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venerdì 7 marzo 2025

GUARDANDO IL CIELO SENZA DIMENTICARE LA TERRA


LA RISCOPERTA 

DEL VALORE UNICO DELL'ALTRO

Nella ricerca di Mancini storia ed escatologia si incrociano e i bisogni concreti degli uomini non sono mai messi in ombra rispetto all’indagine teoretica e alla riflessione teologica .

        

-         di ELIO CAPPUCCIO

Italo Mancini (Schieti, 4 marzo 1925 - Urbino, 7 gennaio 1993), di cui ricorre il centenario della nascita, diceva di sé di essere un filosofo dei “doppi pensieri”. Nella sua ricerca, infatti, storia ed escatologia si incrociano e i bisogni concreti degli uomini non sono mai messi in ombra rispetto all’indagine teoretica e alla riflessione teologica. Ecco perché, in molte sue pagine, rivive quel passo dei Prolegomeni ad ogni futura metafisica in cui Immanuel Kant ammetteva di sentirsi a suo agio nella “fertile bassura” dell’esperienza piuttosto che fra le alte torri della metafisica, circondate da forti venti.

Nella primavera del 1985 Mancini curò una rubrica radiofonica, I Giorni, e introdusse il primo incontro citando un brano di Karl Barth, in cui il teologo sosteneva che il nutrimento del cristiano deve essere rappresentato non solo dalla Bibbia, ma anche dai giornali. Se la Bibbia offre una visione globale, i giornali ci presentano «la concretezza delle opere e dei giorni », e in questo scambio di esperienze e di linguaggi, scriveva Barth, «fedeltà a Dio e fedeltà alla terra» si integrano.

Mancini pensava che per costruire il futuro fosse necessario prendere in esame la relazione che intercorre tra il senso e il significato. Se il primo si ferma al dato, il secondo indica, invece, «ciò per cui si decide», aprendo alla progettualità. Queste considerazioni rinviavano, a suo avviso, al rapporto tra sogno diurno e sogno notturno, affrontato da Ernst Bloch. La dimensione onirica si volge ai dati del passato e, come dimostra la psicoanalisi freudiana, richiede un’ermeneutica archeologica, ma può anche, come nel sogno diurno blochiano, assumere una “coscienza anticipante”, schiudendo uno spazio utopico che annuncia profeticamente il futuro.

In questo scarto, tra ciò che è, il dato, e ciò verso cui tendiamo, che non è ancora, emergono la speranza e il tempo escatologico. L’utopia, ha scritto in proposito Jürgen Moltmann, può essere superata dalla speranza cristiana, «andando nella direzione in cui la promessa di Dio orienta l’uomo nei confronti della miseria del creato». Moltmann ritiene che tra l’escatologia cristiana e il principio-speranza di Bloch possa instaurarsi un dialogo fecondo, in cui emergerà, però, l’impossibilità di compiere, con l’intelletto umano, quel che Dio ha promesso. La sintesi dialettica teorizzata sui libri e nei programmi rivoluzionari non è stata realizzata , scrive Mancini, perché «il sudore della gente, il sangue degli innocenti e l’olocausto delle comunità crocifisse, la questione operaia e la nascita della pace sono rimasti fuori da questo cristallo purissimo dell’idea».

Heller abbiano dimostrato che allo “stato di fusione” rivoluzionario segue inevitabilmente una fase burocratica e poliziesca. La dialettica dei gruppi che, secondo l’ultimo Sartre, avrebbe portato con sé quella riconciliazione negata nei socialismi reali, non si è dimostrata una via percorribile, lasciando la questione irrisolta. Tutto ciò non può, secondo Mancini, far venir meno le ragioni di una cultura della riconciliazione, che dovrà prender corpo attraverso le “convergenze etiche”. Il fine totalizzante della dialettica nasconde in sé una volontà di dominio che deve essere spezzata, scrive Mancini, per porre in primo piano «l’irriducibilità sovrana dell’altro, espressa dal volto».

Se nel mondo classico prevaleva l’ontologia e nell’età moderna la soggettività, nell’età futura l’elemento centrale «dovrà diventare l’altro e il suo volto, biblicamente il prossimo», sostiene Mancini, dimostrando la sua vicinanza al pensiero di Emmanuel Lévinas. Mette dunque in guardia da quelle filosofie che tematizzano l’ineffabilità dell’altro, alimentando una logica della disgregazione, come dimostrerebbero alcuni esiti del pensiero francese: il “disormeggio” di Emil Cioran o il “rizoma” di Gilles Deleuze e di Félix Guattari.

