questione (anche teologica)
della persona
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di GIUSEPPE LORIZIO*
Nel
dibattito profondo e appassionato circa la legge contro l’omo-transfobia per
chi cerca di pensare e far pensare si pongono delle questioni fondamentali, che
superano il livello politico- partitico e giuridico-legislativo. E il teologo
non le può accantonare assistendo dalla finestra al susseguirsi degli eventi.
Tanto più che egli è, e non può non essere, cittadino consapevole della propria
appartenenza alla città di Dio e a quella degli uomini, senza confusione, ma
anche senza separazione, come recita il Concilio di Calcedonia.
Una recente intervista a Stefano Fassina, intellettuale e parlamentare di sinistra, ha messo in luce un nodo teorico decisivo: «La questione fondamentale è che l’articolo 1 [dell’attuale disegno di legge] contiene una visione antropologica. E una visione antropologica non può essere legge dello Stato. Il rafforzamento necessario e urgente della normativa antidiscriminatoria non può essere legato, mi ripeto ancora per essere più chiaro possibile, a una visione antropologica» ('Avvenire' 7 luglio 2021).
Che cosa è in gioco, se
non l’umano, che si caratterizza per il passaggio (in questa terra) di un 'io'
in una corporeità, fisica e determinata, il cui realismo non può essere
facilmente eluso a favore di un soggettivismo indiscriminato? Viene dunque alla
ribalta la discussione sulla 'persona', sui suoi inalienabili diritti e doveri,
ma anche sulla visione che la società e lo Stato sono chiamati a esprimere di
questa singolarità inviolabile, di cui la legge dovrebbe garantire in primo luogo
la sussistenza, condannando ogni forma di violenza nei suoi confronti.
Tuttavia, all’argomentazione del deputato, si potrebbe obiettare il fatto che
in ogni caso una legge ha alle sue spalle una visione antropologica, persino le
leggi più curvate sull’economico. E di questo abbiamo tutti, da intellettuali e
da credenti, il dovere di continuare a discutere.
Questa
sottolineatura mi conduce al nocciolo della riflessione. Proprio perché
dell’umano si tratta, e dell’uomo in quanto persona, ogni volta che ci si
accinge a formare una legge, come cittadino non della città celeste, ma di
questa stupenda nazione che è l’Italia, mi sento garantito dalla
Costituzione repubblicana, che agli articoli 55 e 70 afferma il
bicameralismo e l’«esercizio collettivo» (art. 70) del potere
legislativo. E questo perché rispettosa della complessità
delle questioni e dei risvolti antropologici che esse mettono in
campo di volta in volta. Problematiche che hanno bisogno
di tempo di riflessione, di dialogo e di dibattito.
La
sapienza dei padri della Repubblica tende a mettere in guardia dalla fretta e
dal prendere decisioni istantanee (tutto e subito!), quando invece si richiede
tempo e matura riflessione. Nella fattispecie, come direbbero i giuristi, alla
cui categoria non appartengo affatto, ma che mi interpella come cittadino,
blindare un testo legislativo nel passaggio da una camera all’altra non è per
nulla rispettoso della Costituzione. Se ciò può accadere (per esempio, nel caso
della fiducia posta dall’esecutivo), non è questo il caso, in quanto il premier
ha detto che la questione è del Parlamento (ossia delle due Camere), non del
Governo in carica e neppure della sola Camera che l’ha già votata.
Tirare
la giacca al Senato o blindare il testo con il diktat: 'o prendere o lasciare!',
significa non aver compreso né la posta in gioco, né l’ordinamento della nostra
Repubblica. Cerchiamo pertanto di essere democratici nella vita e non solo
nell’etichetta partitica.
*Pontificia Università
Lateranense
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