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venerdì 13 dicembre 2024

SERVIRE IL BENE COMUNE

 


Un servitore 

del 

bene comune

 




-         di Giuseppe Savagnone*

-          

Alla fine, Ernesto Maria Ruffini si è dimesso da direttore dell’Agenzia delle Entrate.  Di lui, fino a poco tempo fa quasi del tutto sconosciuto al grande pubblico, si parlava molto da giorni sui quotidiani come dell’“uomo nuovo” di cui, secondo alcuni, l’opposizione avrebbe bisogno per superare la sua attuale frammentazione, che le rende impossibile costituire una concreta alternativa all’attuale governo.

Era anche indicato come l’uomo adatto, per la sua storia personale di credente, a far ritornare i cattolici protagonisti della vita politica, dopo una lunga eclisse.

All’origine di queste voci, sempre più insistenti, c’era sicuramente la stima di cui Ruffini gode, un po’ in tutti gli schieramenti politici, per il suo eccellente lavoro nell’Agenzia e che spiega perché sia stato confermato nel suo delicato ruolo da ben quattro governi, di tutti i colori, compreso quello attuale.

Grazie a lui l’Agenzia delle Entrate ha reso più razionali e funzionali i suoi servizi ai cittadini, anche ricorrendo a un ampio uso della digitalizzazione. E in questo modo ha potuto combattere, molto più efficacemente che in passato, la piaga cronica dell’evasione fiscale, raggiungendo nel 2023 il traguardo record un recupero di oltre 31 miliardi di euro.

Al di là dei risultati concreti, però, è significativa la logica secondo cui Ruffini ha concepito e impostato la sua ardua opera, nel quadro di una visione più ampia, esposta nel suo recente libro «Uguali per Costituzione. Storia di un’utopia incompiuta dal 1948 ad oggi», con una prefazione del presidente Mattarella.

Per Ruffini «le tasse, belle o brutte che siano, sono il mezzo più onesto e trasparente che abbiamo per contribuire al bene comune del nostro paese, di tutti noi». In un’Italia che vede aumentare sempre più il divario tra una minoranza di ricchi sempre più ricchi e una maggioranza di poveri sempre più poveri, le imposte sono il modo per combattere questa perversa polarizzazione e redistribuire le risorse, così da non vanificare l’art. 3 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge».  

In conflitto con il governo

Una logica che non può certo essere condivisa dai partiti di destra oggi al governo, il cui comune modello è quell’acerrimo nemico delle tasse che è stato Silvio Berlusconi, secondo cui esse costituiscono un illegittimo «mettere le mani nelle tasche degli italiani». 

In questa prospettiva si capiscono le reiterate campagne di Matteo Salvini per promuovere forme di “pace fiscale” che in sostanza si riducono a condonare agli evasori la maggior parte di quello che devono alla comunità e che altri (soprattutto i lavoratori con stipendio fisso), al posto loro, sono obbligati a pagare, rendendo così il carico fiscale veramente esorbitante.

Ed è nel più puro spirito berlusconiano che il nostro vice-premier, qualche tempo fa, ha usato parole durissime contro l’ufficio dello Stato di cui egli dovrebbe essere istituzionalmente il primo sostenitore: «Ci sono milioni di italiani ostaggio dell’Agenzia delle Entrate».  

È stata l’unica volta che Ruffini ha sentito la necessità di fare un intervento pubblico: «Il contrasto all’evasione», ha risposto al ministro, «non è volontà di perseguitare qualcuno, l’Agenzia è un’amministrazione dello Stato, non un’entità belligerante.  È un fatto di giustizia nei confronti di tutti coloro che le tasse, anno dopo anno, le pagano, e le hanno pagate, sempre fino all’ultimo centesimo, anche a costo di sacrifici e nonostante l’innegabile elevata pressione fiscale, e di coloro che hanno bisogno del sostegno dello Stato, erogato attraverso i servizi pubblici con le risorse finanziarie recuperate».

E ora l’ormai ex direttore si è riferito a questo episodio per spiegare le sue dimissioni: «Non mi era mai capitato», ha detto in un’intervista al “Corriere della Sera”,  «di vedere pubblici funzionari essere additati come estorsori di un pizzo di Stato. Oppure di sentir dire che l’Agenzia delle Entrate tiene in ostaggio le famiglie, come fosse un sequestratore».

E ha ribadito il suo punto di vista: «Attenzione però: se il fisco in sé è demonizzato, si colpisce il cuore dello Stato (…). Personalmente ho sempre pensato che a danneggiare i cittadini onesti siano gli evasori»

La mancata “discesa in campo

Ruffini ha anche precisato, contestualmente, di non avere nessuna intenzione di “scendere in campo”. Un’ipotesi gravata da troppe incognite, in realtà, per essere realistica. Qualcuno lo voleva federatore dei partiti di centro – ma né Renzi né Calenda erano disposti a farsi da parte; qualcun altro evocava addirittura l’esempio di Prodi, che aveva  unito i partiti di centro-sinistra, per applicarlo all’attuale situazione del “campo largo”. 

Ma c’era chi si chiedeva se esistano, oggi, le condizioni che allora consentirono questa esperienza e metteva in guardia dal rischio di voler riprodurre uno schema ormai inattuale.

Ora la decisa presa di posizione di Ruffini – peraltro già anticipata nel suo intervento in un convegno di qualche giorno fa – elimina questi dubbi e dissipa questi equivoci spiegando le motivazioni che la ispirano: «Fatico a pensare che per cambiare le cose bastino i singoli. Per natura tendo più a credere nella forza delle persone che collaborano per un progetto comune. Affidarsi a sedicenti salvatori della Patria non è un buon affare.

Dovremmo smetterla di considerare la politica come una partita a scacchi o un gioco di potere, perché dovrebbe essere un percorso fatto di discussioni, grandi ideali, progetti, coinvolgimento. Non un talent show culinario per selezionare uno chef in grado di mescolare un po’ di ingredienti, nella speranza che il piatto finale sia buono. Altrimenti si alimenta il distacco dei cittadini dalla politica. E si costruisce un futuro peggiore».

Parole che suonano incredibili – e probabilmente resteranno incomprensibili – in uno scenario politico che vede dominare logiche del tutto diverse, sia nel governo che nell’opposizione.

