, in una società in cui siamo finalmente liberi di essere chi vogliamo essere, o chi eravamo destinati a essere, finiamo per scoprire che la rottura dei legami sociali non si traduce in libertà, ma piuttosto in esaurimento.

La collettivizzazione dell’identità

La solitudine a cui è stato costretto l’individuo postmoderno lo ha portato a riconoscere il bisogno di identificarsi con gli altri, di scoprire «chi è» nel contesto dell’appartenenza sociale, e di impegnarsi nei cambiamenti che ritiene necessari. Questo lavoro di riparazione dei legami di appartenenza e di ri-creazione di un orizzonte morale è un’autocorrezione della postmodernità stessa, che così cerca di rimediare agli eccessi individualistici iniziali.

Questa ricerca di identità condivise ha trovato risposte, a destra e a sinistra, attorno alle categorie che la postmodernità ha lasciato intatte o ha rafforzato – razza, genere, orientamento sessuale –, o attorno alle categorie ultraresistenti di nazione, cultura e religione. In Europa, la centralità, nella sinistra politica, delle questioni legate agli emarginati a scapito di quelle di classe e il risorgere di pubbliche professioni di fede sovraniste e di discorsi isolazionisti, a destra, sono segni di polarizzazione identitaria.

Queste reazioni non sono nate nel vuoto, ma hanno avuto origine nella postmodernità. Si sono concretizzate in due movimenti che oggi lottano per il predominio dell’attenzione sociale: il wokismo e i suoi detrattori, che chiamano «antiwokismo».

Come sottolinea Philippe Forest[3], il termine «wokismo» designa quelle persone che si considerano «risvegliate», cioè capaci di riconoscere le relazioni di dominio e di discriminazione che permeano l’intera società, rispetto alle quali invece la maggioranza degli individui rimane addormentata. Particolarmente militanti, i wokisti intendono eliminare tutte le forme e gli strumenti di oppressione in cui siamo intrappolati – anche se non ne siamo pienamente consapevoli –, principalmente intorno a categorie come razza, genere e orientamento sessuale.

Come abbiamo accennato, il wokismo è nato nelle università degli Stati Uniti. È largamente debitore verso quella che è stata chiamata French Theory, che riunisce una serie di teorie filosofiche, letterarie e sociali postmoderne, in cui il concetto di decostruzione (Heidegger, Derrida) è centrale e la cui linea poststrutturalista è innegabile. Senza alcuna pretesa di esaustività, possiamo dire che Baudrillard, Simone de Beauvoir, Deleuze, Foucault, Derrida, Lyotard, Kristeva e Wittig ne sono tra le figure principali. Oltre a costoro, quando si pensa al wokismo, un riferimento da tenere in considerazione è anche il postcolonialismo di Frantz Fanon.

 Un bricolage

Tuttavia, il wokismo riunisce altre influenze. Matthew Petrusek,  Evangelization and Ideology[4], lo definisce il «Frankenstein» delle ideologie politiche, perché in esso ritroviamo idee antagoniste e persino avversari classici, come il liberalismo e l’utilitarismo. Sia gli autori di riferimento sia questi incontri imprevisti mostrano quanto sia evidente l’impronta della postmodernità sul wokismo. Cerchiamo allora di vedere il bricolage di idee che costituisce la matrice woke.

Tenendo conto della visione identitaria collettiva del wokismo, la presenza più sorprendente nel suo corpus di influenze è la visione liberale, marcatamente individualistica. Tuttavia, il wokismo non esita ad appropriarsi del rifiuto kantiano della metafisica classica. Kant sostiene che non è possibile conoscere gli oggetti trascendenti – per esempio, il bene – attraverso il puro esercizio della ragione, e perciò propone che il bene possa essere raggiunto attraverso un atto di volontà. Il liberalismo approfitta di questo rifiuto per sostenere l’emancipazione dell’individuo, fissando il suo limite nel rispetto degli altri. A partire da un identico rifiuto della metafisica classica, il wokismo introduce la collettività al posto dell’individuo e sostituisce il rispetto per gli altri con l’affermazione che il dissentire dalla nozione di bene definita dal gruppo è oppressione.

