didattica,
ricerca
e impegno civico”
L’università come istituzione è in grave crisi
e se si vuole salvarla occorre ripensarla. Va superato il modello attuale
basato sull’efficienza
La scienza moderna è dovuta spesso crescere tra mecenatismo, incarichi pubblici e autonomie limitate. Ma l’università come la conosciamo oggi – laica, pubblica, orientata alla produzione e alla trasmissione del sapere – nasce nel Medioevo come universitas magistrorum et scholarium, corporazione autonoma di maestri e studenti.
I primi studia generalia, come Bologna e Parigi,
erano centri cosmopoliti di apprendimento, aperti a studenti di ogni
provenienza, dove si insegnava diritto, medicina, filosofia e teologia. Con il
modello humboldtiano del XIX secolo, soprattutto in Germania, l’università si
emancipa dal solo insegnamento e assume la ricerca come sua missione fondante,
nel nome della libertà accademica e dell’unità del sapere.
Nel secondo dopoguerra, le università europee sono diventate
infrastrutture pubbliche al servizio della democrazia, dell’equità sociale e
dello sviluppo. Oggi, purtroppo, questo modello vacilla.
In Olanda, il governo ha annunciato tagli alla ricerca e
all’educazione universitaria per oltre 1,2 miliardi di euro. Nel Regno Unito,
l’accademia sta affrontando le conseguenze combinate di Brexit e inflazione. A
Bruxelles, la Commissione europea ha ridotto di 2,1 miliardi di euro il budget
di Horizon Europe, riallocandone 1,5 nella ricerca per la difesa.
Questo porta a bandi di ricerca sempre più affollati, con
tassi di successo a volte intorno al 2%. Negli Stati Uniti, purtroppo, la
situazione è anche peggiore. La nuova presidenza Trump sta riducendo fondi e,
ancor peggio, imponendo un controllo sui temi trattati dai ricercatori.
Ma la questione non è solo quantitativa. È epistemologica.
Oggi, per ottenere finanziamenti, bisogna dimostrare di avere già risultati
preliminari, una rete consolidata e impatti
verificabili. In altre parole: si deve sapere già ciò che si intende
scoprire. Un paradosso che penalizza le idee più rischiose, spesso le più
promettenti.
Ad esempio David Baker, premio Nobel 2024 per la Chimica per
le sue ricerche sulla progettazione computazionale delle proteine, racconta che
non sarebbe mai riuscito ad arrivare all’idea di predire la struttura delle
proteine con l’intelligenza artificiale, se non avesse ricevuto un
finanziamento “a fondo perduto” tramite personal fellowship per
esplorare un’idea rischiosa e non convenzionale.
Non è un caso isolato. Uno studio pubblicato su Nature nel
2023 mostra che la disruptiveness – la capacità degli articoli
e brevetti di cambiare radicalmente il sapere esistente – è in declino da
decenni. La ricerca procede per accumulo, raramente per deviazione. I sistemi
di valutazione incentivano la produttività, non la sorpresa. L’iper-specializzazione
riduce l’interdisciplinarità. Le metriche bibliometriche rischiano di
comprimere l’immaginazione.
Già nel 2011, Harvard Magazine avvertiva che
le università rischiavano di trasformarsi in imprese della conoscenza, attente
ai risultati a breve termine, misurate su prestazioni quantificabili, e
scollegate dalle grandi domande del nostro tempo. Un rischio oggi evidente
anche in Europa.
Eppure, qualcosa si muove. Il framework DORA (San
Francisco Declaration on Research Assessment), adottato da centinaia di enti
accademici in tutto il mondo, propone di superare l’impact factor come
indicatore centrale per valutare invece la qualità metodologica, l’apertura dei
dati, la varietà dei risultati e l’impatto sociale della ricerca.
Ma non basta ripensare la valutazione. Occorre ridefinire il
ruolo stesso delle università. In Creating the University of the Future (Springer,
2024), il ricercatore tedesco Wolfgang Stark propone il concetto
di università come spazi di risonanza: luoghi in cui si attivano
trasformazioni, dove il sapere si costruisce nella relazione con la società. È
la “terza missione” intesa non come trasferimento, ma come co-produzione
insieme a enti locali, scuole, imprese sociali e cittadinanza attiva.
Esperienze di Community Service Learning,
descritte da Stark, mostrano come si possano integrare didattica, ricerca e
impegno civico. Gli studenti non apprendono solo contenuti, ma capacità di
agire responsabilmente in contesti complessi. L’università diventa allora non
solo centro di eccellenza, ma nodo
civico, laboratorio di futuro, lente per immaginare ciò che ancora non
c’è.
Il futuro dell’università non può ridursi a un tema di
gestione o di efficienza. È una questione politica e culturale. Significa
decidere se vogliamo università ridotte a incubatori di brevetti, o luoghi in
cui si
pensa criticamente, si sbaglia legittimamente, si rischia
collettivamente. Come fecero ieri Galileo, Newton, Marie Curie, e come
hanno fatto, in tempi più recenti, Giorgio Parisi, David Baker e
molti altri.
Difendere l’università oggi significa difendere la
possibilità stessa di immaginare un futuro condiviso, giusto e creativo.
Significa creare condizioni in cui il sapere possa continuare a porre domande
inattese. Anche quando le risposte non sono ancora a portata di mano.
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