Il risveglio di cui il mondo cattolico ha bisogno

Eppure, paradossalmente, proprio con questa rinunzia a fare la politica nel modo che gli veniva chiesto, Ruffini ha in realtà indicato la via per farla in un altro modo, completamente diverso. E, forse contro le sue intenzioni, questo lo rende il migliore candidato ad animare e promuovere il ritorno dei cattolici alla politica.

Perché essi non sono certo assenti nella nostra società per mancanza di forze, come dimostra  la loro incidenza nella sfera propriamente sociale, che li vede protagonisti del terzo settore. Se sono diventati irrilevanti in quella politica, dove, dopo essere stati per quarant’anni al governo del paese con la Dc, è perché non hanno avuto la capacità di elaborare quel «progetto comune» di cui ha parlato Ruffini e sono stati risucchiati da due poli – di destra e di sinistra – che non rispecchiano in alcun modo l’insegnamento sociale cristiano a cui essi si ispirano.

Così si sono trovati all’interno di un PD che, malgrado fosse nato con l’ambizione di unire cattolici e socialisti, sembra ormai essersi concentrato sulle battaglie per una libertà che ricorda molto quella dell’individualismo possessivo radical-liberale (altro che sinistra!), lasciando in secondo piano i diritti (e i doveri) sociali.

Oppure hanno finito per sostenere una destra che, ad ogni pie’ sospinto, si dichiara «cristiana» e che combatte, è vero, contro  il «diritto di aborto» e la maternità surrogata, ma che non conosce la dimensione della solidarietà, né all’interno dello Stato (vedi legge sull’autonomia differenziata, fortemente criticata dai vescovi italiani), né verso i poveri del mondo (vedi politica di «difesa dei confini»  contro i migranti, agli antipodi dei reiterati appelli di papa Francesco alla solidarietà). 

Per non parlare della sostanziale solidarietà del nostro governo con quello israeliano, davanti alle stragi di inermi civili palestinesi (anche in questo caso in chiaro contrasto con la posizione del papa).

Questo vale anche per l’ala più moderata, della destra, Forza Italia, il cui segretario, Tajani, recentemente ha detto di considerarsi erede di Alcide De Gasperi. Una dichiarazione che non può non fare rabbrividire chi ricorda la figura del grande politico cristiano (di cui oggi è in corso il processo di beatificazione), nel vederla accaparrata da un partito che  si ispira a un personaggio come Silvio Berlusconi – agli antipodi di De Gasperi, nel pensiero e nell’esempio, – di cui ancora nelle ultime elezioni europee ha messo il nome sui suoi manifesti.

È in questo vuoto che si è manifestata, nella Settimana sociale di Trieste del luglio scorso, l’esigenza di riscoprire, al di là delle divisioni, una identità cattolica trasversale ai partiti. 

Non per formare un terzo polo, ma per rimettere all’ordine del giorno della politica idee della dottrina sociale cristiana come “bene comune” e “solidarietà”, scomparse dal vocabolario sia della destra che della sinistra.

Su questa base potranno in futuro nascere degli sviluppi che coinvolgano anche i partiti. Ma questo richiede un pensiero, un progetto. Sono le idee che prima di tutto sono mancate in questi anni al mondo cattolico, ed è in questa direzione che lo stesso Ruffini ha mostrato di voler lavorare.

Non si tratta, ovviamente, di creare un “pensatoio” di intellettuali. Nella sua intervista il direttore dimissionario ha definito la politica «un’avventura collettiva fondata su rispetto, dialogo e soprattutto partecipazione» .

È a questo che bisogna rieducare una base cattolica che attualmente troppo spesso si limita a frequentare le parrocchie per “consumare” – individualisticamente – sacramenti e appena fuori dalle mura del tempio, ignora l’appello dei papi a considerare la politica «la forma più alta di carità». . 

È urgente, dunque, ricominciare a creare occasioni di riflessione, confronto e partecipazione che da tempo sono venute meno. In questo impegno collettivo può essere prezioso il ruolo dell’associazionismo cattolico. Su questa base anche molti, che credenti non sono, sarebbero probabilmente interessati a dare il loro contributo.

Questa – ha ragione Ruffini – è sola via per una reale svolta. Non le operazioni di palazzo in cui lo si voleva coinvolgere, offrendogli posti di potere. E noi gli siamo grati di avere non solo detto, ma testimoniato con il suo gesto coraggioso, ciò di cui non solo i cattolici, ma l’Italia, oggi, ha estremo bisogno.

 

*Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo

 

www.tuttavia.eu

 

venerdì 4 ottobre 2024

NESSUN UOMO E' UN'ISOLA


 SACRIFICI 

PER 

IL BENE COMUNE


-         di Giuseppe Savagnone*

-          

Uno shock collettivo

Le parole del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti sono state semplici e chiare: per risanare i conti pubblici, sarà necessaria una manovra che «chiederà sacrifici a tutti».

 E il ministro ha citato l’articolo 53 della Costituzione, secondo cui «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva», un principio che per lui dev’essere «la stella polare» in questa situazione.

 In concreto, ha spiegato, per far fronte alle necessità del momento bisognerà reperire risorse da «tutto il sistema Paese»: «i privati, le aziende e soprattutto la Pubblica amministrazione, che sarà chiamata ad essere più performante e produttiva». In particolare, per quanto riguarda le banche e le aziende, si tratterà di «tassare i giusti profitti, gli utili», calcolati «in modo corretto».

 A prima vista non sembrerebbe un discorso sconvolgente. Invece lo è stato. La Borsa di Milano ha chiuso a -1,5%, il risultato peggiore in Europa.

 Peggiore anche del -1,32% di quella di Parigi, dopo l’annuncio di una «imposta eccezionale» sulle imprese e sui contribuenti più ricchi ipotizzata dal governo del nuovo premier, Michel Barnier.

 Ma non è stata solo la Borsa ad aver un shock: basta leggere, all’indomani dell’annunzio di Giorgetti, i titoli di prima pagina dei quotidiani – ad eccezione di quelli filo-governativi, che significativamente non hanno riportato la notizia o l’hanno relegata in un piccolo riquadro – per rendersi conto di quanto esso abbia scosso partiti e opinione pubblica.

 La maggioranza ha cercato di calmare gli animi e di rassicurare tutti: «Niente nuove tasse», è stato ribadito con forza da diversi suoi esponenti. Né essi potrebbero dire diversamente, per coerenza con il programma elettorale della destra, che, al n.4, prevedeva, fra gli altri punti, «Riduzione della pressione fiscale per famiglie, imprese e lavoratori autonomi» e «No a patrimoniali dichiarate o mascherate». E proprio a una “patrimoniale mascherata” fanno pensare le parole del ministro dell’Economia.

