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sabato 26 luglio 2025

I MIGRANTI SONO UNA BENEDIZIONE


Diffuso il Messaggio di Leone XIV per la Giornata del migrante e del rifugiato che si celebrerà agli inizi del prossimo ottobre 

Il Papa: nell’attuale mondo oscurato da guerre e ingiustizie diventano messaggeri di speranza con la loro testimonianza


Pubblichiamo il testo integrale del Messaggio di Leone XIV per la 111ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che sarà celebrata il 4 e 5 ottobre 2025, in occasione del Giubileo del migrante e del mondo missionario, sul tema: « Migranti, missionari di speranza».

Migranti, missionari di speranza

Cari fratelli e sorelle, la 111ª Giornata mondiale del migrante e rifugiato, che il mio predecessore ha voluto far coincidere con il Giubileo dei migranti e del mondo missionario, ci offre l’occasione di riflettere sul nesso tra speranza, migrazione e missione. Il contesto mondiale attuale è tristemente segnato da guerre, violenze, ingiustizie e fenomeni meteorologici estremi, che obbligano milioni di persone a lasciare la loro terra d’origine per cercare rifugio altrove. La generalizzata tendenza a curare esclusivamente gli interessi di comunità circoscritte costituisce una seria minaccia alla condivisione di responsabilità, alla cooperazione multilaterale, alla realizzazione del bene comune e alla solidarietà globale a vantaggio di tutta la famiglia umana. La prospettiva di una rinnovata corsa agli armamenti e lo sviluppo di nuove armi, incluse quelle nucleari, la scarsa considerazione degli effetti nefasti della crisi climatica in corso e le profonde disuguaglianze economiche rendono sempre più impegnative le sfide del presente e del futuro.

Di fronte alle teorie di devastazioni globali e scenari spaventosi, è importante che cresca nel cuore dei più il desiderio di sperare in un futuro di dignità e pace per tutti gli esseri umani. Tale futuro è parte essenziale del progetto di Dio sull’umanità e sul resto del creato. Si tratta del futuro messianico anticipato dai profeti: «Vecchi e vecchie siederanno ancora nelle piazze di Gerusalemme, ognuno con il bastone in mano per la loro longevità. Le piazze della città formicoleranno di fanciulli e di fanciulle, che giocheranno sulle sue piazze. [...] Ecco il seme della pace: la vite produrrà il suo frutto, la terra darà i suoi prodotti, i cieli daranno la rugiada» ( Zc 8,45.12). E questo futuro è già iniziato, perché è stato inaugurato da Gesù Cristo (cfr. Mc 1,15 e Lc 17,21) e noi crediamo e speriamo nella sua piena realizzazione, poiché il Signore mantiene sempre le sue promesse.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna: « La virtù della speranza risponde all’aspirazione alla felicità, che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo; essa assume le attese che ispirano le attività degli uomini» (n° 1818). Ed è certamente la ricerca della felicità – e la prospettiva di trovarla altrove – una delle principali motivazioni della mobilità umana contemporanea. Questo collegamento tra migrazione e speranza si rivela distintamente in molte delle esperienze migratorie dei nostri giorni. Molti migranti, rifugiati e sfollati sono testimoni privilegiati della speranza vissuta nella quotidianità, attraverso il loro affidarsi a Dio e la loro sopportazione delle avversità in vista di un futuro, nel quale intravedono l’avvicinarsi della felicità, dello sviluppo umano integrale. Si rinnova in loro l’esperienza itinerante del popolo di Israele: «O Dio, quando uscivi davanti al tuo popolo, quando camminavi per il deserto, tremò la terra, i cieli stillarono davanti a Dio, quello del Sinai, davanti a Dio, il Dio d’Israele. Pioggia abbondante hai riversato, o Dio, la tua esausta eredità tu hai consolidato e in essa ha abitato il tuo popolo, in quella che, nella tua bontà, hai reso sicura per il povero, o Dio» ( Sal 68, 8-11).

