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sabato 1 agosto 2020

LA CHIESA DOPO IL CORONAVIRUS



Un invito che nasce da una comprensibile inquietudine

-         Giuseppe Savagnone
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La lettera nella quale, in questi giorni, la Presidenza della CEI ha invitato i vescovi italiani a «porre le condizioni con cui aprirsi a nuove forme di presenza ecclesiale», in vista della ripartenza autunnale, non è casuale. Essa nasce da una preoccupazione, neppure troppo velata, di fronte alla constatazione che, dopo il lockdown, il ritorno alla celebrazione dell’Eucaristia con il popolo è stato «segnato anche da un certo smarrimento (in particolare, una diffusa assenza dei bambini e dei ragazzi), che richiede di essere ascoltato».
Dopo le accese proteste, soprattutto di quella parte del mondo cattolico più attaccata ai riti e alle devozioni, contro la sospensione della celebrazione delle liturgie eucaristiche; dopo che la stessa Presidenza della CEI aveva reagito con durezza contro il protrarsi di questa sospensione, arrivando a prospettare una violazione del diritto di libertà religiosa; dopo che si erano studiate minuziosamente le misure per conciliare la tutela della salute e il corretto svolgimento delle funzioni – dopo tutto questo, sembra che le chiese, ora che sono state riaperte, restino mezze vuote, perché molti – soprattutto i giovani – continuano a disertarle.
I limiti del virtuale
Possibile che una interruzione di poche settimane abbia sviato i fedeli dalla frequenza domenicale, ancora così radicata nel costume? O forse, più sottilmente, sono stati i vantaggi di una partecipazione virtuale a indurre molti a continuare a seguire la messa in Tv? Solo che in questo modo l’assemblea liturgica perderebbe istituzionalmente – e non solo per l’emergenza del lockdown – la sua ricchezza umana integrale, che comporta anche la dimensione fisica, e soprattutto il riferimento al banchetto eucaristico, in cui i fedeli si nutrono, del corpo e del sangue di Cristo, «vero cibo e vera bevanda».
Si capisce l’inquietudine della Presidenza della CEI, anche in riferimento a una ripresa che, in autunno, dovrebbe confrontarsi col problema della presenza fisica dei ragazzi nelle classi di catechismo e negli oratori.
L’urgenza dell’ascolto
È significativo, tuttavia, che la lettera accenni quasi di sfuggita alle difficoltà, insistendo piuttosto sulla necessità, da parte delle nostre comunità, di «aprirsi a nuove forme di presenza ecclesiale». Segno di una consapevolezza che il problema è più profondo del mancato ritorno in chiesa ed esige non tanto delle sterili recriminazioni, quanto un «ascolto» intelligente di ciò che sta accadendo nella nostra società.
La crisi c’era già prima del lockdown
In verità, dei germi di crisi erano già abbastanza evidenti anche prima del coronavirus. I giovani di cui oggi viene notata l’assenza erano a loro volta i superstiti di generazioni che da tempo, ormai, avevano abbandonato la pratica religiosa. Dalle più recenti inchieste risulta che oggi, in Italia, quasi metà dei giovani dai 18 ai 29 anni non credono in Dio, o perché pensano che non esista, o perché sono del tutto indifferenti al problema, o perché ci credono a intermittenza, qualche volta sì qualche volta no, o perché, pur ammettendo l’esistenza di una forza superiore, escludono che sia Dio. Colpisce l’accelerazione impressionante del fenomeno se si pensa che negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso gli atei erano tra il 10 e il 15% della popolazione giovanile.
Qualcosa deve cambiare
Fa riflettere il fatto che l’80% dei giovani «non credenti» è passato per il battesimo e la prima comunione, circa i due terzi per la cresima. I tre quarti hanno frequentato il catechismo. Sono perciò giovani che hanno abbandonato dopo l’iniziazione cristiana. È il fallimento del catechismo come viene praticato quasi ovunque. La grande fuga dei ragazzi si verifica di solito a conclusione di esso, come se i sacramenti che dovrebbero introdurli nella pienezza della vita cristiana fossero invece quelli del congedo da essa e dalla Chiesa.
I segni di un tramonto, ma anche la prospettiva di un nuovo inizio
Il tempo del coronavirus ha dunque solo evidenziato una crisi su cui forse si erano troppo a lungo chiusi gli occhi. Ma, se è vero che esso mette in risalto i segni di un tramonto, c’è da chiedersi se non mostri, al tempo stesso, alcuni elementi che potrebbero favorire un nuovo inizio, consentendo il superamento di alcuni schemi che ingabbiavano la pastorale, soprattutto giovanile.
Oltre i muri
Proprio la crisi della pratica religiosa tradizionale, quella che si svolge tra le mura dei templi, rimette in discussione uno di questi schemi, secondo cui si consideravano “veri cristiani” solo i cattolici “praticanti”, e “praticanti” solo quelli che andavano in chiesa la domenica. Il confinamento ci ha costretti a relativizzare, insieme al luogo fisico, le mura di divisione che separavano nettamente chi sta “dentro” e chi sta “fuori”. Nello spazio della rete tutti sono in grado di collegarsi a tutti e di partecipare anche se non l’avevano mai fatto. I confini sono saltati.