L’utilitarsmo

Per quanto riguarda l’utilitarismo, il wokismo ne ripropone due caratteristiche: la nozione consequenzialista del bene e la dimostrazione pubblica della virtù. Riguardo alla prima, la visione utilitaristica sostiene che, per valutare la bontà di un atto, si debbano considerarne le conseguenze intenzionali e non intenzionali. Tuttavia, la massima utilitaristica «il maggior bene per il maggior numero di persone», interpretata alla luce del wokismo, autorizza la collettività a denunciare uno dei suoi membri quando non si conforma ai suoi interessi. E questa persona, anche se è nera, omosessuale o donna, e quindi ha una biografia segnata dall’oppressione e dal superamento degli ostacoli, nel momento in cui si discosta dalla narrazione ufficiale è considerata una traditrice.

Per quanto riguarda la dimostrazione pubblica della virtù (virtue signaling), essa deriva dal valore attribuito dall’utilitarismo a chiari segnali di adesione alle «buone idee». Il gesto permette di riconoscere coloro che professano gli stessi ideali e di classificarli come «brave persone». Inevitabilmente, chi non è d’accordo è molto più che una persona con un’opinione diversa: è una «persona cattiva».

Il capitalismo woke

La dimostrazione pubblica della virtù ha generato un fenomeno curioso: il capitalismo woke. Molte multinazionali si sono impegnate ad associare i propri marchi al wokismo, sia per convinzione sia per puro interesse commerciale (Amazon, Apple, Google, Meta, Microsoft). Ciò ha fatto piacere ai wokisti e ha suscitato grandi proteste da parte degli antiwokisti, le cui reazioni hanno portato a campagne di cancellazione, come è accaduto per le società Disney, Ben & Jerry’s, Bud Light o Starbucks.

Questa breve descrizione dell’appropriazione del liberalismo e dell’utilitarismo ci permette di vedere chiaramente come il wokismo sia un prodotto postmoderno: esso nega la possibilità di una conoscenza oggettiva, afferma il costruttivismo culturale, proclama che le interazioni sociali si riducono alla ricerca e alla gestione del potere e, a questo proposito, riconosce il potere del linguaggio.

L’ossessione per il linguaggio

Proprio l’ossessione postmoderna per il linguaggio viene sfruttata al meglio dal wokismo nella semantica, non solo tramite la creazione di parole, ma anche ridefinendo concetti antichi. Per esempio, nel vocabolario woke il «razzismo» non è un pregiudizio basato sulla razza di qualcuno, ma un sistema razziale che permea tutte le interazioni sociali, rimanendo invisibile, eccetto a coloro che lo sperimentano o a coloro che hanno familiarità con i suoi metodi e pertanto sono in grado di riconoscerlo. Non tener conto della razza di qualcuno è considerato razzista. Tuttavia, stabilire che in un museo ci siano orari riservati in cui i bianchi non possono entrare, affinché diventi uno «spazio sicuro», come è accaduto allo Zeche Zollern Museum di Dortmund, è considerato antirazzista. Chi si identifica con il sesso assegnatogli alla nascita è «cisgender»; ma un commento che può anche essere elogiativo, se viene rivolto a un membro di un gruppo emarginato e da costui viene interpretato come offensivo, è una microaggressione. A ciò si aggiunge la questione dei pronomi preferiti – la libertà di ciascuno di scegliere il pronome con cui vuol essere chiamato –, il cui rispetto è obbligatorio. La resistenza a riferirsi a qualcuno con il pronome da lui scelto, anche quando esso contrasta con il significato convenzionale di quello stesso pronome, è considerata oppressiva, un’azione illegittima.

 L’autorità del soggettivo

L’impronta della postmodernità può essere vista anche nell’emergere di una serie di campi di studio incentrati sul genere e sulla razza, che mettono in pratica il postulato della negazione della conoscenza oggettiva e del linguaggio come qualcosa di manipolabile. Se tutto è visto attraverso la lente dell’identità, sono necessari studi critici che tengano debitamente conto del contesto della persona. Il soggettivo è rivestito così di autorità, e il contesto diventa l’elemento determinante di ogni nostra azione, negando l’universalità della conoscenza.