In un mondo oscurato da guerre e ingiustizie, anche lì dove tutto sembra perduto, i migranti e i rifugiati si ergono a messaggeri di speranza. Il loro coraggio e la loro tenacia è testimonianza eroica di una fede che vede oltre quello che i nostri occhi possono vedere e che dona loro la forza di sfidare la morte nelle diverse rotte migratorie contemporanee. Anche qui è possibile trovare una chiara analogia con l’esperienza del popolo di Israele errante nel deserto, il quale affronta ogni pericolo fiducioso nella protezione del Signore: « Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste che distrugge. Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio; la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. Non temerai il terrore della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno.» ( Sal 91,3-6).

I migranti e i rifugiati ricordano alla Chiesa la sua dimensione pellegrina, perennemente protesa verso il raggiungimento della patria definitiva, sostenuta da una speranza che è virtù teologale. Ogni volta che la Chiesa cede alla tentazione di “sedentarizzazione” e smette di essere civitas peregrina – popolo di Dio pellegrinante verso la patria celeste (Cfr. Agostino, De civitate Dei, Libro XIVXVI), essa smette di essere “nel mondo” e diventa “del mondo” (cfr. Gv 15,19). Si tratta di una tentazione presente già nelle prime comunità cristiane, tanto che l’apostolo Paolo deve ricordare alla Chiesa di Filippi che «la nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose.» ( Fil 3,20-21).

In modo particolare, migranti e rifugiati cattolici possono diventare oggi missionari di speranza nei Paesi che li accolgono, portando avanti percorsi di fede nuovi lì dove il messaggio di Gesù Cristo non è ancora arrivato o avviando dialoghi interreligiosi fatti di quotidianità e di ricerca di valori comuni. Essi, infatti, con il loro entusiasmo spirituale e la loro vitalità possono contribuire a rivitalizzare comunità ecclesiali irrigidite ed appesantite, in cui avanza minacciosamente il deserto spirituale. La loro presenza va allora riconosciuta ed apprezzata come una vera benedizione divina, un’occasione per aprirsi alla grazia di Dio che dona nuova energia e speranza alla sua Chiesa: « Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli”» ( Eb 13,2).

Il primo elemento dell’evangelizzazione, come sottolineava san Paolo VI, è generalmente la testimonianza: «tutti i cristiani sono chiamati e possono essere, sotto questo aspetto, dei veri evangelizzatori. Pensiamo soprattutto alla responsabilità che spetta agli emigranti nei Paesi che li ricevono» ( Evangelii nuntiandi, 21). Si tratta di una vera missio migrantium - missione realizzata dai migranti - per la quale devono essere assicurate un’adeguata preparazione e un sostegno continuo frutto di un’efficace cooperazione inter-ecclesiale.

Dall’altro lato, anche le comunità che li accolgono possono essere una testimonianza viva di speranza. Speranza intesa come promessa di un presente e di un futuro in cui sia riconosciuta la dignità di tutti come figli di Dio. In tal modo migranti e rifugiati sono riconosciuti come fratelli e sorelle, parte di una famiglia in cui possono esprimere i loro talenti e partecipare pienamente alla vita comunitaria.

In occasione di questa giornata giubilare in cui la Chiesa prega per tutti i migranti e i rifugiati, voglio affidare tutti coloro che si trovano in cammino, così come coloro che si prodigano per accompagnarli, alla materna protezione della Vergine Maria, conforto dei migranti, affinché mantenga viva nel loro cuore la speranza e li sostenga nel loro impegno di costruzione di un mondo che assomigli sempre di più al Regno di Dio, la vera Patria che ci aspetta alla fine del nostro viaggio.

Leone XVI


www.avvenire.it 

 

sabato 19 luglio 2025

SIAMO FORESTIERI, DI PASSAGGIO


 Il pellegrinaggio giubilare – sulla scia dell’esperienza di Cristo – dev’essere, perciò, una parabola spirituale che illumina il senso della vita del cristiano


- di Gianfranco Ravasi 

 Che cos’è la nostra vita? Il cammino di un viandante: appena ha raggiunto la meta, gli si aprono le porte, abbandona gli abiti da viaggio e il bastone da pellegrino ed entra in casa sua».