La rete come metafora: la “terra di mezzo”
Ma non è questa anche una potente metafora di uno stile ecclesiale diverso, dove “cattolico” torni a significare un’apertura illimitata alla totalità dei valori umani e quindi a tutti coloro che, anche per vie diverse da quelle dell’ortodossia ecclesiale, sono alla ricerca di un senso della vita?
Non per nulla sono i giovani i più capaci di utilizzare i nuovi mezzi di comunicazione. Lo spazio senza barriere della rete esprime bene la loro condizione, che non è quella di chi sta “dentro” la Chiesa , ma neppure quella di chi sta “fuori”. Più che di atei e di credenti bisognerebbe, perciò, parlare di giovani che abitano quella che un sociologo, Alessandro Castegnaro, ha definito una «terra di mezzo» tra credenza e incredulità e che, se non vanno in chiesa, non è perché abbiano definitivamente rifiutato la fede, ma perché non riescono più a riconoscersi nel modo tradizionale di proporla.
La Chiesa che può accogliere i giovani
Certo, guardando questi giovani ci si potrebbe chiedere: «Che cosa cercano? Cercano Dio?». In realtà, come scrive Castegnaro, «cercano innanzi tutto se stessi, cercano di non perdersi, cercano di ritrovarsi (…). Ma cercare se stessi non ha proprio niente a che fare con la ricerca di Dio?».
Ad essi può rispondere solo una Chiesa capace di accoglierli con le loro inquietudini, una Chiesa che apra lo spazio per «portare avanti le proprie esplorazioni, condurre incursioni, fare esperienze a partire dal bisogno di comprendere se stessi e dalla personale ricerca di senso».
Una partecipazione senza appartenenza
Questi giovani hanno bisogno di una partecipazione senza appartenenze rigide, di una proposta fatta in un linguaggio nuovo, non “ecclesiastico”, che, invece di riflettere certezze già precostituite, si sforzi di esprimere la complessità della vita e sia per questo comprensibile a tutti.
Non è il linguaggio che il coronavirus ci ha costretti a usare, in una liturgia del quotidiano che si è svolta tra casa nostra – luogo di condivisione, a volte faticosa, tra diversi, alle prese con le incombenze e le necessità della vita familiare – e le piattaforme del web, aperte senza limiti al mondo? Perché non imparare da questa esperienza un approccio non “sacrale”, meno che mai “clericale”, alla nostra fede, valorizzando la sua portata pienamente umana?
Discepoli della Sapienza
Una nota teologa, Serena Noceti, segnalava a questo proposito l’attualità della tradizione sapienziale, che attraversa tutta la Sacra Scrittura. Mentre la Torah, la Legge, enuncia le richieste di Jahvè al suo popolo e i libri profetici fanno percepire l’irruzione bruciante della Trascendenza nella nostra storia, i libri sapienziali insegnano a leggere la presenza di Dio nelle vicende della vita e della morte.
Sono i libri della riflessione sul quotidiano – Proverbi, Sapienza, Siracide –, ma anche i più drammatici della Bibbia – Qohelet, Giobbe. Qui non si parte dalle certezze, ma dalle domande – non quelle del catechismo, confezionate in vista delle risposte –; non dalla fede, ma dal grido che, come scrive Recalcati, è «il luogo primario della umanizzazione della vita». «Ma cos’è un grido? Nell’umano esprime l’esigenza della vita di entrare nell’ordine del senso, esprime la vita come appello rivolto all’Altro. Il grido cerca nella solitudine della notte una risposta nell’Altro. In questo senso, ancora prima di imparare a pregare e ancora di più nel tempo in cui pregare non è più come respirare, noi siamo una preghiera rivolta all’Altro».
Accogliamo i “gridi perduti nella notte”!
Forse da qui bisogna ripartire, con i giovani ma anche con gli adulti, ricordando che le nostra certezze di fede, se sono autentiche, non sono ereditarie, ma hanno richiesto una conquista: «Siamo stati tutti dei gridi perduti nella notte». Lasciamo entrare nelle nostre riunioni gli abitanti della “terra di mezzo” senza chiedere loro il passaporto. Anzi, rendendo queste riunioni, anche quando potranno essere fatte in presenza, fluide e accessibili come lo sono state le liturgie della rete (alle messe del papa, durante il lockdown, partecipavano tanti che in chiesa non andrebbero mai!).
La promessa che qualcosa di nuovo nascerà
Il coronavirus ci ha messo alla prova e forse sta accelerando la fine non solo di una società, ma anche di un certo modo di vivere la Chiesa. Ma noi, i cristiani, non dobbiamo aver paura del rinnovamento. Ciò che muore apre la strada a ciò che sta nascendo. E noi crediamo di dover avere un ruolo, con la nostra inventiva e i nostri poveri sforzi, nell’adempimento della promessa che sta a conclusione della Sacra Scrittura: «E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”» (Ap 21,5).




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