 Ma, nel tempo della post-verità, non è necessario che una affermazione sia conforme alla realtà: basta che lo sembri. E le parole in questo aiutano.

 Come nel caso delle accise sul gasolio, per le quali allo studio del Tesoro ci sarebbe un «meccanismo di allineamento» con quelle della benzina. Una possibilità che ha suscitato aspre reazioni. Anche in questo caso, l’accusa al governo è di essere incoerente con le promesse elettorali.

 Su X, allora, Giorgia Meloni scriveva: «Gli italiani continuano a essere spennati alla pompa di benzina… Per forza, le tasse sui carburanti sono tra le più alte al mondo! Abbassare, se non abolire, alcune folli e anacronistiche accise che gravano sugli automobilisti sarebbe un atto di civiltà!». E, l’opposizione ha rispolverato un video del 2019, durante la campagna elettorale, in cui l’attuale premier pretendeva che le accise venissero «progressivamente abolite».

 Ma anche qui il recupero è possibile, grazie alle parole: è stato subito precisato dal governo che non si tratta di un vero e proprio aumento delle accise del gasolio, bensì di una loro «rimodulazione». Miracoli del linguaggio. Vedremo se basteranno a fermare le proteste.

 Il problema delle imposte tra vincoli dell’economia e libere scelte politiche

Davanti a questo quadro, bisogna innanzi tutto constatare che, anche nell’ambito della politica fiscale (non è l’unico) i partiti al governo non stanno riuscendo a mantenere le promesse fatte quando chiedevano il voto agli elettori.

 Non è certo la prima volta nella storia che ciò accade. Prenderne atto serve solo a ricordare che ormai, al di là delle proclamazioni retoriche, di “svolte radicali” – a comandare la linea politica dei governi sono, in larga misura, le regole dell’economia, che impongono loro una sostanziale uniformità di scelte, anche quando le idee e i progetti sono diversi.

 Una seconda osservazione, che controbilancia la precedente, è che, un certo margine di autonomia la politica continua comunque ad averla. Lo dimostra il fatto che, sempre in campo fiscale, il governo in carica due promesse elettorali le aveva mantenute: «Pace fiscale e “saldo e stralcio”», sulla base di un «accordo tra cittadini ed Erario per la risoluzione del pregresso»; ed «Estensione della Flat tax per le partite IVA fino a 100.000 euro di fatturato».

 Anche se entrambe queste scelte appaiono problematiche. La Pace fiscale è accusata da più parti di essere in sostanza un puro semplice condono, che avvantaggia gli evasori fiscali e li incoraggia per il futuro a non pagare le tasse, irridendo e scoraggiano coloro che attualmente versano contributi esorbitanti proprio a causa della immunità di cui godono gli altri.

 Quanto alla Flat tax (“tassa piatta”) – già varata per i titolari di partita IVA con incassi lordi annui non superiori ai 65mila euro (ma di cui si prevede presto l’estensione anche ai redditi superiori) – è un sistema fiscale non progressivo per cui applica una sola aliquota d’imposta, a prescindere dall’ammontare dell’imponibile. Invece di pagare in percentuali proporzionate al loro reddito – e quindi più elevate per quelli che ne hanno uno maggiore – , i contribuenti  rispondono tutti sulla base della stessa percentuale.

 Una riforma che è stata contestata perché appare in contrasto con quello stesso art.53 della Costituzione, citato dal ministro Giorgetti, che, al secondo comma, recita: «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». E che, secondo molti esperti, comporta in sostanza uno sgravio per i redditi più alti.

 La filosofia insita nella lotta contro le tasse

In entrambi i casi, le riforme che la destra aveva annunciato e sta attuando in campo fiscale prestano il fianco al sospetto di essere un favore alle classi più abbienti, in una prospettiva che ha sempre visto con aperta ostilità le tasse.

 Non bisogna dimenticare che i partiti di governo si ispirano tutti, anche se con accentuazioni diverse, alla visione e alla testimonianza vissuta di Silvio Berlusconi (per la cui morte hanno indetto il lutto nazionale), grande nemico delle tasse, al punto da dichiarare che la «giustificazione morale» dell’evasione è insita nel «diritto naturale».

 A questo gli italiani sono stati educati nel corso della Seconda Repubblica, una stagione di cui quella attuale è la naturale continuazione. Si capiscono, allora, lo sconcerto dell’opinione pubblica e l’imbarazzo del governo di fronte alle parole di Giorgetti quando cita l’art.53 della Costituzione (sia pure solo nella sua prima parte), ricordando che «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Ce ne eravamo dimenticati.

 E, quel ch’è peggio, non aderiamo più alla filosofia sottesa a tutto questo articolo – primo e secondo comma – , che era quella della dottrina sociale cristiana, a cui aderiva la maggioranza dei padri costituenti, democristiani, su questo punto d’accordo con i loro colleghi del PCI e del PSI.

 Quello che ormai la grande maggioranza degli italiani pensa è che ognuno ha diritto di tenersi quello che è suo. Questo spiega l’adesione massiccia alla politica del governo nei confronti dei flussi migratori (ormai sempre più condivisa anche dal resto d’Europa, che si ispira alla stessa filosofia), con relativa “difesa delle frontiere”, a tutela del nostro sovrabbondante benessere (vedi gli sprechi spaventosi che esso comporta).

 E spiega anche l’ostilità verso le tasse, percepite come un abuso di uno Stato che – secondo la famosa espressione berlusconiana – vuole “mettere le mani nelle tasche” dei cittadini.

 Magari ci si dedica al volontariato e si fanno offerte alle fondazioni di beneficenza, ma il diritto di proprietà è un dogma indiscutibile e il principio delle tasse ne costituisce tendenzialmente una violazione. Posso regalare il mio, ma non essere obbligato a darlo alla comunità, perché il frutto del mio lavoro, o di quello dei miei genitori (nel caso delle successioni, per cui pure l’Italia è il paradiso degli ereditieri), o del denaro che in qualche modo mi sono guadagnato.

 Ma forse si perde di vista qualcosa…

È praticamente assente, nei più, la consapevolezza che in realtà ognuno di noi può crescere, studiare, lavorare, produrre e consumare, grazie a una società che lo precede, lo accoglie alla nascita e lo accompagna in tutte queste fasi, creando le condizioni per cui le sue potenzialità possono realizzarsi.