Così un mistico russo, Giovanni di Kronstadt (1828-1908), rappresentava la parabola della vita sotto il simbolo di un pellegrinaggio. Tra l’altro, com’è noto, uno dei testi più popolari di quella spiritualità sono i Racconti di un pellegrino russo di autore anonimo. Di fronte all’incessante flusso dei pellegrini a Roma per l’Anno Santo, è spontaneo riprendere il filo di questo tema che abbiamo proposto nella precedente puntata del nostro itinerario giubilare. 

Abbiamo già seguito l’Israele biblico pellegrino verso la Terra promessa nell’esodo dall’Egitto. Il segno più alto, una volta entrati in essa, sarà il pellegrinaggio a Sion, cioè al tempio, al culto, alla comunione col Signore, come ammoniva la Legge: «Tre volte l’anno salirai per comparire alla presenza di Dio» (Esodo 34,24). E Geremia ribadirà: «Su, saliamo a Sion, andiamo al Signore Dio nostro!» (31,6). 

Si configura persino una sorta di libro del pellegrino: è un fascicolo di 15 Salmi, dal 120 al 134, intitolati “Canti delle ascensioni”, non solo perché la Città santa è su un monte di 800 metri ma anche perché il fedele nella preghiera “ascende” verso Dio in un dialogo e in un abbraccio d’amore. 

Suggeriamo, però, la lettura di un altro canto di Sion, il Salmo 84, che raffigura dal vivo il pellegrinaggio e l’arrivo al tempio. Là l’orante contempla il volo felice degli uccelli che hanno i nidi nel santuario, simbolo della sorte fortunata di coloro che, soprattutto i sacerdoti, hanno in quel luogo sacro una residenza perpetua e non temporanea (come il pellegrino) in intimità con Dio. Nella folla di quei pellegrini possiamo identificare un volto, quello di Gesù. Già da neonato era stato offerto al Signore in Sion (Luca 2,22-24). A 12 anni era ritornato nel tempio in compagnia dei suoi genitori, dichiarando che quella è la «casa del Padre suo» (2,49). 

Là ripetutamente egli accede, partendo dalla lontana Galilea, come ci ricorda il Vangelo di Giovanni che pone spesso il fondale del tempio e delle varie solennità ebraiche per le rivelazioni di Cristo in parole e in segni. Ma è in particolare Luca a descrivere, nel cuore del suo Vangelo (9,51- 19,28), una lunga marcia di Gesù pellegrino verso Gerusalemme. La sua ultima meta non sarà il Golgota con la crocifissione, ma il monte dell’ascensione, ossia il suo ritorno al Padre come aveva annunciato nel Cenacolo: «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre» (Giovanni 16,28). 

Il pellegrinaggio giubilare – sulla scia dell’esperienza di Cristo – dev’essere, perciò, una parabola spirituale che illumina il senso della vita del cristiano. Già il testo basilare biblico del Giubileo, il c. 25 del Levitico, aveva una norma emblematica: «Le terre non si possono vendere per sempre, perché la terra è mia – dice il Signore – e voi siete presso di me forestieri e di passaggio» (25,23). E la Lettera agli Ebrei concluderà: «Non abbiamo quaggiù una città stabile ma andiamo in cerca di quella futura» (13,14).

 Famiglia cristiana 

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giovedì 26 giugno 2025

PELLEGRINI PER LA PACE


A piedi lungo la via Francigena dove cadono a terra tutti i pregiudizi

Il cammino insegna l’umiltà del confronto con chi è diverso da te. 

La guerra nasce spesso dall’incomprensione.

Riuscire a parlare col nemico è l’educazione sentimentale che il Nazareno propose

Da Milano a Roma, in un viaggio povero, lento e condiviso, lungo la Via Francigena, per raggiungere piazza San Pietro e consegnare una lettera al Papa. È il Cammino della Pace che ha visto protagonisti i ragazzi delle scuole Penny Wirton, una rete di 65 associazioni i cui docenti volontari insegnano gratuitamente italiano ai migranti. Eraldo Affinati, scrittore e fondatore nel 2008 con la moglie Anna Luce Lenzi della prima Penny Wirton romana, racconta ogni settimana una tappa di questo cammino.