Nessuna fuga dal mondo, allora, ma una doppia fedeltà, che, come in Dietrich Bonhoeffer, cui Mancini ha dedicato una fondamentale monografia, guarda al cielo senza dimenticare la terra: « Non penso in alcun modo alla fede che fugge dal mondo -scriveva Bonhoeffer alla fidanzata Maria Wiedemayer nell’agosto del 1944- ma a quella che lo sperimenta, che l’ama e che gli resta fedele, a dispetto di tutte le sofferenze che ci presenta […]. Temo che i cristiani che stanno con un solo piede sulla terra, stiano anche con un solo piede in cielo».

La Lettera a Diogneto (II sec. d.C.) dimostra che questo sentire non era estraneo allo spirito dei primi cristiani, descritti infatti come uomini che testimoniano la loro straordinarietà pur uniformandosi ai costumi dei luoghi in cui si trovano a vivere. In questa scelta Italo Mancini riconosce una doppia fedeltà, alla coscienza religiosa e alla vita della polis, «perché il cristianesimo paradossale non solo non viola, ma esalta la libera profanità del mondano».

 www.avvenire.it

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sabato 15 gennaio 2022

IO, TU, L'ALTRO


- LA SFIDA DELLA FEDE 

E' DIVENTARE 

IL TU DELL'ALTRO -

- di Johnny Dotti

- Darsi il tu è impegnativo, noi facciamo come gli americani ma sbagliamo.

Il tu è una cosa seria.

La tradizione non era stupida nell’arrivare gradualmente al tu. La riduzione che c’è stata a causa dell’individualismo negli ultimi 80 anni è proprio una riduzione della ricchezza dei pronomi personali. Ogni persona è sei pronomi, ciascuno di noi è sei pronomi. Invece noi finiamo per giocare tutto tra l’io e il tu, peraltro immaginando che il tu è sempre l’altro. 

Mentre la sfida della fede è diventare il tu dell’altro.  Per me il Vangelo è tutto qui, in questa scommessa.

E va notato un altro elemento. Immaginiamo che la parte plurale – il noi, il voi, il loro – siano ‘persone’ e invece no: sono ‘persona’.  In lingua italiana, ma anche in quella tedesca, quella francese, inglese, cinese, eccetera, i pronomi personali sono ‘persona’.

Persona

La nostra persona è declinata in sei pronomi e questo, a ben vedere, è già scritto anche nella nostra biografia: abbiamo un nome e un cognome, il cognome è un ‘noi’, è un plurale.

Più vado avanti con gli anni più ho dei dubbi sull’io, perché l’esperienza concreta che facciamo nella vita è quella di essere il tu di qualcuno, o il ‘lei’ di qualcuno, o il ‘noi’ di qualcuno. L’individualismo ha ribaltato tutto e l’identificazione dell’uomo e della donna con l’individuo è una ferita mortale per l’umanità.

Noi abbiamo un’individualità, non siamo individui. E per questo la parola che io dono come gemma è tre. Tre è la struttura fondamentale della realtà.  Non è né uno né due, la realtà è uno e tre. La realtà della persona, la realtà della natura, la realtà di Dio è tre, cioè relazione radicale. Un papà e una mamma si danno già per un figlio, che ci sia o non ci sia biologicamente.

L’immaginario di un uomo e di una donna è quello di un figlio.  L’uomo senza il cosmo e senza Dio non esiste.  Oppure, antropologicamente, noi siamo intelletto, sentimento e spirito.

Torna il tre.

Questa è la tradizione cristiana e noi la stiamo completamente dimenticando. Viviamo in un tempo gnostico-manicheo, un tempo binario. Gli algoritmi, che hanno questa straordinaria potenza, sono binari. Sono 0 e 1.

La grande sfida per il cristiano è stare dentro questo mondo gnostico-manicheo, che è binario, che è bene e male, che è buono e cattivo, che è bianco e nero. E la nostra scelta deve sempre essere «o … o…». Scommettere sul tre è l’opposto, vuol dire «e… e…».

La Trinità è un «e…e…», la tensione tra il Padre e il Figlio genera lo Spirito.  È ciò che poi chiamiamo amore. La tensione tra un uomo e una donna genera un figlio.

Nella Genesi la tensione tra Dio e il cosmo genera l’uomo: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente».

Questa grandissima tradizione cristiana oggi è muta e oggi siamo finiti a immaginare che noi siamo il nostro io.  No! Un uomo non è il suo io.

Se fosse così non starebbe in piedi la Resurrezione, ad esempio. Chiediamocelo: ma noi forse resusciteremo con il corpo di quando avevamo 2 anni o 16 o 40? Quello che resuscita è il mistero di te.

