NON SI PUÒ SCHERZARE CON L’«IDENTITÀ DI GENERE»
-di LUCIANO MOIA
La questione è stata lasciata un po’ sottotraccia dalla
battaglia politico-mediatica e da un confronto comprensibilmente concentrato su
pur serissime questioni giuridiche, eppure è il caso di parlarne. L’articolo 1,
comma d, della legge licenziata dalla Camera recita: «Per identità di genere si
intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere,
anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un
percorso di transizione ». È uno dei passaggi più discussi di un testo che, al
Senato, si dovrà 'unificare' con altre quattro proposte di legge. C’è
l’occasione per riconsiderare in modo meno affrettato, tra gli altri punti
contestati, anche le definizioni che fanno riferimento all’ambito
antropologico. Soprattutto quella di identità di genere.
Sarebbe tutto più agevole se il testo che si propone di
introdurre misure di prevenzione e contrasto contro omofobia,
misoginia e abilismo, parlasse in modo più esplicito di transessualità?
Forse, ma anche qui occorre distinguere, con serenità e spirito propositivo,
allontanando qualsiasi retropensiero ideologico. È indubbio che dietro il
concetto di identità di genere si intrecciano diverse sfumature... Se
il riferimento va a certa antropologia culturale che si richiama al sex
gender system – la cosiddetta 'teoria del gender' – la contraddizione
è dietro l’angolo. Ma esistono ancora lobby gender che puntano a sgominare il
paradigma eterosessuale normativo e a favorire la dissoluzione della famiglia?
Oggi anche la sociologa americana Judith Butler, considerata a lungo la
'profetessa del gender', è andata oltre questi schemi – forse perché ne ha
intuito la fragilità – e si dedica a studiare temi come inclusione e violenza.
Certo, introdurre come fa il comma d dell’articolo 1 la specificazione «indipendentemente
dall’aver concluso un percorso di transizione» complica ancor di più le cose.
Al di là delle pretese gridate da alcune frange dei gruppi Lbgtq, il fatto di
aver avviato un 'percorso di transizione', non basta affatto a definirsi uomo o
donna. Né per la legge, nonostante alcune sentenze contraddittorie, né per
l’equilibrio e il benessere delle stesse persone coinvolte. Forse basterebbe
ricordare che nel nostro Paese la «rettificazione anagrafica del sesso» è
ancora regolata dalla legge 164 del 1982, tra le più rigorose, giustamente,
nell’indicare tempi e modalità di un percorso che non è mai senza inciampi e
senza sofferenze. Qui entriamo nell’ambito della sessuologia clinica dove
l’«identità di genere» ha, invece, un significato ben preciso. Si mettono da
parte finalmente le ambiguità dei riferimenti 'gender' – o dell’archeologia
ideologica residua – per approdare, con tanta fatica e tanta
sofferenza, all’evidenza scientifica. Per la sessuologia
l’«identità di genere», quando non s’identifica né con il sesso
biologico né con l’orientamento sessuale, finisce per
richiamare condizioni che, appunto, hanno un nome
preciso: disforia di genere. Essa, detto in modo
semplice, riguarda persone, che si sentono ingabbiate in
un’identità diversa rispetto al proprio sesso biologico. Parliamo
di circa 7mila casi perché le poche statistiche a disposizione
stimano un caso su novemila persone. Un dato patologico costante, anche se in
quest’ultimo decennio, caduto lo stigma sociale legato all’incertezza dell’identità
sessuale, le richieste di 'transizione' si sono moltiplicate. Negare che
esista, in questo chiaro senso, il problema dell’«identità di genere » vuol
dire negare le sofferenze di persone che, quando il problema è reale e non
ammantato di suggestioni ideologiche, finiscono per sperimentare un baratro di
sofferenze, attese, delusioni, incertezze. Almeno la metà dei percorsi di
transizione si interrompe quando le persone con disforia, o i loro genitori, si
accorgono che non è quella la strada per la felicità. Non è mai facile, né
banale, né privo di rischi il sogno di colmare la frattura tra il proprio sesso
biologico e la percezione dell’identità personale.
Per questo, quando gli estensori della legge giustificano il
richiamo all’«identità di genere» con precedenti riferimenti giuridici o alla
Convenzione di Istanbul che ne fa cenno, dovrebbero rendersi conto che, né
l’una né gli altri, offrono chiavi di lettura adeguate perché, in tutti questi
casi, si liquida in poche righe una complessità profonda che implica tante
domande, anche contraddittorie e disturbanti, a cui né la scienza né la morale
offrono risposte davvero soddisfacenti. Ecco perché deve essere valutata con
favore l’occasione di rivedere, approfondire, ricercare senza stancarsi
soluzioni più condivise del cosiddetto ddl Zan.
Nel concetto di «identità di genere», fuori e lontano da
strumentalizzazioni e semplificazioni improprie, e in un modo che il
legislatore non sta cogliendo né rendendo chiaro, c’è un dolore che segna la
carne viva delle persone.
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