L'economista
non ha dubbi: «I dazi andranno avanti al massimo per un anno e si ritorceranno
contro gli americani». L'Europa pagherà conseguenze che «saranno momentanee.
Farebbe meglio a concentrarsi sulle questioni strutturali che negli ultimi 20
anni l'hanno indebolita e iniziare ad investire in tecnologia e scienza»
di Anna Spena
«Che
altro c’è da dire?». Risponde così – e sorride – il professore emerito di
Economia Civile all’Università di Bologna Stefano Zamagni quando
gli chiediamo dei dazi di Donald Trump entrati in vigore il 5 aprile. Il primo
pacchetto di dazi, del 10%, viene applicato a tutti i Paesi e su quasi tutte le
importazioni. A questi seguiranno dazi “reciproci” – come li ha definiti il
presidente degli Stati Uniti – per tassare le merci straniere importate negli
Usa. L’Unione Europea risponde con i contro-dazi a quelli – del 25% – applicati
dagli Usa su acciaio e alluminio, che nel caso del vecchio continente valgono
26 miliardi. La Commissione ha deciso di colpire alcuni dei più iconici
prodotti statunitensi con tariffe al 25%, salvo alcune eccezioni limitate al
10%. E mentre i mercati impazziscono stiamo a guardare il dito e non la
luna.
Professore,
che significa “che altro c’è da dire?”
La
questione dei dazi imposti da Trump sta polarizzando l’attenzione di tutti.
Quello che io rilevo è, da un lato, un eccesso di informazioni che si
rincorrono e si contraddicono reciprocamente, dall’altro una scarsità di
riflessioni sul significato profondo di questo fenomeno e sulle implicazioni
che può avere. E non mi riferisco solo all’Italia – dove comunque il tema è più
avvertito rispetto agli altri Paesi – ma all’intero mondo occidentale.
In
che senso?
La
vicenda dei dazi, e delle altre misure che sono state prese in terra d’America
dall’amministrazione Trump, appartengono all’ordine dei mezzi, non all’ordine
dei fini, tanto in ossequio ad una teoria economica mirata a diminuire le
transazioni internazionali e quindi a mettere in forza il principio sacro del
libero scambio. Questo lo sa Trump, come lo sa chiunque abbia studiato un
minimo di economia.
E
allora perché lo fa?
Perché
il suo fine è diverso. E si serve dello strumento economico, ma questo è il mio
giudizio, in maniera sbagliata per raggiungerlo.
Professore
ma di che fine parliamo?
È
un fine di duplice natura, da un lato politico e dall’altro culturale. Sul
piano politico quello che sta avvenendo era già scritto nel famoso “Manifesto
Politico della Sylicon Valley Oligarchica” di Peter Thiel. Un manifesto,
pubblicato in California, che risale al 2009 e che ha tra i suoi sostenitori il
vicepresidente J. D. Vance, Elon Musk e molti imprenditori delle big tech. La
tesi che viene sviluppata nel manifesto è che il tempo della democrazia sia
finito. Se vogliamo progredire occorre attribuire il potere non al popolo, ma
ad un gruppo, a un’élite ristretta di super capaci e super esperti. Perché
diversamente il rischio è di perdere gli appuntamenti della storia. L’altro
obiettivo, invece, è quello di ristabilire l’egemonia culturale. Ecco, gli americani
non hanno mai accettato o digerito il fatto che dal punto di vista culturale,
negli ultimi 15, 20 anni, l’America sia andata giù. Questa evidentemente è una
prospettiva che fa presa, non dico su tutti, ma su alcuni strati della
popolazione americana e da un certo punto di vista è comprensibile, ma non
giustificabile.
Perché
è comprensibile?
Dopo
la seconda guerra mondiale, e per decenni, l’America è stata la terra
dell’avvenire, la terra promessa. Dalla grande crisi finanziaria del 2008 è
diventata invece il ricettacolo di tutto ciò che non va. Crisi che,
ricordiamolo, è stata causata dagli americani, e questo ha evidentemente
diminuito la fiducia. In molti si sono chiesti sul piano economico, così come
su quello scientifico, dove fosse la supremazia americana se in casa loro hanno
“allevato” una crisi di queste proporzioni. In sostanza l’Europa sta perdendo
troppo tempo su questa guerra dei dazi, perché è una guerra che non durerà.