Ciascuno è un mistero relazionale.

Infatti nel Vangelo nessuno riconosce Gesù ‘fisicamente’ dopo la Resurrezione.

I quadri del Rinascimento ci hanno ingannato rappresentando il Gesù Risorto simile al Gesù Crocifisso, questo ha cambiato il nostro immaginario. Nel Vangelo non accade così: la Maddalena non lo riconosce, Pietro non lo riconosce e neanche Giovanni.

Gesù Risorto viene riconosciuto solo nel momento relazionale, quando parla.

Non lo riconoscono in quanto individuo, ma in quanto persona. Gesù era radicalmente il tu dell’altro, e questa esperienza la si fa attraverso la parola, cioè attraverso l’amore.

Quando Gesù si manifesta come tu, lo riconoscono. Non sto parlando in astratto, questo discorso è «concreto», parola che è l’analogia di cattolico. In senso etimologico «concreto» è cum-crescere, far crescere insieme le cose.

Le dimensioni della realtà crescono insieme, in relazione.

La preghiera e il discernimento sono ciò che ci aiuta a sfuggire alla trappola della logica binaria. Possiamo anche definirla “esperienza radicale della propria fragilità”, questo è il discernimento quotidiano ed è ciò che fa dire a San Paolo: Quando sono debole è allora che sono forte. (2 Cor, 12,10). Fuori da una dinamica relazionale queste parole non hanno senso. Sono da matti, come anche felix culpa.

Cosa significano allora?  San Paolo dice che è esattamente il limite dell’io (debole) che dà la possibilità di accedere alla libertà del tu (forte).

Noi siamo il tu di Dio, questo è il punto di forza.

Anche Dante è uno che ha fatto questa esperienza spirituale e poi gli ha dato una forma incastonata nel tre: ha scritto tre cantiche, ciascuna composta di canti in terzine.

La tensione amorosa con Beatrice non era binaria, era un «e…e..». È l’essere capaci di stare dentro una relazione senza consumarla. Dovremmo impararlo anche nel matrimonio, a non ridurre tutto a un «o…o…».  C’è l’idea che il matrimonio sia l’incontro di due io, ma è una svista clamorosa perché due io si uccidono a vicenda.

Le tre tentazioni che Gesù vive nel deserto mettono alla prova proprio questo aspetto radicale. Sono le tentazioni fondamentali del figlio.

Il male non è da superare come prova di resistenza o di forza, ma proprio come tentazione che cerca di riportarti solo e soltanto al tuo io.  Lo scopo del male è mettere in discussione la figliolanza con Dio, che è relazione. Il male tenta di riportati solo e soltanto al tuo io.

Noi siamo un tu e siamo la libertà di essere il tu di Dio, il tu dei nostri fratelli, il tu di tua moglie, il tu dei tuoi figli, il tu degli amici e anche il tu del nemico.

Gesù è stato anche il tu del nemico. Vivere così è un pellegrinaggio spirituale bellissimo. Nel mondo binario, gnostico e manicheo, questo non è previsto. 

Anche rispetto a questo, insisto sul fatto che questa scommessa non è astratta, ma esperienziale.

Io vivo in una piccola comunità di famiglie da 35 anni e non abbiamo chiavi in casa.

Non è una scelta ideologica e neppure para-religiosa.  L’idea è che l’altro ti possa raggiungere in qualsiasi momento, perché l’altro ti salva.  È l’ospitalità.

L’ospite

Pensiamo a quello che accade nella Bibbia, Sara resta incinta quando Abramo ospita.  Quando usciamo da noi stessi, ci salviamo.  E non è un atto moralistico, è un atto di vita.

Se non ti apri all’altro, diventi rigido e immagini di essere l’artefice di te stesso.

L’ospite è il portatore dell’invisibile. Per il cristiano l’invisibile è addirittura più reale del visibile. Oggi nessuno ci crede più, perché ci limitiamo ad assorbire lo sguardo scientifico che osserva solo il visibile e ne dà informazioni basate su quantità e proporzioni. L’ospite invece porta l’imprevisto, l’impossibile, il non controllabile, la novità.

Siamo in relazione con questo mistero al punto che nella lingua italiana “ospite” si riferisce sia a chi ospita sia a chi è ospitato.  E qui ritorno alla persona che non è solo io-tu-egli, la nostra persona è anche noi-voi-essi.