 

-         di ERALDO AFFINATI

-          Ci svegliamo all’alba nel convento dei Cappuccini a Pontremoli: la città dei ponti tremolanti. Una schiera di palazzi sgranati sul fiume Magra lungo la riva sassosa che scende dai monti a strapiombo in mezzo alle case. Mentre mi aggiro nei lunghi corridoi che un tempo ospitavano le vecchie celle dei monaci e ora sono adibite all’accoglienza dei pellegrini, ho l’impressione di sentir risuonare da lontano le preghiere secolari che vennero pronunciate fra queste mura da individui drammaticamente sospesi tra cielo e terra, nel comune auspicio della Gerusalemme Celeste, la città alla quale Gesù piangendo si rivolse così: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stato visitata.” (Luca, 19, 41). I n una sala al pianterreno, vicino a quello che una volta era forse il refettorio, sono appese due vecchie carte geografiche: una riproduce il Bel Paese che stiamo attraversando; l’altra, nella sua gran parte, fotografa uno Stato che non c’è più: l’Unione delle Repubbliche Sovietiche. Osservando la prima mi torna in mente Francesco Petrarca: “Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno / a le piaghe mortali / che nel bel corpo tuo sì spesso veggio, / piacemi almen che ‘ miei sospir’ siano quali / spera ‘l Tevero et l’Arno, / e ‘l Po / dove doglioso et grave or seggio.” Guardando la seconda non posso non ripensare al conflitto ucraino in pieno corso, soprattutto quando l’occhio mi cade su Kharkov, scritto nella grafia russa, che visitai due anni fa: ancora conservo la memoria della piccola Mascia, una bambina di otto anni, costretta a studiare nel bunker insieme alle sue compagne, per mettersi al riparo dai bombardamenti.

Torniamo su a riprendere gli zaini. Nello sgabuzzino incrocio Fatima, anziana marocchina impegnata a rifare le stanze: sembra uscita da una medina di Fez o Marrakech, parla a stento l’italiano, quando le dico che porta il nome di una delle figlie del profeta, scopre con un sorriso rugginoso i suoi denti guasti. È un’apparizione magica in questo scenario di cristianesimo antico, nel giorno in cui si apre il conclave. Forse lei custodisce nel cuore, a sua insaputa, una speranza di riconciliazione fra universi contrapposti e talvolta recalcitranti, incarnando l’Islam col quale il poverello d’Assisi cercò un rapporto non effimero, ancora oggi vivo e pulsante negli occhi dei nostri studenti arabi, al tempo stesso indisciplinati e ribelli, difficili da contenere nella dimensione didattica, eppure stretti l’uno all’altro da un patto di fratellanza quasi ancestrale attraverso cui l’educatore consapevole può trovare un varco d’accesso. T alvolta, quando sono di fronte a loro, difficili da contenere, penso a Charles de Foucauld, ucciso nell’eremo di Tamanrasset da un giovane predone impaurito. Secondo la biografia di Michel Carrouges, l’omicida si chiamava Sermi Ag Thora, aveva quindici anni: “Rimasto solo, vicino al padre, Sermi perde la testa. Pensa che il prigioniero voglia scappare. Gli tira un colpo a bruciapelo. Il proiettile entra dall’orecchio destro ed esce dall’occhio sinistro. Con un colpo solo il padre cade, come fulminato. Il suo corpo, legato, si affloscia lentamente. Il proiettile si è conficcato nel muro della torre, a sinistra dell’entrata del fortino.” La guerra nasce spesso dall’incomprensione, dall’incredulità, dall’equivoco, dal fraintendimento.