Il postcolonialismo

Sempre all’interno della postmodernità, esiste una scuola di pensiero che merita particolare attenzione: il postcolonialismo. L’obiettivo di questa corrente è indagare il modo in cui le nazioni occidentali non solo hanno colonizzato altre regioni del mondo, ma hanno anche creato il soggetto colonizzato. Poiché a queste ultime culture sono stati imposti parametri occidentali, anche dopo la decolonizzazione politica esse permangono sotto il giogo dell’Impero in un sentimento di inferiorità, che non tiene conto delle loro caratteristiche e ricchezze.

Fanon è l’autore di riferimento in questo campo di studi, e il wokismo ne riprende due tratti essenziali, trasformandoli. Nell’inevitabile divisione tra colonizzatore e colonizzato il wokismo trova ispirazione per le ampie categorie che utilizza: oppressore e oppresso. In secondo luogo, esso si assume il ruolo liberatorio attribuito da Fanon a coloro che, effettivamente, vedono la realtà secondo una visione messianica e in una prospettiva che si concretizza nella missione di educare le masse.

Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

È importante distinguere la decolonizzazione «fanoniana» dalla resistenza non violenta di Gandhi o di Martin Luther King. La prima non disdegna la violenza o la distruzione della proprietà pubblica, e così legittima l’attivismo woke quando vandalizza statue di personaggi considerati rappresentativi dell’oppressione, per esempio Churchill nel Regno Unito o Jefferson negli Stati Uniti d’America. Soltanto un anacronismo ci consente di considerare questi personaggi come emblemi di disumanità.

Il cristianesimo

Ma nel wokismo è presente un altro influsso, mai ipotizzato finché non l’ha chiamato in causa lo storico Tom Holland: il cristianesimo. Nella sua opera Dominion, egli sostiene che in Occidente il cristianesimo ha ispirato tutti: credenti, spirituali, agnostici, atei, anche coloro che non hanno pensato alla religione[5]. Cristo ha dimostrato sulla croce qualcosa che ha irritato profondamente Nietzsche: essere vittima è fonte di potere, e una persona sconfitta agli occhi del mondo ha la capacità di mobilitare le folle.

Che i disprezzati debbano essere ascoltati, che gli umiliati debbano essere esaltati, che gli ultimi siano i primi e che il destino dei potenti sia quello di essere deposti dai loro troni, sono tratti distintivi cristiani. Inevitabilmente, come in tutte le altre appropriazioni del wokismo, anche la proposta cristiana è stata rivista e reinterpretata, perdendo il suo carattere universale. Ma, come afferma eloquentemente Holland, senza il cristianesimo nessuno si sarebbe «risvegliato» (woke).

 Sentimento e argometazione

Cercando di sintetizzare i segni più evidenti di altre correnti di pensiero nel wokismo, possiamo affermare che, attraverso il rifiuto liberale della metafisica classica, il gruppo identitario può definire ciò che è bene, e che grazie all’utilitarismo il sentimento prevale sull’argomentazione. Generato nel calderone postmoderno, il wokismo si sente autorizzato a negare l’esistenza della verità oggettiva e, ancor più, a sostenere che il semplice disaccordo con questa affermazione è un difetto caratteriale e non soltanto una divergenza di idee, in una strana combinazione tra nichilismo etico, da un lato, e schiacciante certezza morale, dall’altro. Ispirandosi a Fanon, il wokismo assume una posizione messianica e riduce gli agenti sociali alle categorie di oppressori-oppressi e, come figlio dell’Occidente, si appropria del tratto distintivo cristiano della centralità della vittima, attratto dal potere che vi risiede, deviandolo dalla sua tendenza all’universalità e chiudendolo nell’identità di gruppo.