Noi siamo una relazione radicale di pronomi, cioè di qualcosa che costituisce il nostro nome. La nostra libertà non è la libertà di scegliere, questo è un altro imbroglio del periodo post cartesiano. La libertà è essere ciò che si è chiamati a essere, è vocazione, è sentire che stai aiutando a venire al mondo il mistero di te. Libertà è mettersi nella condizione affinché Dio possa metterti al mondo.

È bellissimo!

Vivere, quindi, è nascere continuamente e quindi anche morire continuamente, cioè lasciar andare. Nella nostra tradizione il percorso esistenziale di tutte le preghiere è quella del pellegrinaggio.

Attorno abbiamo un sistema di pensiero che ci spinge alla consistenza, mentre invece la vita è esistenza, è un pellegrinaggio. C’illudiamo di consistere, e abbiamo rimosso il pensiero della morte. In questo senso la pandemia è un’apocalisse, cioè può essere una rivelazione. Dalle mie parti a Bergamo abbiamo visto migliaia di morti, non abbiamo potuto eludere l’incontro con sorella morte.  Noi crediamo che la morte vada combattuta, non è vero. Va combattuta la sofferenza, la miseria. Ma la morte è una compagnia, perché non c’è altra via per resuscitare.

Noi siamo vita, morte, resurrezione, eccoci di nuovo alla sfida cristiana del tre.

 

 

mercoledì 12 agosto 2020

L'ALTRO NON E' UN OGGETTO !


La pandemia ha messo in risalto quanto siamo tutti vulnerabili e interconnessi. Se non ci prendiamo cura l’uno dell’altro, a partire dagli ultimi, da coloro che sono maggiormente colpiti, incluso il creato, non possiamo guarire il mondo.
È da lodare l’impegno di tante persone che in questi mesi stanno dando prova dell’amore umano e cristiano verso il prossimo, dedicandosi ai malati anche a rischio della propria salute. Sono degli eroi! Tuttavia, il coronavirus non è l’unica malattia da combattere, ma la pandemia ha portato alla luce patologie sociali più ampie. Una di queste è la visione distorta della persona, uno sguardo che ignora la sua dignità e il suo carattere relazionale. A volte guardiamo gli altri come oggetti, da usare e scartare. In realtà, questo tipo di sguardo acceca e fomenta una cultura dello scarto individualistica e aggressiva, che trasforma l’essere umano in un bene di consumo (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 53; Enc. Laudato si’ [LS], 22).
Nella luce della fede sappiamo, invece, che Dio guarda all’uomo e alla donna in un altro modo. Egli ci ha creati non come oggetti, ma come persone amate e capaci di amare; ci ha creati a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,27). In questo modo ci ha donato una dignità unica, invitandoci a vivere in comunione con Lui, in comunione con le nostre sorelle e i nostri fratelli, nel rispetto di tutto il creato. In comunione, in armonia, possiamo dire. La creazione è un'armonia nella quale siamo chiamati a vivere. E in questa comunione, in questa armonia che è comunione, Dio ci dona la capacità di procreare e di custodire la vita (cfr Gen 1,28-29), di lavorare e prenderci cura della terra (cfr Gen 2,15; LS, 67). Si capisce che non si può procreare e custodire la vita senza armonia; sarà distrutta.
Di quello sguardo individualista, quello che non è armonia, abbiamo un esempio nei Vangeli, nella richiesta fatta a Gesù dalla madre dei discepoli Giacomo e Giovanni (cfr Mt 20,20-28). Lei vorrebbe che i suoi figli possano sedersi alla destra e alla sinistra del nuovo re. Ma Gesù propone un altro tipo di visione: quella del servizio e del dare la vita per gli altri, e la conferma restituendo subito dopo la vista a due ciechi e facendoli suoi discepoli (cfr Mt 20,29-34). Cercare di arrampicarsi nella vita, di essere superiori agli altri, distrugge l'armonia. È la logica del dominio, di dominare gli altri. L’armonia è un’altra cosa: è il servizio.
Chiediamo, dunque, al Signore di darci occhi attenti ai fratelli e alle sorelle, specialmente a quelli che soffrono. Come discepoli di Gesù non vogliamo essere indifferenti né individualisti, questi sono i due atteggiamenti brutti contro l’armonia. Indifferente: io guardo da un’altra parte. Individualisti: guardare soltanto il proprio interesse. L’armonia creata da Dio ci chiede di guardare gli altri, i bisogni degli altri, i problemi degli altri, essere in comunione.  Vogliamo riconoscere in ogni persona, qualunque sia la sua razza, lingua o condizione, la dignità umana. L’armonia ti porta a riconoscere la dignità umana, quell’armonia creata da Dio, con l’uomo al centro.
Il Concilio Vaticano II sottolinea che questa dignità è inalienabile, perché «è stata creata a immagine di Dio» (Cost. past. Gaudium et spes, 12). Essa sta a fondamento di tutta la vita sociale e ne determina i principi operativi. Nella cultura moderna, il riferimento più vicino al principio della dignità inalienabile della persona è la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che San Giovanni Paolo II ha definito «pietra miliare posta sul lungo e difficile cammino del genere umano»,[1] e come «una delle più alte espressioni della coscienza umana».[2] I diritti non sono solo individuali, ma anche sociali; sono dei popoli, delle nazioni.[3] L’essere umano, infatti, nella sua dignità personale, è un essere sociale, creato a immagine di Dio Uno e Trino. Noi siamo esseri sociali, abbiamo bisogno di vivere in questa armonia sociale, ma quando c’è l’egoismo, il nostro sguardo non va agli altri, alla comunità, ma torna su noi stessi e questo ci fa brutti, cattivi, egoisti, distruggendo l’armonia.
Questa rinnovata consapevolezza della dignità di ogni essere umano ha serie implicazioni sociali, economiche e politiche. Guardare il fratello e tutto il creato come dono ricevuto dall’amore del Padre suscita un comportamento di attenzione, di cura e di stupore. Così il credente, contemplando il prossimo come un fratello e non come un estraneo, lo guarda con compassione ed empatia, non con disprezzo o inimicizia. E contemplando il mondo alla luce della fede, si adopera a sviluppare, con l’aiuto della grazia, la sua creatività e il suo entusiasmo per risolvere i drammi della storia. Concepisce e sviluppa le sue capacità come responsabilità che scaturiscono dalla sua fede,[4] come doni di Dio da mettere al servizio dell’umanità e del creato.
Mentre tutti noi lavoriamo per la cura da un virus che colpisce tutti in maniera indistinta, la fede ci esorta a impegnarci seriamente e attivamente per contrastare l’indifferenza davanti alle violazioni della dignità umana. Questa cultura dell’indifferenza che accompagna la cultura dello scarto: le cose che non mi toccano non mi interessano. La fede sempre esige di lasciarci guarire e convertire dal nostro individualismo, sia personale sia collettivo; un individualismo di partito, per esempio.
Possa il Signore “restituirci la vista” per riscoprire che cosa significa essere membri della famiglia umana. E possa questo sguardo tradursi in azioni concrete di compassione e rispetto per ogni persona e di cura e custodia per la nostra casa comune.