Parlare con il nemico

Riuscire a parlare col nemico, pronti a varcare gli steccati delle nostre certezze difensive, lasciandosi trafiggere dal punto di vista altrui, è l’educazione sentimentale che il Nazareno propose ai suoi discepoli dal primo momento in cui li vide, sulle sponde del lago Tiberiade, fin quasi sul Golgota, rinunciando di fronte a loro ad ogni possibilità di salvezza ultraterrena. Ecco perché mettersi alla sua sequela, scrisse Dietrich Bonhoeffer, significa accettare il limite che la realtà ci impone: “Il cristiano deve rimanere nel mondo. Non a causa della bontà che Dio ha conferito al mondo, neppure perché sia responsabile delle vicende del mondo, ma a causa del corpo di Cristo, che si è fatto uomo, della comunità.”

All’ora di pranzo abbiamo il treno regionale per Lido di Camaiore con cambio a Vezzano Ligure dove contiamo di arrivare in poche ore: lì ci aspetta il marito di Primetta, responsabile della Penny Wirton di Massarosa, non distante da Lucca, dove sono in programma diversi incontri. Il primo avviene alla Casa del Pellegrino di Valpromaro, famosa organizzazione parrocchiale di accoglienza per i viandanti diretti a Roma. Mirco Lazzari, uno dei che prestano servizio in questa sede, ci racconta le storie delle tante persone negli anni passate da qui: dal signore olandese che aveva smarrito la strada al tedesco afflitto dal morbo di Parkinson fino all’esploratrice più anziana, Emma Morosini di Castiglione delle Stiviere, deceduta a 96 anni dopo l’ultimo pellegrinaggio a Czêstochowa. Chi cammina scopre gli ingranaggi del suo motore interiore, mostrando dove trova alimento. Armando, pensionato impegnato a tener viva questa impresa, quando gli chiedo di spiegarmi la propria motivazione al volontariato, mi regala, con scelta sorprendente, una terzina dantesca: “Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?” (Canto XIX del Paradiso). Come dire che sulla via Francigena cadono a terra tutti i pregiudizi: il cammino ti insegna l’umiltà del confronto con chi è diverso da te.

Parole di fratellanza

Al centro civico di Massarosa e poi nell’auditorium della scuola media ci vengono incontro ragazzi nigeriani, senegalesi, albanesi, magrebini: ognuno si presenta con la sua parola di fratellanza, frutto spesso deturpato da esperienze traumatiche perché molti di questi adolescenti hanno ancora le cicatrici delle ferite ricevute, eppure sembrano averle superate, lanciati come sono verso un futuro a loro stessi ignoto. Ecco Anastasia, liceale figlia di genitori polacchi, che, come tante sue coetanee, svolge le ore dei Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento) insegnando la nostra lingua ai minorenni non accompagnati. Le chiedo cosa provi nel farlo. Risponde dicendo che è come se parlasse a una piccola se stessa perché anche lei, pur nata in Toscana, essendo di madre lingua straniera, ha dovuto faticare per sentirsi uguale alle altre. Ascoltandola raccontare la sua esperienza didattica, come non ripensare a Don Lorenzo Milani? “D’ogni libro c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica a accorgersi che uno era un po’ più grande e insegnava. Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi fin dal primo giorno che avrei insegnato anch’io.”

 ww.avvenire.it

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martedì 15 aprile 2025

PELLEGRINI DI SPERANZA

 


Auguri di Pasqua Anno Santo 2025


Viviamo rinnovando

 il nostro quotidiano cammino

 di conversione

 

-         di P. Giuseppe Oddone*

-          In questo Anno Santo 2025, segnato purtroppo ancora da tante sofferenze causate dalle guerre e dalle turbolenze internazionali, la Pasqua ci apre in modo particolare alla speranza, perché ci porta il più gioioso annuncio della nostra fede: Cristo è risorto da morte!

La storia di Gesù non finisce con la sua crocifissione e la sua sepoltura, anzi la presenza di Gesù riesplode con potenza divina nel primo giorno dopo il sabato. Dobbiamo essere pertanto “pellegrini di speranza”, di quella virtù teologale che lega il nostro impegno terreno, stimolato dalla grazia divina, al nostro destino eterno.

La speranza è l’attesa certa della gloria futura, della vittoria di Cristo sul male e sul peccato, prodotta in noi dalla presenza dello Spirito: la speranza è “grazia di operare”, qui e ora, nel concreto della vita, mettendo a disposizione del regno di Dio tutte le nostre energie fisiche e spirituali.