Risulta evidente la complessità del wokismo che, nel denunciare l’ingiustizia, riunisce e abbraccia visioni e interessi contraddittori, o addirittura inconciliabili. Questa tensione va oltre le idee, e la si può scorgere anche all’interno delle identità collettive. Il confronto tra le femministe e il movimento transgender riguardo alla partecipazione delle donne trans alle attività sportive, o il tentativo di cancellare J. K. Rowling per aver sostenuto che la parola «donna» è inseparabile dalla biologia, sono testimonianze eloquenti delle difficoltà affrontate dal movimento woke. Ma la sfida diventa sempre più grande.

Effetto specchio

Nell’ultimo decennio il movimento woke è stato così efficace da suscitare reazioni opposte, rafforzando l’antiwokismo. Da una parte e dall’altra si usa come fondamento la libertà di espressione, si giustifica il fervore come lotta per la verità e la giustizia, ed entrambi proclamano la propria superiorità morale.

Soprattutto negli Stati Uniti, le azioni degli attivisti woke hanno spinto a raggrupparsi coloro che si oppongono con fervore a misure quali cancellare o annullare determinate personalità; abbattere statue; richiedere l’accesso ai bagni pubblici in base al genere con cui la persona si identifica; censurare o correggere libri il cui linguaggio riflette l’oppressione sistemica; istituire lettori «sensibili» per individuare microaggressioni nelle opere prima che vengano pubblicate; la scelta dei pronomi; azioni di sensibilizzazione negli asili e nelle scuole primarie, in virtù del fatto che il sesso è considerato un costrutto sociale. In questo contesto di opposizione a tali misure sono già visibili iniziative contrarie: proteste, boicottaggi e proposte di legge che mirano a preservare la lingua, i bagni, i libri, i luoghi di lavoro e le scuole dai princìpi del wokismo. Bisogna però riconoscere che l’antiwokismo è un movimento molto eterogeneo, perché l’unica cosa che accomuna diverse frange di destra e oppositori di tutto ciò che sembra abuso di potere da parte dello Stato è avere il wokismo come nemico comune.

L’antiwokismo è un wokismo allo specchio: è una sorta di conservatorismo rivisto dalla postmodernità, che, abbeverandosi alla negazione della conoscenza oggettiva e della centralità del linguaggio, non rifugge da una certa creatività, diffondendo teorie cospirazioniste e usando arbitrariamente l’espressione fake news come un’arma per squalificare l’avversario. Presenta la sua visione diametralmente opposta della realtà come un fatto alternativo (alternative fact) che, in nome del pluralismo, non può essere messo a tacere.

La politica identitaria

La politica identitaria di destra ha acquistato nuovo slancio negli ultimi decenni, legandosi alla correntepolitica che propende per la limitazione dei diritti agli stranieri, la difesa dell’affidamento delle posizioni di potere a cittadini e il recupero di un modello familiare caratterizzato dalla sottomissione delle donne. Tuttavia, all’inizio del XXI secolo, nel diritto convenzionale esisteva un ampio consenso riguardo all’illegittimità della discriminazione basata sulla razza, sul sesso o sull’orientamento sessuale di una persona[6]. Anche tra i conservatori, difendere la «domesticità» delle donne o la soppressione dei diritti basata sul colore della pelle o sull’orientamento sessuale significava adottare una posizione radicale riservata ai ranghi dell’estrema destra.

Ci sono donne, membri delle minoranze e persone omosessuali che hanno rivendicato per anni, con gesti e semplici testimonianze di vita, il diritto di esercitare a pieno titolo la cittadinanza. Hanno combattuto una lunga battaglia per convincere i settori più conservatori che non intendevano abolire la famiglia, l’eterosessualità, la mascolinità e il femminile. Forse i risultati sono stati inferiori alle aspettative di molti, ma non c’è dubbio che si sia imboccata la strada verso una maggiore integrazione. È stato un lungo cammino, quello percorso dalla società, in un fragile equilibrio di rispetto e positiva convivenza. Troppo fragile, a quanto pare, perché in pochi anni è riemersa tutta una serie di pregiudizi. Ed essendo inseparabile dal radicalismo woke, l’antiwokismo non scomparirebbe con la moderazione del wokismo, perché le sue radici sono più profonde.