 E che essa può farlo solo perché e nella misura in cui i singoli non si limitano a percepirne i benefici, ma contribuiscono al mantenimento dei suoi servizi con quello che posseggono, che perciò non è solo in funzione del loro benessere, ma va impiegato perché anche altri abbiano quello che noi abbiamo ricevuto.

 Come si è molto indebolita, a livello collettivo, l’idea che siamo responsabili degli altri esseri umani, al di là di ogni appartenenza etnica e culturale, e a maggior ragione dei nostri connazionali poveri.

 Secondo i dati ufficiali sono più di cinque milioni. Uomini, donne, bambini, che non hanno neppure il necessario (per loro colpa? Il liberalismo classico lo sosteneva, ma oggi sappiamo che non è così). Il sistema tributario ha il compito, precisamente, di realizzare concretamente questa umana solidarietà.

 In ogni caso, poveri o ricchi, c’è una solidarietà – i cristiani la chiamano fraternità – che rende i nostri destini, lo vogliamo o no, dipendenti tra loro. Perché, come ha scritto nel Seicento il poeta inglese John Donne, «nessun uomo è un’isola, completo in se stesso./ Ogni uomo è un pezzo del continente,/ una parte del tutto./ Se anche solo una zolla fosse portata via dal mare,/ l’Europa ne è diminuita,/ come se lo fosse un promontorio,/ o una magione amica,/ o la tua stessa casa./ Ogni morte d’uomo mi sminuisce,/ perché io sono parte dell’umanità./ E dunque non mandare mai a chiedere/ per chi suona la campana:/ essa suona per te».

 Questa è la filosofia, oggi dimenticata, a cui si ispira la nostra Costituzione. E ora che il ministro Giorgetti ha avuto il coraggio di ricordaci la necessità di fare tutti dei sacrifici per il bene comune, forse, invece di farci prendere dal panico, dovremmo riflettere.

 *Scrittore ed editorialista – Pastorale della Cultura, Diocesi di Palermo

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sabato 22 luglio 2023

LE TASSE SONO UN FURTO?

 


L’ammontare dell’evasione nel nostro paese 

si aggira sui cento miliardi di euro l’anno, 

 che, accumulandosi, è arrivato alla cifra

 astronomica di circa 1.153 miliardi di euro,

 costando 1.700 euro a testa ad ogni italiano.



- di Giuseppe Savagnone*

 

 I nuovi ostaggi

In Italia c’è una nuova categoria di persone discriminate, perseguitate, bisognose di riscatto e di rispetto. Non sono i cinque milioni e mezzo di nostri connazionali che si trovano al di sotto del livello minimo di povertà, o quell’80% di italiani sempre più poveri che, secondo l’ultimo rapporto Oxfam, possiede solo il 31% della ricchezza, a fronte del 41% nelle mani del 5% di ricchi sempre più ricchi, e neppure i circa cinquecentomila migranti irregolari che vivono nel nostro paese ai margini della vita economica e civile.

Sono, invece, i quindici milioni di italiani che non hanno pagato le tasse e che perciò «hanno un conto aperto con l’Agenzia delle Entrate».

Lo va ripetendo da giorni il vicepremier e ministro delle infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini, con un accorato appello al governo e al parlamento perché cessi la guerra nei confronti di queste persone e si instauri finalmente la pace. «Una grande e definitiva pace fiscale tra fisco, agenzia delle entrate e contribuenti italiani è fondamentale per liberare milioni di italiani ostaggio da troppi anni dell’Agenzia delle Entrate, ha ribadito il ministro.

Non ci eravamo mai accorti che ben quindici milioni di nostri connazionali fossero «ostaggio» – un termine usato di solito per le vittime di azioni terroristiche – dell’Agenzia delle Entrate. Mentre sapevamo – questo sì – che l’ammontare dell’evasione nel nostro paese si aggira sui cento miliardi di euro l’anno e che, accumulandosi, è arrivato alla cifra astronomica di circa 1.153 miliardi di euro, costando 1.700 euro a testa ad ogni italiano.

Ma, al di là dell’entità delle cifre sottratte alla comunità da chi non ha pagato in questi anni le tasse – e continua a non farlo – , sono stati i toni usati dal vice presidente del Consiglio a impressionare, per il pathos da cui appaiono pervasi. «Dovrebbero essere aiutati non condannati, altrimenti avremo sempre cittadini di serie B.», ha detto Salvini. Ritorna l’idea delle vittime, da liberare. Da chi? Dallo Stato e dal suo ufficio, l’Agenzia delle Entrate, che, secondo questa narrazione, le tiene «in ostaggio».

Ma davvero le tasse sono una prevaricazione?

Tanto forte è stata questa percezione, da esigere un chiarimento da parte del direttore dell’Agenzia, Ernesto Maria Ruffini: «Il contrasto all’evasione non è volontà di perseguitare qualcuno», ha detto Ruffini. «È un fatto di giustizia nei confronti di tutti coloro che, e sono la stragrande maggioranza, le tasse anno dopo anno le pagano».

 Già, perché molti le tasse le pagano. Tutti i dipendenti pubblici, per esempio, a cui vengono automaticamente addebitate sullo stipendio. Manche tanti privati, che fanno sacrifici per rispettare un obbligo giuridico sancito dalla legge.  

In realtà Salvini si appella a un sentimento fortemente diffuso di ostilità nei confronti delle imposte, che è stato costantemente alimentato dalla destra nel corso di questa Seconda Repubblica. A cominciare dalla vera e propria crociata indetta da Silvio Berlusconi, che per molti anni è stato il leader incontrastato del “Popolo delle libertà” e a cui si deve la celebre espressione che definiva le tasse un «metter le mani nelle tasche degli italiani». Insomma, un furto.

Ad avvalorare la sua versione è stato certamente l’altissimo livello raggiunto in questi anni dal sistema impositivo. Su di esso ha fatto leva il cavaliere: «Se lo Stato ti chiede un quarto di ciò che con tanti sacrifici hai guadagnato, senti che questo è giusto. Se ti chiede il 50%, senti che è un furto. Se ti chiede addirittura il 60%, senti che è una rapina. E questo succede a tanti lavoratori autonomi, ai professionisti, alle piccole imprese».