La speranza cristiana, secondo le parole del nostro poeta Dante (Canto XXV del Paradiso), ti “innamora”, ossia anima di amore tutta la tua attività per il Bene, “infiora la mente”, ti “diletta”, ossia ti riempie di gioia come in una perenne primavera, è una “luce” che discende nella tua vita da molte stelle, ossia da tanti passi della Parola di Dio, è una “stilla”, una goccia continua di grazia, azione dopo azione, che riempie, colma il nostro cuore, fino a che diventa una “pioggia” che riversiamo su quanti sono in contatto con noi.

Riflettiamo brevemente sui motivi pasquali della speranza cristiana. Gesù Risorto ci porta una ricchezza di doni, per i quali dobbiamo sempre ringraziare. Prima di tutto diffonde la pace e la gioia nel cuore, perché Egli ci svela il senso del nostro nascere, del nostro vivere, del nostro morire, del nostro risorgere, dato che nella vita, nella morte ed oltre la vita siamo del Signore. Ci illumina sul senso del nostro soffrire, perché la sofferenza passa, ma l’aver sofferto con amore è eterno e Gesù Crocifisso e Risorto ci mostra, per farsi riconoscere, le sue piaghe gloriose. Ci invia per le strade del mondo in missione perché diffondiamo e testimoniamo il lieto annuncio che Egli vive in mezzo a noi. Se confessiamo nella fede la sua Risurrezione Egli cancella i nostri peccati, ci riempie del soffio potente del suo Spirito, ci immerge nella nuova creazione, facendo di noi persone nuove.

Viviamo perciò l’Anno Santo del Giubileo, rinnovando il nostro quotidiano cammino di conversione! La risurrezione di Gesù è un fatto reale, anche se non può essere dimostrato con le categorie storiche, perché rimane un mistero divino che supera la nostra intelligenza. Vi si accede soltanto con la fede, che tuttavia ha dei concreti riferimenti storici. La tomba di Cristo fu trovata vuota dalle donne e dai discepoli, e questo fu anche constatato dagli avversari di Gesù. Le prime testimonianze di fede che troviamo nei Vangeli sono semplicissime: “Il Crocifisso è risorto! Non è qui. Vi precede in Galilea!” (Mc. 16, 6-7). La Galilea è un luogo teologico per indicare la nostra vita quotidiana, fatta di lavoro, di fatica, di appelli del Signore Risorto.

 I primi credenti completarono la formula di fede: “E’ risorto secondo le Scritture” (1 Cor. 15, 3). Tutta la Parola di Dio dell’Antico e del nuovo Testamento converge verso questo punto focale. Il primo annuncio di Pietro nel giorno di Pentecoste è tutto centrato sulla risurrezione di Gesù: “ Questo Gesù Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni” (Atti 2, 32). La stessa testimonianza danno anche Paolo e tutti gli altri apostoli nella loro predicazione e nelle loro lettere indirizzate alle prime comunità cristiane. Infine confermano la nostra fede le apparizioni del Risorto alle donne ed ai discepoli, narrate in tutti e quattro i Vangeli. Sono apparizioni sensibili, perché coinvolgono gli occhi, l’udito, il tatto e tutto lo spettro delle emozioni.

Gesù prende l’iniziativa di apparire, si fa riconoscere mostrando le sue piaghe e facendole toccare, condividendo il pasto; e poi si fa continuare perché invia chi lo ha riconosciuto a diffondere questo lieto annuncio. Spesso il riconoscimento non è immediato, ma avviene attraverso un cammino, una riflessione sulle Scritture e la frazione del pane (i discepoli di Emmaus), la pronuncia del nome personale da parte di Gesù in un gesto di amore (Maria Maddalena), una pesca miracolosa all’alba al comando di uno Sconosciuto dopo una notte di inutile fatica (Giovanni e Pietro).