Superare l’«impasse»

Il wokismo ha saputo innescare un dibattito pubblico necessario. Dando voce a diversi gruppi emarginati nella società, si generano molte conversazioni su politiche e pratiche effettivamente inclusive. Questo dibattito, però, non sembra poter contare sugli attivisti woke, dal momento che la loro apertura al dialogo o alla mera convivenza con altri punti di vista è ridotta, se non inesistente. Ritroviamo la stessa tendenza, ma di segno opposto e ancora più categorica, nell’antiwokismo, che pretende di piegare tutti alla propria visione di società ideale.

Sebbene il wokismo e l’antiwokismo si alimentino a vicenda, le ragioni della loro forza sono più profonde delle polemiche. Entrambi cercano di rispondere a un bisogno umano di appartenenza che non può restare senza riscontro, in quanto è un bisogno creato dallo smembramento dell’orizzonte di senso che la postmodernità ha messo in moto. Solo una riforma che li portasse a guardare oltre gli interessi delle identità che intendono proteggere consentirebbe loro di essere agenti costruttori – o ricostruttori – delle nostre società divise. E questo lavoro è più che una riforma: è una ri-creazione. Si possono nutrire legittimi dubbi circa l’effettiva disponibilità esistente all’interno del wokismo e dell’antiwokismo a una simile impresa. Nel mondo in cui entrambi sono fioriti è diffusa un’incapacità a individuare desideri comuni, accompagnata dall’insensibilità verso coloro con cui si condivide uno spazio, ma non un’affinità identitaria. Si sentono sempre più voci che chiedono inclusione e lottano contro la discriminazione, ma le orecchie disposte ad ascoltare sono poche. C’è una virulenza sostanzialmente emotiva per cui l’indignazione sembra un valore in sé, e mettere in discussione o non essere d’accordo con qualcuno è un atteggiamento discriminatorio o persecutorio. Le sfumature di autoritarismo e puritanesimo presenti in questa pratica dovrebbero indurci a prestare particolare attenzione al fenomeno, perché la diversità di pensiero e il confronto «urbano» degli argomenti sono fondamentali in una società sana; le persone dovrebbero essere giudicate in base alle loro azioni e opinioni, non in base alla razza, al genere o all’etnia.

La difficoltà della situazione attuale dovrebbe indurci a formulare proposte che ci consentano di superare l’impasse. Forest sostiene che tra wokismo e antiwokismo esiste un elemento comune che è sfuggito alla maggior parte dei loro interlocutori: l’interesse per la ricostruzione. Entrambi sono insoddisfatti della situazione attuale e sostengono che è necessario ricostruire la società. Tuttavia, come giustamente sottolinea Forest, la ricostruzione non sarà possibile finché la società rimarrà divisa tra l’affermazione di nuovi valori e la restaurazione ermetica dei valori precedenti. Per evitare la minaccia crescente di una perenne e irrisolvibile guerra culturale, Forest sostiene che è necessario decostruire la decostruzione che ha portato il wokismo a cristallizzarsi, paradossalmente, nelle identità che intendeva decostruire, come la razza e il genere, e che ha generato la virulenta recrudescenza di antichi pregiudizi che ora sono affluiti nella retorica dell’antiwokismo. Non si tratta tanto di costruire un ponte o di conciliare posizioni che sono inconciliabili, ma di creare una terza via, in cui entrambe le posizioni siano ugualmente esposte alla critica[7].

Questa proposta è lodevole e dovrebbe essere presa in seria considerazione. Essa però non risponde al desiderio di appartenenza trasversale alla società che è all’origine di queste proposte identitarie. Una terza via il cui corpus non vada oltre la decostruzione critica e continua di due posizioni estreme non crea un orizzonte per la società nel suo insieme. Avrà la sua utilità terapeutica, ma possiamo dubitare che contribuirà alla costruzione di un futuro condiviso: occorre qualcosa di più.