Da qui una sostanziale solidarietà per gli evasori: «Se si chiede una pressione del 50%, ognuno si sentirà moralmente autorizzato ad evadere».

All’immagine delle tasse come rapina ha fatto eco, recentemente, quella utilizzata dalla premier Giorgia Meloni, che, in un discorso a Catania, le ha paragonate – almeno quelle che colpiscono i piccoli commercianti – a un «pizzo di Stato». Ora, il “pizzo” è l’estorsione che l’organizzazione criminale mafiosa compie ai danni dei cittadini, minacciando, in caso di rifiuto, rappresaglie violente di ogni tipo.

Siamo sulla linea del lessico usato da Salvini – e, prima di lui, dal fondatore della Lega, Umberto Bossi, che parlava di «Roma ladrona» – quando definiva chi non paga le tasse «ostaggi» che «dovrebbero essere aiutati e non condannati».

Non ci facciamo da soli

In realtà, questo modo di impostare la questione risente di un equivoco di fondo. Si parte dalla premessa – falsa – che la società sia costituita da individui che “si fanno da sé”, e che tutto ciò che guadagnano sia frutto del loro sudato lavoro, da cui lo Stato preleva arbitrariamente, per garantire il proprio funzionamento, una quota. Un «male», insomma, sopportabile solo se non supera una certa soglia.

 La verità è che gli sforzi e i meriti dei singoli possono dare il loro frutto solo grazie alla vita comunitaria, le cui strutture e i cui servizi sono assicurati dallo Stato, che ne è soltanto un organo necessario per il suo mantenimento e il suo sviluppo.

 Senza la comunità, il bambino non imparerebbe neppure a camminare eretto e a parlare, come dimostra la triste esperienza dei cosiddetti “baby lupo” cresciuti a contatto solo con gli animali non umani e ritrovati nelle giungle, dopo anni dal loro smarrimento, privi di quelle capacità. Per non dire di tutto ciò che la più elementare crescita umana deve all’accudimento familiare, alle cure mediche, al sistema scolastico, alla sicurezza pubblica, alla organizzazione del mercato del lavoro.

 La dimensione sociale non è un optional che si aggiunge alla nostra identità, ma entra a costituirla fin dalla sua origine – senza ovviamente annullarla – , ed è alla base di ogni sua realizzazione fisica, economica, culturale, spirituale. Non si tratta di un’invenzione della “sinistra” (marxista o post-marxista), tanto che ha sempre avuto un preciso riscontro nella dottrina sociale della Chiesa, che rifiuta la confusione – tradizionale nella cultura dominante nella nostra società neo-capitalista – tra persona e individuo.

 Allo stesso modo, non c’è bisogno di essere «comunisti» – come sono stati e sono ancora bollati quanti chiedono la riduzione delle disuguaglianze economiche e sociali – per sostenere che la proprietà privata, in termini di patrimonio o di reddito, non è un diritto assoluto, ma deve costantemente rifluire dai più ricchi ai più poveri. Lo dicono, ancora una volta, le encicliche sociali dei papi, sulla scia di una millenaria tradizione cristiana che fin dai primi secoli ha equiparato il possesso del superfluo da parte di chi ha troppo a un furto perpetrato ai danni di chi ha troppo poco.

 Le tasse non sono altro che lo strumento di questa redistribuzione. In questo senso parla chiaro l’art. 53 della nostra Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Esse, perciò, non sono un furto. Il furto è non pagarle.

 Non solo: il richiamo costituzionale alla progressività rende estremamente problematico quel punto del programma della destra, vigorosamente sostenuto sempre dalla Lega, che prevede l’introduzione della “flat tax”, dove proprio tale progressività verrebbe eliminata. Una riforma da cui evidentemente hanno da guadagnare solo i ricchi.

 Chi si sottrae al pagamento delle imposte non commette solo un atto illegale, ma si rende responsabile del mancato sviluppo umano di tante persone che solo grazie alla solidarietà degli altri possono fruire di servizi essenziali. «Il nostro è un lavoro essenziale per il funzionamento di tutta la macchina pubblica» – ha ricordato Ruffini -: «se vogliamo garantire i diritti fondamentali della persona indicati e tutelati nella nostra Costituzione – la salute dei cittadini, l’istruzione dei nostri figli, la sicurezza di tutti noi – servono risorse e noi siamo chiamati a raccoglierle a vantaggio di tutti. Anche di chi si sottrae al loro pagamento».

 Meno tasse, meno servizi. Meno servizi pubblici, almeno, per chi non può pagarseli di tasca propria, come sono in grado di fare i ricchi. Perciò, altro che pace fiscale! La guerra a chi non paga è moralmente doverosa. Ma è anche fruttuosa. In definitiva, ha spiegato Ruffini, «i risultati ci stanno dando ragione, visto che nel 2022 abbiamo recuperato nel complesso la cifra record di oltre 20 miliardi di evasione. Il più importante risultato di sempre».

 La pace dei ricchi

Certo, è verissimo che le tasse in Italia in generale sono troppo alte. Ma è molto strano che chi lo denunzia non dica anche che ciò dipende proprio dal fatto che molti non le pagano e che perciò il loro peso ricade su una parte limitata – la più indifesa – della popolazione.

 E l’esperienza dimostra che la logica del condono non fa altro che incoraggiare coloro che per ora le pagano a seguire l’esempio degli evasori, nella fiducia che prima o poi arriverà da parte dello Stato, un’ulteriore misura che consentirà loro di pagare meno del dovuto.

Senza dire che ci sono casi in cui – sempre per impulso della “destra” e con l’acquiescenza della “sinistra” – l’Italia è invece un paradiso fiscale. Uno di questi è diventato di attualità, in questi giorni, nel diluvio di notizie relative all’eredità di Berlusconi.

 La tassa di successione italiana è la più bassa a livello europeo, con aliquote che oscillano tra il 4 e l’8%. In Germania ciò che gli eredi devono pagare allo Stato oscilla tra il 7% e il 50%, in Spagna tra il 34% e l’86%, in Francia tra 5% al 60%, in Gran Bretagna è del 40%. Gli eredi del “cavaliere” pagheranno perciò una cifra immensamente inferiore a quella che dovrebbero in un altro paese.

 La pace, insegnava s. Agostino, è «la tranquillità dell’ordine». Questo vale anche per quella fiscale. Non può essere ottenuta chiudendo gli occhi sul disordine e legittimandolo. Se non si vuole che sia solo la pace dei ricchi.