Dice
di no?
A
mio modo di vedere, cioè il mio sentiment, come si suol dire, è che al massimo
potrà durare ancora un anno perché chi ha un minimo di conoscenza economica sa
che il prezzo che questa guerra dei dazi che Trump sta imponendo agli americani
si ritorcerà contro di loro. In America è diffusa la cultura del pragmatismo.
L’americano medio, a differenza dell’europeo medio, è molto meno attratto
dall’ideologia o dai valori fondamentali. Dopotutto il pragmatismo è una
corrente di pensiero filosofica nata proprio in America alla fine
dell’Ottocento. E la filosofia pragmatista dice che va fatto tutto ciò che
funziona, ovvero ciò che produce benessere. Già ora ci sono state delle
proteste nei vari Stati Usa, ed è soltanto l’inizio. La gente vede che la loro
condizione di vita sta peggiorando e quindi non è disposta a rinunciare al
proprio benessere. Ecco quando il benessere diminuisce, l’americano medio
“abbandona”.
E
le conseguenze sull’Europa?
Nel
frattempo, pagheremo delle conseguenze, certo. Il Pil calerà, ma sarà una
situazione momentanea. La durata di questa politica insensata è destinata a non
superare le elezioni di midterm. Quando i sondaggi rileveranno il rischio per i
repubblicani di perdere la maggioranza al Congresso le cose inizieranno già a
cambiare, chi conosce la cultura americana lo sa. Io insegno in un’università
americana da 52 anni, me ne accorgo. Vedo gli studenti, anche se sono già
avanti con gli anni, come ragionano e qual è il loro modo di rapportarsi.
Confronto il loro atteggiamento con gli studenti italiani. E mentre per i
nostri studenti c’è sempre un gancio, chiamiamolo ideale o ideologico, a
seconda delle circostanze, gli studenti americani non hanno di questi problemi
perché per loro il principio è il funzionalismo e se una cosa non funziona va
buttata via e va cambiata. Nel frattempo, l’Europa dovrebbe soffermarsi su
altro, non sui dazi.
Altro?
Sulle
cose concrete.
Quali
sono?
È
possibile che un continente come l’Europa non abbia una company, una
corporation nel settore delle alte tecnologie, come hanno invece gli americani?
Ma è mai possibile che noi non abbiamo dei centri di ricerca di altissimo
livello sotto il profilo tecnico-scientifico anche se in Europa siamo pieni di
cervelli che vengono esportati negli Usa? È possibile che non ci sia un’idea di
difesa comune gestita con un’agenzia indipendente? Ma è mai possibile che in
Europa, nella cosiddetta Unione Europea, ci siano 27 modelli diversi, tali per
cui se uno si ammala in un Paese ha un trattamento e se si ammala in un altro
il trattamento cambia? È possibile che l’Europa non riesca a partorire un
disegno comune per evitare il frazionamento che abbiamo davanti? Pensare alle
cose concrete significa aggredire le cause che hanno portato a questa
situazione.
Cosa
si può fare?
Non
bisogna concentrare tutte le attenzioni sulle questioni di breve termine,
utilizzate come scusa per non dedicare invece attenzioni alle questioni
strutturali. Questo succede perché negli ultimi 20 anni l’Europa si è
indebolita, non siamo forti. E gli americani, sapendolo, ne hanno tratto
vantaggio. Ora sui dazi si sta provando a percorrere la strada del negoziato,
lo stanno chiedendo tutti, ed è ovvio. Ma quello che io voglio dire è che
bisogna proprio uscire dal superficialismo. Ci muoviamo e ci agitiamo solo
quando succede qualcosa. Guardiamo ai disastri naturali. Quando arriva
l’alluvione tutti piangiamo. Ma è mai possibile? Queste cose si sapevano già da
prima. Ma quando dico “da prima” intendo da anni, perché non si è mai fatto
nulla? Quindi prima piangiamo e poi rifacciamo l’errore di mettere una pezza
sul disastro e non curare la causa strutturale che l’ha determinato.
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