La riconciliazione

Il momento presente richiede due grandi riconciliazioni: quella tra identità e società; e quella tra un passato condiviso, segnato dall’ingiustizia e dalla cooperazione, e un futuro in cui le identità possano fiorire e alimentarsi a vicenda. La grande crisi del nostro tempo, più che economica, di sicurezza, finanziaria, religiosa o politica, è culturale. Abbiamo difficoltà a intenderci riguardo ai valori comuni e alla buona condotta morale. Le risposte identitarie a questo problema si sono rivelate insufficienti, perché sacrificano la possibilità di un orizzonte comune a favore di interessi particolari. È necessario denunciare le discriminazioni ed è essenziale ascoltare la voce di coloro che sono emarginati. Ma dobbiamo andare oltre le risposte identitarie: dobbiamo recuperare la società come corpo unico e plurale, e questo dovrebbe portarci a guardare alla nostra storia, perché è in risposta alla dispersione che è emersa la civiltà attuale.

La storia dell’Occidente, fatta di luci e ombre, è la storia della ricerca dell’umanità. E ciò che accomuna gli esseri umani è la capacità di riconoscere e desiderare la verità, il bene, la bellezza e la giustizia. Il nostro anelito a questi valori va ben oltre il consenso e le convenzioni sociali, le ideologie, le cause e le religioni. Sia in una visione ispirata alla metafisica sia in una visione ispirata al relativismo morale, questi valori sono come un’intuizione incancellabile alla quale wokismo e antiwokismo non possono sfuggire.

Riconosciamo che una definizione tassativa di questi valori è evasiva. Ma questa difficoltà non deve portarci ad assumere posizioni scettiche o ciniche, o a dare interpretazioni contestualizzate o circostanziali. Nel costruire una società più giusta e inclusiva, dobbiamo denunciare la discriminazione e rifiutare di rispondervi sulla base di categorie identitarie, come il bene di un gruppo. Proteggere un’identità specifica dall’oppressione non dovrebbe essere sinonimo di segmentazione della società. È importante ricordare questo al wokismo e all’antiwokismo.

Fratelli tutti

Una delle proposte più interessanti per rispondere alle sfide del nostro tempo è la cultura dell’incontro proposta da papa Francesco. Nell’enciclica Fratelli tutti viene delineata una tabella di marcia per generare questa cultura, ricordando che in un poliedro la confluenza di tutte le parti non cancella l’originalità di ciascuna di esse. Il Papa ci invita a correre il rischio di andare oltre l’individualismo o la diluizione in un soggetto collettivo uniforme. Chiede che la diversità venga vista come ricchezza e non come minaccia, che si abbia fiducia nella possibilità di raggiungere l’unità in un’armonia pluriforme, che richiederà un dialogo costante. Dobbiamo riconoscere, prontamente e senza ingenuità, che il dialogo comporterà sempre un conflitto, e che tuttavia il discorso non finisce qui, ma si apre a delineare un nuovo orizzonte futuro.

Una sfida da accettare

Nell’epoca in cui viviamo non possiamo cedere alla paura, anche quando essa si maschera da prudenza. Abbiamo bisogno di coraggio, il coraggio di superare noi stessi e di trascendere i nostri interessi. Questa è la sfida che vale la pena accettare, senza temere le diversità e i disaccordi, certi che è attraverso l’incontro, l’ascolto e il dialogo franco che potremo tracciare un cammino verso la pace sociale.

 [1].    Cfr J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 1987.

[2].    Cfr B.-C. Han, La società della stanchezza, Milano, nottetempo, 2020; edizione digitale Kindle, pos. 663.

[3].    Cfr P. Forest, «La querelle du woke», in Études, n. 4307, 2023, 43-54.

[4].    Cfr M. Petrusek, Evangelization and Ideology: How to Understand and Respond to the Political Culture, Park Ridge, Word on Fire Institute, 2023, 317.

[5].    Cfr T. Holland, Dominion: How the Christian Revolution Remade the World, New York, Basic Books, 2023, 531-533.

[6].    Cfr H. Pluckrose – J. Lindsay, Cynical Theories, Durham, Pitchstone, 2020, 259-262.

[7].    Cfr P. Forest, «La querelle du woke», cit., 53.

Civiltà Cattolica

 Immagine: (iStock/Iryna Drozd).


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