 *Scrittore ed Editorialista. Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo

 

www.tuttavia.eu

 

 

sabato 22 maggio 2021

PEGGIO PER GLI ULTIMI .........

 


Patrimoniale, una proposta impopolare…

La proposta di tassare le successioni ereditarie, avanzata dal segretario del Pd Enrico Letta, ha suscitato un coro di proteste, ricevendo anche un chiaro dissenso anche da parte del premier Draghi, che l’ha liquidata con un secco: «Questo non è il momento di prendere i soldi dai cittadini ma di darli».

 

-         di Giuseppe Savagnone*

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Dall’interno della maggioranza di governo, è subito intervenuto anche Matteo Salvini: «Sono pienamente d’accordo con il presidente Draghi: l’ultima cosa di cui hanno bisogno gli italiani adesso sono nuove tasse». Aggiungendo anche una sua reazione: «Sono allucinato dal fatto che il segretario del partito democratico possa immaginare una nuova tassa». Molto critica anche Italia Viva che, con il capogruppo al Senato Davide Faraone, definisce la proposta del Pd «fuori dal mondo».

Non parliamo dei quotidiani dell’area di destra… L’eventuale imposta viene definita un «prelievo sui piccoli patrimoni che si lasciano in eredità ai parenti dopo una vita di risparmi» («La Verità» 21 maggio 2021). Nella stessa data «Il Giornale» titola «Sanguisughe a sinistra» («Il Giornale»); «Il Tempo» definisce quella di Letta una proposta che «semina odio mettendo contro ricchi e poveri, giovani e vecchi». A prendere atto della sua impopolarità è un titolo, su questo tema, de «Il Resto del Carlino»: «I democratici si fanno male da soli».

…e che però è in sintonia con l’insegnamento sociale della Chiesa

Ma ascoltiamo Letta: «La proposta è quella di una dote ai 18enni che possa aiutare i giovani a prendere una casa, trovare un lavoro, pagarsi gli studi senza dover subire il divario con i coetanei che vengono da famiglie che possono pagare per loro. Per essere seri va finanziata non a debito (lo ripagherebbero loro), ma chiedendo all’1% più ricco del Paese di pagarla con la tassa di successione». In concreto, il segretario del Pd ha parlato di tassare le successioni superiori a un milione di euro (due miliardi di vecchie lire…). Una cifra che non corrisponde esattamente all’idea del «piccolo patrimonio» accumulato a forza di risparmi.

Ricordo ai miei lettori che non sono certo un fan del Pd. In quasi tutti i miei chiaroscuri non manco di denunziarne la politica e, più a monte, l’impostazione ideologica. Ma qui siamo davanti a una proposta che corrisponde, nella mia ottica, all’insegnamento sociale della Chiesa e che credo doveroso, anche a costo dell’impopolarità, difendere.

Il Paese europeo che tutela di più i patrimoni

Forse è bene ricordare che l’Italia è probabilmente il Paese europeo in cui i grandi patrimoni sono più tutelati. Lo confermano i dati relativi alle imposte di successione secondo il rapporto dell’Ocse, pubblicato pochi giorni fa. La tassa di successione italiana è infatti la più bassa a livello europeo, con aliquote che oscillano tra il 4 e l’8%, con l’esenzione fio a un milione di euro. In Germania la tassa di successione oscilla tra il 7% e il 50%, in Spagna tra il 34% e l’86%, in Francia tra 5% al 60%, in Gran Bretagna è del 40%.

Ciò comporta, evidentemente, un contributo assai scarso degli italiani più benestanti alle finanze dello Stato: nel 2018, 820 milioni ovvero lo 0,05% del Pil In Francia, per esempio, sempre nel 2018 il gettito dell’imposta su successioni e donazioni è risultato pari a 14,3 miliardi di euro, cioè lo 0,61% del Pil: in altre parole, quasi tredici volte quello italiano. A quota 0,20-0,25% del Pil troviamo invece la Germania (6,8 miliardi), il Regno Unito (5,9 miliardi al cambio del 2018) e la Spagna (2,7 miliardi), tutti Paesi che riescono a incassare quasi cinque volte l’Italia e che quindi hanno la possibilità di redistribuire la ricchezza attraverso politiche sociali adeguate (senza indebitarsi).

In concreto, se si considera l’ipotesi di una eredità del valore netto di un milione di euro, lasciata da un genitore al proprio figlio, in Italia la franchigia di un milione è sufficiente a evitare completamente l’imposizione, mentre in Spagna l’imposta ammonterebbe a circa 335mila euro, in Francia a 270mila, nel Regno Unito a 245mila e in Germania a 115mila.

Tutto ciò si verifica in un contesto in cui il 10% più ricco della popolazione italiana (in termini patrimoniali) possiede oggi oltre 6 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione. Confrontando il vertice della piramide della ricchezza con i decili più poveri, il risultato è ancora più sconfortante. Il patrimonio del 5% più ricco degli italiani (titolare del 41% della ricchezza nazionale netta) è superiore a tutta la ricchezza detenuta dall’80% più povero. La posizione patrimoniale netta dell’1% più ricco (che detiene il 22% della ricchezza nazionale) vale 17 volte la ricchezza detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione italiana («Sole24ore», 20 gennaio 2020) «Tre miliardari», si legge nel titolo dell’articolo, «sono più ricchi di sei milioni di poveri».

Gli economisti Tito Boeri e Roberto Perotti hanno calcolato che negli ultimi 20 anni i 5.000 italiani più ricchi (pari allo 0,01% della popolazione) hanno visto «triplicare» la propria quota di patrimoni complessivi, mentre il 50% più povero ha accusato «una riduzione dell’80% della ricchezza netta». E proprio i passaggi ereditari vengono identificati come «il principale motivo di concentrazione della ricchezza».

Né va meglio se dal patrimonio si passa al reddito. L’Italia risulta, tra gli Stati europei più popolosi, quello in cui il divario di reddito tra i ricchi e i poveri è più accentuato: nel nostro Paese il 20% della popolazione con i redditi più alti può contare su entrate più di sei volte superiori a quelle di coloro che rientrano nel 20% più povero. Una forbice che nell’ultimo decennio si è allargata: la differenza era di 5,21 volte nel 2008, è diventata appunto di 6,09 volte nel 2018.