Udienza 12 agosto 2020


domenica 27 dicembre 2015

LEVINAS: L'ALTRO E'DIO NEL PROSSIMO

IL VOLTO DELL'ALTRO E' PIU' SANTO DELLA TERRA SANTA

Vent’anni fa, nel giorno di Natale, moriva il grande pensatore di origini ebraiche. La sua instancabile ricerca sul volto come metafora attraverso cui praticare il rispetto e la pietà verso l’uomo.

In quel magnifico testo che è Adieu à Emmanuel Lévinas (sintesi perfetta di rigore analitico e ammirazione incondizionata) a un certo punto Derrida scrive: «Qui non posso e neppure vorrei tentare di misurare qualche parola sull’opera di Emmanuel Lévinas, di cui ricorrono a Natale i vent’anni dalla morte. 

Non se ne vedono nemmeno più i confini tanto è ampia (...) Si può prevedere con certezza che secoli di letture vi si dedicheranno (...) si potrà certamente dire che il risuonare di questo pensiero ha cambiato il corso della riflessione filosofica del nostro tempo e della riflessione sulla filosofia, su ciò che la rapporta all’etica, a un altro pensiero dell’etica, della responsabilità, della giustizia, dello Stato, ecc. a un altro pensiero dell’altro, a un pensiero più nuovo di tante altre novità perché si rapporta all’anteriorità assoluta del volto d’altri» ( J. Derrida, Addio, Jaca Book). 

È vero: quando si pensa a Lévinas si pensa subito all’etica, al volto dell’altro come origine dell’etica; d’altra parte è anche vero che così facendo, abbandonandosi a questa evidenza fin troppo luminosa, si rischia anche di lasciarsi sfuggire qualcosa di essenziale di questo pensiero ad un tempo originale e antico. Infatti, era fin troppo facile prevederlo, a partire da una certa interpretazione dell’opera levinassiana, anche se non solo da essa, si è presto sviluppata in questo ultimo decennio un’articolata e insistente retorica dell’altro che ha finito per rendere quasi insopportabile il suono stesso della parola “etica” e certamente sospetto il continuo rinviare al tema della “responsabilità per gli altri”......