Ogni domenica, celebrando l’Eucaristia, noi professiamo la nostra fede in Gesù Risorto, dichiariamo la nostra speranza nella venuta di Gesù nella nostra vita, nella storia, alla fine dei tempi, siamo coinvolti nel suo mistero pasquale di morte, risurrezione ed ascensione al cielo, riceviamo ancora il dono del suo Spirito, ci nutriamo del suo corpo e del suo sangue, costruiamo la Chiesa, madre dei Santi.

Comprendiamo allora la testimonianza di alcuni martiri africani (Saturnino e compagni, morti nel 303 durante la persecuzione di Diocleziano) che, arrestati mentre celebrano l’eucaristia affermano nel processo: “Sine dominico vivere non possumus”, cioè non possiamo vivere senza la celebrazione domenicale della Pasqua del Signore, senza partecipare al mistero della sua morte e risurrezione, senza nutrirci del suo corpo dato e del del suo sangue versato per noi!

 In sintesi la Pasqua ci aiuta a essere testimoni della speranza che è in noi, ci conferma nella fede che si nasce, si vive, si muore, si risorge nell’amore per – con – in Qualcuno, Gesù Risorto, il “Possente, con segno di vittoria coronato!” (Inf. IV, 53-54).

 *Assistente Ecclesiastico Nazionale AIMC e UCIIM


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mercoledì 9 agosto 2023

SCUOLA, IN CAMMINO O ASFITTICA

SCUOLA/ Scelga se continuare a morire o seguire Leopardi e il Papa

-         di Corrado Bagnoli

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Alla Gmg che si è appena conclusa a Lisbona, il Papa ha citato il poeta portoghese Pessoa secondo cui “essere insoddisfatti è essere uomini”. Ai giovani che lo stavano a sentire ha poi detto “non dobbiamo aver paura di sentirci inquieti, di pensare che quanto facciamo non basti. L’incompletezza caratterizza la nostra condizione di cercatori e di pellegrini. Siamo in cammino. Non siamo malati, siamo vivi! Preoccupiamoci quando, al posto delle domande che lacerano, preferiamo le risposte facili che anestetizzano”.

 Forse aveva in mente anche un altro poeta, quel Leopardi che certamente potrebbe rispondere in pieno all’identikit del giovane contemporaneo fatto dal Papa. Viaggiatori, pellegrini, cercatori. E per questo costruttori del presente e del futuro.

 E gioiosamente pensando ad alcuni dei suoi ex alunni che stanchi e trasfigurati sarebbero scesi dal pullman che li riportava a casa dal Portogallo, il mio amico Giuseppe – che ormai sta in ferie sempre e non ha bisogno dell’estate per staccare dalla scuola – seduto al tavolo di uno dei pochi bar rimasti aperti in questo agosto cattivo, focoso, ventoso e piovoso, insieme a me e ad Alice – che le ferie invece le vede già finire e pensa al collegio del primo settembre – ha quasi cinicamente commentato: “Certo. Scuola permettendo”.

 Non stacca mai, neanche adesso che è in pensione. Non demorde e continua ad avere qualche perplessità. Con Alice che gli dà corda, anche se adesso la scuola è lei.

 Sì, risponde alla mia obiezione, sono io se mi lasciano essere la scuola. Ma non è mai così, è sempre meno così. A me viene in mente ancora Leopardi: non che si possa parlare di una sua teoria organica sulla scuola e sull’educazione – del resto non lo si potrebbe dire di niente che riguardi Leopardi – ma nello Zibaldone attacca una serie di riflessioni che sembrano calzare a pennello per l’occasione. Nei pensieri 264 e 266 dell’ottobre del 1820, il giovane inquieto e insoddisfatto Leopardi bolla la scuola dell’età classica come quella dell’indottrinamento: i maestri insegnavano le loro ricette e i discepoli le riproponevano tali e quali. Quelli più intelligenti andavano di maestro in maestro e poi si tenevano un po’ di posto per una loro invenzione, creando una scuola nuova, una cucina diversa. Nel suo tempo invece tutte le “scuole seguono gli stessi principii e non si diversificano, se non per la diversa disciplina che professano” : Leopardi, sempre acuto e profetico, osserva che essa è ormai giunta a una sorta di omologazione, a metodi didattici uniformati e addirittura a una formazione standardizzata per i nuovi maestri.