I figli dei ricchi e i figli dei poveri

Le ricadute sulle nuove generazioni sono inevitabili e devastanti. Il nuovo dossier di Oxfam informa che in Italia l’“ascensore sociale” è fermo: un terzo dei figli di genitori più poveri è destinato a rimanere bloccato al piano più basso dell’edificio sociale, mentre il 58% di quelli i cui genitori appartengono al 40% più ricco è in grado di raggiungere posizioni di vertice. Gli sforzi individuali, la dedizione, il talento sono sempre meno determinanti per il miglioramento della propria posizione economica e sociale rispetto alla famiglia d’origine. E si capisce. Le disuguaglianze di reddito dei genitori diventano oggi disuguaglianze di istruzione dei figli che si trasformano, a loro volta, in disuguaglianze di reddito, replicando quelle che già esistevano tra i rispettivi genitori. Come ha commentato Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne di Oxfam Italia: «Viviamo in un’epoca e in un paese in cui ricchi sono soprattutto i figli dei ricchi e poveri i figli dei poveri».

Forse a questo punto si capisce che la proposta di Letta, di aiutare i diciottenni per far sì che anche i più disagiati possano aspirare a un futuro diverso, col (piccolo) contributo economico delle fasce privilegiate, non è così «allucinante» e «fuori dal mondo» come la sia è accusata di essere.

Si continua a parlare di una particolare attenzione da dedicare alle nuove generazioni, particolarmente penalizzate dalla pandemia. Si evita però accuratamente di precisare che le conseguenze non sono state uguali per chi apparteneva a una famiglia di ampie risorse economiche e logistiche e i figli dei poveri. Non è «odio», come ci si vuol far credere, ricordare questa fondamentale differenza e tenerne conto nell’impostare un politica volta a costruire il futuro del nostro Paese. O vogliamo che l’Italia che verrà sia ancora quella delle stridenti disuguaglianze che oggi la lacerano e – quelle sì – spingono i più diseredati, se non all’odio, alla disaffezione verso uno Stato che fa finta di non vederli?

 

*Pastorale Cultura Diocesi Palermo

 

www.tuttavia.eu

 

 

venerdì 16 ottobre 2020

UNA TRAPPOLA SPETTACOLARE

-  Dal Vangelo secondo Matteo  - Mt 22, 15-21

In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiàni, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di' a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l'iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che  

Commento di p. Paolo Curtaz

Una trappola spettacolare ... e anche la vigliaccheria dell’animo umano è spettacolare.

Erodiani e farisei vanno da Gesù per metterlo in difficoltà. Erodiani e farisei, il diavolo e l’acqua santa, chi collabora con i romani e chi li odia, chi li serve e chi li osteggia. Ma hanno un nemico in comune, allora osano. Gesù è il terzo incomodo e va fatto sparire. Contorte logiche umane: i nemici diventano alleati quando scoprono un nuovo nemico. Bisogna pagare la tassa ai romani?  Gli erodiani pensano di sì, i farisei pensano di no, va pagata solo la tassa al tempio.  Cosa dirà il falegname diventato rabbino? Fra i suoi ha scelto un esattore, Matteo e uno zelota, feroce oppositori al dominio romano: si è rovinato con le sue stesse mani, dal loro punto di vista. O, forse, il punto di vista del Nazareno è che nessuno può essere catalogato e definito da ciò che fa o dalle idee che professa… Dirà di pagare il tributo, scontentando l’anima secessionista e diventando un collaboratore? Dirà di non pagarlo unendosi all’infinita schiera dei ribelli populisti? Bel problema!

Restituite

La malevolenza e l’inganno si combattono solo con la scaltrezza e la furbizia. Chiede una moneta a chi si rifiuta di pagare il tributo, il Signore, a coloro, i farisei, che nemmeno toccano il conio con l’effige dell’imperatore per non peccare di idolatria. E loro la prendono dalle tasche per mostragliela. Idioti.
Intransigenti, in teoria, accomodanti, in pratica. Come facciamo anche noi. La frase di Gesù è misteriosa, di difficile comprensione. Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio.
In greco, la lingua dei Vangeli, esiste una sfumatura essenziale.

Restituite.
Piccola differenza, grande cambiamento. Restituite: nulla è vostro. Non possedete nulla, di nulla avete diritto, non accampate crediti verso nessuno. Già qui potremmo fermarci. Perché continuo ad incontrare gente arrabbiata, irritata, polemica, che pensa di essere a credito con la vita. Che scarica sugli altri la colpa della loro infelicità. Che invoca e cerca un colpevole cui addossare la responsabilità dei propri presunti fallimenti. E ne incontro sempre di più. Adolescenti mai cresciuti imbronciati e polemici, aggressivi e ottusi. La colpa è dei romani. E delle tasse. E dei movimenti religiosi che non appoggiano Erode. E del Messia che non viene. E chi dice di essere il Messia non ci piace.

A Cesare

Restituite a Cesare. Cesare è il potere politico, amministrativo, economico. Che oggi ha quasi assunto una forma simbolica. Le multinazionali, i poteri oscuri. Qualcuno che vive per fregarci, per dominarci, per controllare le nostre vite e orientare i nostri bisogni. È vero. In parte. Perché il potere glielo abbiamo dato noi. Votandoli, delegando, comprando i loro prodotti. Restituite a Cesare significa rimboccarsi le maniche: a scuola, nell'associazionismo, nel quartiere, in politica. Facendo nuove tutte le cose, ragionando con una logica alta e altra. Se non portate voi lo stile del Vangelo nel vostro ufficio, nessuno lo farà. E la correttezza, e l’onestà, e la competenza, e la verità. Stare alla porta e giudicare senza fare niente è contro la logica di Dio.

A Dio

Restituite a Dio. Perché tutto ciò che siamo, tutto ciò che viviamo e speriamo, tutto ciò che ci rende veri e liberi, tutto proviene da Lui. Anche con Dio, troppe volte, pensiamo di essere a credito, che ci debba delle ragioni, che si debba spiegare per tutte le cose che non capiamo, per tutto quello che, al mondo, non funziona.
Gesù, invece, ci propone di entrare nella sua logica, che è altra, che è forte, che è oltre. Proveniamo da Dio e a lui andiamo. E il nostro cuore è senza pace fino a quando non dimora in lui. Coltivare la propria vita interiore, accudire la propria anima significa restituire a Dio ciò che siamo, fiorire in Lui, crescere fino all’incontro.

Viviamo, oggi, l’invito di san Paolo: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto? (1Cor 4,6).

 Cerco il tuo volto

 

 

 

domenica 1 marzo 2020

LA CHIESA NON PAGA LE TASSE? UN MITO DA SFATARE

"Il mito della Chiesa che non paga le tasse sugli immobili"

Circolano su Internet e sui giornali accuse su evasioni fiscali della Chiesa e del Vaticano, oltre a falsità sui beni.
 Mons. Nunzio Galantino, presidente Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica (Apsa), sul mensile Vita Pastorale, ribadisce: “Chi denunzia Il Vaticano deve offrire cifre attendibili”.

 di Monsignor Nunzio Galantino

«Un prete non sa rispondere a quanti continuano a ripetergli che il Vaticano ha evaso 5 miliardi di Imu allo Stato». Ha ragione questo prete a trovarsi in difficoltà. Mi troverei in difficoltà anch’io, ma non tanto per mancanza di risposta. Quanto piuttosto per una carenza fondamentale nella domanda, dal momento che chi continua a ripetere che «il Vaticano ha evaso 5 miliardi di Imu allo Stato» non offre nessun dato che permetta di verificare l’attendibilità dell’affermazione. Da chi denunzia la rilevante somma che il Vaticano avrebbe evaso bisognerebbe farsi dire in base a quale legge, su quali immobili e in riferimento a quale periodo è stato quantificato il debito del Vaticano? E poi, strettamente legati a questo tema, circolano su Internet e sui giornali i numeri più disparati circa le proprietà della Chiesa. C’è, addirittura, chi afferma che in Italia un immobile su quattro apparterrebbe al Vaticano o a enti religiosi! Si tratta, evidentemente, di dati fantasiosi e del tutto irrealistici, alimentati dalla leggenda delle immense ricchezze accumulate nel tempo dalla Chiesa cattolica. Di fatto, la maggior parte dei suoi immobili sono chiese, che non rendono nulla e per i quali bisogna, invece, sostenere elevati costi di manutenzione. Torniamo al mito della Chiesa che non paga le tasse sugli immobili. In realtà, non è così e non lo è mai stato.
Su immobili dati in affitto imposte pagate senza sconti o riduzioni
Per l’ennesima volta, bisogna ribadire che sugli immobili dati in affitto – quelli cioè che rendono davvero – da sempre le imposte vengono pagate senza sconti o riduzioni. In passato, le polemiche furono alimentate perché l’Ici (imposta comunale sugli immobili) prevedeva l’esenzione per gli immobili degli enti senza scopo di lucro, integralmente utilizzati per finalità socialmente rilevanti (per esempio, scuole, mense per i poveri o centri culturali). A tale proposito, è bene chiarire che questo tipo di esenzione non riguarda solo gli enti appartenenti alla Chiesa cattolica. Di questa esenzione hanno sempre beneficiato e beneficiano tutte le altre Confessioni religiose, tutti i partiti, tutti i sindacati e tutte le realtà che realizzano le condizioni previste dalla legge. Il ragionamento che giustificava l’esenzione era semplice: i comuni rinunciano all’imposta, perché il vantaggio che la comunità riceve da tali attività è di gran lunga superiore. E questo lo sanno bene i nostri concittadini, i quali apprezzano il bene che viene fatto attraverso le opere caritative. Contrariamente a quanto molti hanno scritto e continuano a scrivere, l’esenzione nonsi è mai applicata alle attività alberghiere, anche se gestite direttamente da istituti religiosi. Esse pagavano totalmente le imposte, mentre l’esenzione si applicava alle sole attività ricettive svolte senza percepirne reddito (per esempio, Case famiglia o strutture per l’accoglienza di profughi e senza tetto).
Si smetta di diffondere generiche e non verificate notizie
Per completezza di informazione vanno ricordate le dichiarazioni di Papa Francesco e quelle dell’allora Presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco. Entrambi, in circostanze diverse, hanno ribadito il preciso dovere di pagare le tasse dovute sugli immobili di proprietà ecclesiastica che svolgono attività commerciali. Io stesso, allora Segretario generale della Cei e in altra circostanza, ho invitato i giornalisti a smettere di diffondere generiche e non verificate notizie. Ho persino chiesto a coloro che fossero a conoscenza di evasione da parte di enti ecclesiastici, di denunciarli subito alle competenti autorità, assicurando il mio appoggio. Non esistono studi seri che – numeri alla mano – quantifichino la misura delle esenzioni di cui hanno goduto gli enti non commerciali e ne determini la percentuale riferibile agli enti ecclesiastici. Con il tempo, le imposte sono cambiate: ora ci sono l’Imu, imposta comunale sugli immobili, e la Tasi, tributo locale per i servizi indivisibili. Essi si aggiungono all’Ires, imposta di carattere nazionale che interessa le persone giuridiche. Agli enti non commerciali l’Ires si applica con l’aliquota ridotta del cinquanta per cento. Essi però, a differenza delle società commerciali, non possono recuperare l’Iva sui lavori e sull’acquisto delle merci.
Tasse pagate nel 2019 in Italia
Come ulteriore contributo alla chiarezza e per focalizzare il discorso su dati certi, riporto le tasse pagate nel 2019 in Italia dall’Amministrazione del patrimonio della Santa Sede, l’ente vaticano che gestisce gli immobili intestati direttamente alla Santa Sede: 5.750.000 euro di Imu e 354.000 euro di Tasi, versati per oltre il novanta per cento al comune di Roma, dove gli immobili si trovano. Se aggiungiamo 3.200.000 euro di Ires, arriviamo a un totale di oltre 9.300.000 euro. Non proprio una bazzecola, tenuto conto che queste somme si riferiscono soltanto alla parte di beni amministrati dall’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica). A queste somme va aggiunto quanto, con gli stessi criteri, pagano la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (Propaganda Fide), il Vicariato di Roma, la Cei, gli Ordini e le Congregazioni religiose. Varrebbe la pena, allora, partire da dati certi per avviare una riflessione seria, mettendo sul tavolo anche il valore di ciò che la Chiesa fa ogni giorno per il bene del Paese. Non certo per la volontà di “contabilizzare” o “censire” la carità, che è stata fatta e continua a essere fatta silenziosamente in favore di tutti i bisognosi. Ma, piuttosto, per chiedere a quanti ci accusano di evasione, di partire dalla realtà dei fatti.