 Non sono forse le stesse cose che dice Alice della scuola di adesso? Preoccupata ancora di vedere un’estate in cui ministri e presidi si preoccupano di indicare linee programmatiche, giri di vite su condotta e comportamento, concorsi e chiacchiere su come riempire le cattedre e sistemare le cose. Ma le cose della scuola, dice Alice, non sono quelle di un’azienda, di un processo di produzione, in cui si possono immaginare formule per sistemare le cose. È agosto e siamo al bar e sappiamo bene che nessuno può dare risposte, ma magari si potrebbe cominciare a pensare in un modo diverso, tanto per capire da dove cominciare.

 Giuseppe allora mi chiede che cosa direbbe il giovane Leopardi – fa così perché un po’ lo ha infastidito il rumore intorno alla Gmg e ai giovani di cui mai a nessuno frega qualcosa fino al prossimo evento o al prossimo disastro – immaginando che se ne stia lì intorno al tavolo con noi, che cosa suggerirebbe?

 Ma lo sa bene anche lui che il poeta è pieno di contraddizioni, domande e inquietudini. E ha pochi consigli da dare. Comunque Leopardi riconosce in altri passaggi l’importanza di un esercizio frequente, della ripetizione, del persistente contatto con i testi che contribuiscono a creare il talento. Sembra che questo coincida con la didattica tout court: “L’insegnare non è quasi altro che assuefare” e “L’imparare non è altro che assuefarsi”. Leopardi sembrerebbe avere piena fiducia in una metodologia capace di plasmare la persona: l’assuefarsi ad assuefarsi leopardiano assomiglia un po’ a quell’imparare a imparare che viene raccomandato dai pedagogisti di oggi?

 Senonché, comunque, il suo giudizio generale sull’educazione è negativo, perché essa è basata su divieti e imposizioni, ed è addirittura contraria a quanto chiede la natura: il percorso educativo – e naturalmente parla del suo, della sua esperienza e per fortuna non è quella di tutti oggi alla scuola – è una specie di supplizio volto a negare le istanze belle e il desiderio di felicità che albergano nei giovani. Se da un lato il poeta sembra proclamare la necessità della scuola intesa come esercizio e ripetizione, dall’altro lato rivendica un’educazione come esperienza viva e libera che nessuna scuola sembra in grado di garantire.

 Attuale, profetico e problematico come sempre: ancora oggi, soprattutto oggi, la scuola deve scegliere se essere un percorso educativo improntato alla libertà o configurarsi come un semplice processo formativo il cui esito pare già scritto, quando va bene. La scuola deve decidere se è Alice e i suoi alunni, protagonisti come li vuole il Papa. O continuare a morire pensandosi altro.

 Il Sussidiario

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sabato 1 giugno 2019

SIAMO PELLEGRINI IN CAMMINO VERSO IL DOMANI

Papa Francesco: “ .... Essere pellegrini significa sentirsi chiamati e spinti a camminare insieme chiedendo al Signore la grazia di trasformare vecchi e attuali rancori e diffidenze in nuove opportunità per la comunione; significa disancorarsi dalle nostre sicurezze e comodità nella ricerca di una nuova terra che il Signore vuole donarci. Pellegrinare è la sfida a scoprire e trasmettere lo spirito del vivere insieme, di non aver timore di mescolarsi, di incontrarci e aiutarci. Pellegrinare significa partecipare a quella marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, carovana sempre solidale per costruire la storia (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 87). Pellegrinare è guardare non tanto quello che avrebbe potuto essere (e non è stato), ma piuttosto tutto ciò che ci aspetta e non possiamo più rimandare. Significa credere al Signore che viene e che è in mezzo a noi promuovendo e stimolando la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità e di giustizia (cfr ibid., 71). Pellegrinare è l’impegno a lottare perché quelli che ieri erano rimasti indietro diventino i protagonisti del domani, e i protagonisti di oggi non siano lasciati indietro domani. E questo, fratelli e sorelle, richiede il lavoro artigianale di tessere insieme il futuro. ....”